Bertoldo e Bertoldino (Giulio Cesare Croce)
(col Cacasenno di Adriano Banchieri)
Le sottilissime astuzie di Bertoldo.
Nuovamente reviste e ristampate con il suo testamento nell'ultimo e altri detti sentenziosi che nel primo non erano di Giulio Cesare Croce
Proemio
Qui non ti narrerò, benigno lettore, il giudicio di Paris, non il ratto di Elena, non l'incendio di Troia, non il passaggio d'Enea in Italia, non i longhi errori di Ulisse, non le magiche operazioni di Circe, non la distruzione di Cartagine, non l'esercito di Serse, non le prove di Alessandro, non la fortezza di Pirro, non i trionfi di Mario, non le laute mense di Lucullo, non i magni fatti di Scipione, non le vittorie di Cesare, non la fortuna di Ottaviano, poiché di simil fatti le istorie ne danno a chi legge piena contezza; ma bene t'appresento innanzi un villano brutto e mostruoso sì, ma accorto e astuto, e di sottilissimo ingegno; a tale, che paragonando la bruttezza del corpo con la bellezza dell'animo, si può dire ch'ei sia proprio un sacco di grossa tela, foderato di dentro di seta e oro. Quivi udirai astuzie, motti, sentenze, arguzie, proverbi e stratagemme sottilissime e ingegnose da far trasecolare non che stupire. Leggi dunque, che di ciò trarrai grato e dolce trattenimento, essendo l'opera piacevole e di molta dilettazione.
Nel tempo che il Re Alboino, Re dei Longobardi si era insignorito quasi di tutta Italia, tenendo il seggio reggale nella bella città di Verona, capitò nella sua corte un villano, chiamato per nome Bertoldo, il qual era uomo difforme e di bruttissimo aspetto; ma dove mancava la formosità della persona, suppliva la vivacità dell'ingegno: onde era molto arguto e pronto nelle risposte, e oltre l'acutezza dell'ingegno, anco era astuto, malizioso e tristo di natura. E la statura sua era tale, come qui si descrive.
Fattezze di Bertoldo.
Prima, era costui picciolo di persona, il suo capo era grosso e tondo come un pallone, la fronte crespa e rugosa, gli occhi rossi come di fuoco, le ciglia lunghe e aspre come setole di porco, l'orecchie asinine, la bocca grande e alquanto storta, con il labro di sotto pendente a guisa di cavallo, la barba folta sotto il mento e cadente come quella del becco, il naso adunco e righignato all'insù, con le nari larghissime; i denti in fuori come il cinghiale, con tre overo quattro gosci sotto la gola, i quali, mentre che esso parlava, parevano tanti pignattoni che bollessero; aveva le gambe caprine, a guisa di satiro, i piedi lunghi e larghi e tutto il corpo peloso; le sue calze erano di grosso bigio, e tutte rappezzate sulle ginocchia, le scarpe alte e ornate di grossi tacconi. Insomma costui era tutto il roverso di Narciso.
Audacia di Bertoldo.
Passò dunque Bertoldo per mezzo a tutti quei signori e baroni, ch'erano innanzi al Re, senza cavarsi il cappello né fare atto alcuno di riverenza e andò di posta a sedere appresso il Re, il quale, come quello che era benigno di natura e che ancora si dilettava di facezie, s'immaginò che costui fosse qualche stravagante umore, essendo che la natura suole spesse volte infondere in simili corpi mostruosi certe doti particolari che a tutti non è così larga donatrice; onde, senza punto alterarsi, lo cominciò piacevolmente ad interrogare, dicendo:
Ragionamento fra il Re e Bertoldo.
Re. Chi sei tu, quando nascesti e di che parte sei?
Bertoldo. Io son uomo, nacqui quando mia madre mi fece e il mio paese è in questo mondo.
Re. Chi sono gli ascendenti e descendenti tuoi?
Bertoldo. I fagiuoli, i quali bollendo al fuoco vanno ascendendo e descendendo su e giù per la pignatta.
Re. Hai tu padre, madre, fratelli e sorelle?
Bertoldo. Ho padre, madre, fratelli e sorelle, ma sono tutti morti.
Re. Come gli hai tu, se sono tutti morti?
Bertoldo. Quando mi partii da casa io gli lasciai che tutti dormivano e per questo io dico a te che tutti sono morti; perché, da uno che dorme ad uno che sia morto io faccio poca differenza, essendo che il sonno si chiama fratello della morte.
Re. Qual è la più veloce cosa che sia?
Bertoldo. Il pensiero.
Re. Qual è il miglior vino che sia?
Bertoldo. Quello che si beve a casa d'altri.
Re. Qual è quel mare che non s'empie mai?
Bertoldo. L'ingordigia dell'uomo avaro.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un giovane?
Bertoldo. La disubbidienza.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un vecchio?
Bertoldo. La lascivia.
Re. Qual è la più brutta cosa che sia in un mercante?
Bertoldo. La bugia.
Re. Qual è quella gatta che dinanzi ti lecca e di dietro ti sgraffa?
Bertoldo. La puttana.
Re. Qual è il più gran fuoco che sia in casa?
Bertoldo. La mala lingua del servitore.
Re. Qual è il più gran pazzo che sia?
Bertoldo. Colui che si tiene il più savio.
Re. Quali sono le infermità incurabili?
Bertoldo. La pazzia, il cancaro e i debiti.
Re. Qual è quel figlio ch'abbrugia la lingua a sua madre?
Bertoldo. Lo stuppino della lucerna.
Re. Come faresti a portarmi dell'acqua in un crivello e non la spandere?
Bertoldo. Aspettarei il tempo del ghiaccio, e poi te la porterei.
Re. Quali sono quelle cose che l'uomo le cerca e non le vorria trovare?
Bertoldo. I pedocchi nella camicia, i calcagni rotti e il necessario brutto.
Re. Come faresti a pigliar un lepre senza cane?
Bertoldo. Aspettarei che fosse cotto e poi lo pigliarei.
Re. Tu hai un buon cervello, s'ei si vedesse.
Bertoldo. E tu saresti un bell'umore, se non rangiasti.
Re. Orsù, addimandami ciò che vuoi, ch'io son qui pronto per darti tutto quello che tu mi chiederai.
Bertoldo. Chi non ha del suo non può darne ad altri.
Re. Perché non ti poss'io dare tutto quello che tu brami?
Bertoldo. Io vado cercando felicità, e tu non l'hai; e però non puoi darla a me.
Re. Non son io dunque felice, sedendo sopra questo alto seggio, come io faccio?
Bertoldo. Colui che più in alto siede, sta più in pericolo di cadere al basso e precipitarsi.
Re. Mira quanti signori e baroni mi stanno attorno per ubidirmi e onorarmi.
Bertoldo. Anco i formiconi stanno attorno al sorbo e gli rodono la scorza.
Re. Io splendo in questa corte come propriamente splende il sole fra le minute stelle.
Bertoldo. Tu dici la verità, ma io ne veggio molte oscurate dall'adulazione.
Re. Orsù, vuoi tu diventare uomo di corte?
Bertoldo. Non deve cercar di legarsi colui che si trova in libertà.
Re. Chi t'ha mosso dunque a venir qua?
Bertoldo. Il creder io che un re fosse più grande di statura degli altri uomini dieci o dodeci piedi, e che esso avanzasse sopra tutti come avanzano i campanili sopra tutte le case; ma io veggio che tu sei un uomo ordinario come gli altri, se ben sei re.
Re. Son ordinario di statura sì, ma di potenza e di ricchezza avanzo sopra gli altri, non solo dieci piedi ma cento e mille braccia. Ma chi t'induce a fare questi ragionamenti?
Bertoldo. L'asino del tuo fattore.
Re. Che cosa ha da fare l'asino del mio fattore con la grandezza della mia corte?
Bertoldo. Prima che fosti tu, né manco la tua corte, l'asino aveva raggiato quattro mill'anni innanzi.
Re. Ah, ah, ah! Oh sì che questa è da ridere.
Bertoldo. Le risa abbondano sempre nella bocca de' pazzi.
Re. Tu sei un malizioso villano.
Bertoldo. La mia natura dà così.
Re. Orsù, io ti comando che or ora tu ti debbi partire dalla presenza mia, se non io ti farò cacciare via con tuo danno e vergogna.
Bertoldo. Io anderò, ma avvertisci che le mosche hanno questa natura, che se bene sono cacciate via, ritornano ancora: però se tu mi farai cacciar via, io tornerò di nuovo ad insidiarti.
Re. Or va'; e se non torni a me come fanno le mosche, io ti farò battere via il capo.
Astuzia di Bertoldo.
Partissi dunque Bertoldo, e andatosene a casa e pigliato uno asino vecchio, ch'egli aveva, tutto scorticato sulla schiena e sui fianchi e mezo mangiato dalle mosche, e montatovi sopra, tornò di nuovo alla corte del Re accompagnato da un milione di mosche e di tafani che tutti insieme facevano un nuvolo grande, sì che a pena si vedeva, e gionto avanti al Re, disse:
Bertoldo. Eccomi, o Re, tornato a te.
Re. Non ti diss'io che, se tu non tornavi a me come mosca, ch'io ti farei gettar via il capo dal busto?
Bertoldo. Le mosche non vanno elleno sopra le carogne?
Re. Sì, vanno.
Bertoldo. Or eccomi tornato sopra una carogna scorticata e tutta carica di mosche, come tu vedi, che quasi l'hanno mangiata tutta e me insieme ancora: onde mi tengo aver servato quel tanto che io di far promisi.
Re. Tu sei un grand'uomo. Or va, ch'io ti perdono, e voi menatelo a mangiare.
Bertoldo. Non mangia colui che ancora non ha finito l'opera.
Re. Perché, hai tu forse altro da dire?
Bertoldo. Io non ho ancora incominciato.
Re. Orsù, manda via quella carogna, e tu ritirati alquanto da banda perché io veggio venire in qua due donne che devono forse voler audienza da me; e come io le avrò ispedite, tornaremo di nuovo a ragionare insieme.
Bertoldo. Io mi ritiro, ma guarda a dare la sentenza giusta.
Lite donnesca.
Vennero dunque due donne dinanzi al Re, e una di quelle aveva rubato uno specchio di cristallo all'altra, e quella di chi era lo specchio si chiamava Aurelia, e l'altra che l'aveva rubato si chiamava Lisa, la quale aveva il detto specchio in mano. E Aurelia querelandosi innanzi al re, disse:
Aurelia. Sappi, Signore, che costei ieri sera fu nella camera mia e mi rubbò quello specchio di cristallo ch'ella tiene in mano. Io gliel'ho addimandato più volte, ed essa me lo nega e non me lo vuol restituire, e però io t'addimando giustizia.
Lisa. Questa non è la verità, anzi sono più giorni ch'io lo comprai dei miei danari e non so come costei abbia tanto ardire di chiedere quello che non è suo.
Aurelia. Deh, giustissimo Re, non dar credito alle false parole di costei, perché ella è una ladra publica che non ha conscienza né fede, e sappi tua Maestà che io non mi sarei mossa a chiedere quello che non è mio per tutto l'oro del mondo.
Lisa. O che conscienza grossa! Sa ella mo' bene dare ad intendere di essere lei quella dalla ragione, e chi ti credesse, ah, sorella, ne sapresti trovare delle megliori? Ma noi siamo dinanzi a un giudice che conoscerà la mia innocenza e la tua falsità.
Aurelia. O terra, perché non t'apri a inghiottire questa ribalda che con tanta sfacciataggine nega quello che è mio, e di più si sforza dare ad intendere di esser lei quella dalla ragione e io dal torto? O Cielo, scopri tu la verità di questo fatto.
Sentenza giusta del Re.
Re. Orsù, achettatevi, che or ora io vi consolarò. Pigliate qua voi questo specchio e spezzatelo minutamente e diassene tanti pezzi all'una quanto all'altra e così tutte dua saranno contente. Che ne dite voi?
Lisa. Io sì mi contento, perché così sarà finita la lite fra noi, né gridaremo più insieme.
Aurelia. No, no. Diasi pur più tosto a lei che romperlo, perché io non potrei mai soffrire di vedere che fosse spezzato così bello specchio; e chi sa che un giorno, rimorsa dalla conscienza, ella non me lo renda. Portiselo dunque costei intiero a casa e sia qui finita la nostra tenzone.
Lisa. La sentenza del re mi piace; spezzisi pure, che mai più non avremo da rugare insieme. Su, che si venghi al fatto.
Prudenza del Re.
Re. Orsù, io conosco veramente che lo specchio è di colei che non vuole che si spezzi; perché al pianto, alle lagrime e al supplicare ch'ella fa, quanto al giudicio mio, mostra segno chiarissimo ch'ella n'è patrona e che quest'altra gliel'ha involato. Diasi adunque lo specchio a lei e mandisi via l'altra vergognosamente.
Aurelia. Io ti ringrazio infinitamente, benignissimo Signore, poiché conoscendo con la tua prudenza la malizia di costei, hai dato la sentenza retta, come giusto giudice; onde pregarò sempre il cielo che ti conservi e ti dia tutte le prosperità che desideri.
Re. Va' in pace, e sforzati d'esser da bene. In vero si conosce che lo specchio è di costei perché al lagrimar ch'ella faceva, mostrava chiaro segno ch'ei fosse suo.
Bertoldo ridendo di tal sentenza, dice:
Bertoldo. Questa non è buona cognizione, o Re.
Re. Perché non è buona cognizione?
Bertoldo. Tu credi dunque alle lagrime delle donne?
Re. Perché non vuoi tu ch'io gli creda?
Bertoldo. Or non sai tu che il suo pianto è un inganno? e che ogni cosa ch'esse fanno o dicono è l'istesso, però ch'esse piangono con gli occhi e ridono con il cuore; ti sospirano dinanzi, poi ti burlano di dietro, parlano al contrario di quello ch'esse pensano, e pensano al contrario di quello ch'esse parlano; però il versare delle lagrime loro, lo sbattersi, la mutazione della faccia, tutte sono fraudi, inganni e tradimenti che gli scorrono per la mente per adempire i loro ingordi e insaziabili desiderii.
Lodi date dal Re alle donne.
Re. Tanto hanno in esse bontà le donne, senno e prudenza, quanto alcuna di queste cose da te impostegli a torto; e se a sorte pur una pecca per fragilità è degna di scusa, per esser ella più molle e più facile al cadere in questi difetti che non è l'uomo. Ma dimmi un poco, non si può dire che sia morto colui che sia separato da tal sesso? Prima, la donna ama il suo marito, genera i figliuoli, li alleva, li nodrisce, li costuma e gli mostra tutte le buone creanze. La donna regge la casa, mantien la robba, custodisce la famiglia, sollecita le serve e provede a tutti i disordini che possono avvenire in casa, ama con fedeltà, è dolce da praticare, nobile da conversare, schietta nel contrattare e discreta nel comandare, pronta nell'ubidire, onesta nel ragionare, modesta nel procedere, sobria nel mangiare, parca nel bere, mansueta con quelli di casa e trattabile con quelli di fuora. In somma, la donna apresso l'uomo si può dire ch'ella sia una gemma orientale, legata in oro purissimo; e per una, che caschi in qualche frenesia o umore stravagante, mille all'incontro ne sono onestissime e da bene; e però io tengo che la sentenza da me data sia stata giusta.
Bertoldo. Veramente si vede che tu ami molto le donne, e però hai fatto sì bella spiegata di parole in lode loro. Ma che dirai tu se io ti farò tornare a dietro tutto quello che in suo favore hai detto, prima che tu vadi a dormire doman di sera?
Re. Quando tu farai questo, il quale tengo che sia impossibile che lo facci, io dirò che tu sei il primo uomo del mondo; ma se tu non lo farai io ti farò impiccar subito.
Bertoldo. Orsù, a rivederci domani.
Così, essendo sera, il Re si ritirò nelle sue stanze e Bertoldo, dopo aver cenato, andò a dormire alla stalla per quella notte, andando fantasticando fra sé di trovar strada acciò che il Re cantasse alla roversa di quanto avea detto in lode delle donne; e, avendo pensato una nuova astuzia, si pose a dormire, aspettando il giorno per porla in essecuzione.
Astuzia di Bertoldo.
Venuta la mattina, Bertoldo si levò dalla paglia e andò a trovare quella femina alla quale il Re aveva data la sentenza in favore e gli disse:
Bertoldo. Tu non sai quello che ha determinato il Re?
Aurelia. Io non so nulla se tu non me lo dici.
Bertoldo. Egli ha commesso che lo specchio sia spezzato, com'ei disse, e dato la metà a quell'altra perché ella si è appellata della sentenza; onde il Re, per non udire più querelle, vuole, col dividerlo, sodisfare all'una e all'altra.
Aurelia. Come che il Re ha determinato che il mio specchio sia spezzato, se di già egli ha sentenziato ch'esso mi sia restituito sano e intiero? Oh, che tu mi burli, va' via!
Bertoldo. Io non ti burlo, certo; che gliel'ho udito dire con la sua propria bocca.
Aurelia. Ohimè, che è quello ch'io sento; forsi ei fa questo per dar sodisfazzione a quella maledetta femina. Oh che giuste sentenze, oh che nobili azioni d'un Re, oh povera giustizia, come sei tu bene amministrata, poiché adesso si crede più alla bugia che alla verità. Oh misera me! Pur converrà ch'io ti veggia rotto in mille pezzi, caro il mio specchio, uh, uh!
Bertoldo. Il ciel volesse che non vi fusse di peggio.
Aurelia. E che cosa vi può essere di peggio per me che questo?
Bertoldo. Egli ha ordinato una legge che ogni uomo debba prendere sette mogli. Or mira un poco tu che ruina sarà per le case con tante femine.
Aurelia. Come, ch'ei vuole che ogni uomo pigli sette mogli? Oh questo è ben peggio che s'ei facesse rompere quanti specchi sono nella città. Ma che pazzia è questa che gli è saltata nel capo?
Bertoldo. Io non ti so dire altro, e t'ho detto tutto quello che a lui ho udito dire; a voi donne sta il diffendervi, prima che il male vada più avanti.
Così avendogli cacciato questo pulce nell'orecchio si partì da lei e se ne tornò alla corte aspettando di udire qualche gran novità avanti che fusse notte.
Tumulto di donne della città per questa baia.
Partito Bertoldo, Aurelia credendosi che ciò fusse la verità, subito andò a trovare le sue vicine e gli fece palese quel tanto che da Bertoldo aveva udito; le quali, udendo tal cosa, entrarono in tanta smania e in tanta furia che gettavano fuoco per tutto; e in meno d'un'ora si sparse tal nuova per tutta la città; onde si raccolsero insieme più di due mila femine, le quali, avendo discorso gran pezzo sopra tal fatto, si risolsero alla fine di andar a trovar il Re e quivi alla sua presenza gridar tanto e far tanto romore, che esso, vinto dalla loro importunità, si risolvesse a fare che la legge da lui nuovamente imposta non andasse più avanti. E così, tutte piene di rabbia e colme di sdegno, andarono a corte e ivi gionte cominciarono a fare i più gran strepiti e le maggior grida del mondo, a tale che il Re era quasi stordito, né sapendo la cagione di così gran tumulto, restò tutto confuso e pieno di maraviglia; laonde non potendo più sopportar tanta insolenza, tratto dalla colera e dallo sdegno, fu sforzato di ponere la pazienza da una banda nell'ultimo.
Il Re va in colera con le donne e Bertoldo gode.
E rivolto a quelle con faccia turbata, disse loro: "Che novità è questa ch'io sento? E di dove procede questa sollevazione? Chi vi ha messo in tanta smania? Dove nasce tanto fracasso? Perché fate tanta ruina? Sete voi forse spiritate? Che malanno avete? Ditelo in mal ora, femine del diavolo".
Donne. Che novità è la tua, o Re? Che umore di pazzia ti è saltato nel capo - rispose una delle più audaci e rabbiose - che frenesia ti è tocca a ordinare che ogn'uomo pigli sette mogli? O che nobile considerazione di prudente re! Ma sappi certo che ella non ti anderà fatta.
Re. Che cosa dite voi sciocche? Parlate pianamente, ch'io v'intenda, e vi risponderò.
Donne. Parlar pianamente, eh? Anzi bisognarebbe tirarti giù di quel seggio regale, dove ora siedi, e cavarti ambidue gli occhi.
Re. Che ingiuria, che dispiacere v'ho fatto io? Ditelo alla schietta, e non v'affocate tanto, cagne rabbiose che sete.
Donne. Non te l'abbiamo noi detto un'altra volta?
Re. Io non vi ho bene inteso, però tornatelo a dire.
Donne. Non è il peggior sordo, quanto quello che non vuole udire. Noi ti torniamo a dire che tu hai fatto un grande errore a ordinare per legge che ogn'uomo pigli sette donne per moglie, e che tu dovresti attendere ai negozi tuoi e del tuo regno e non t'impacciare in quello che a te non s'appartiene. Hai tu inteso adesso? Ma ben si vede che non hai punto di cervello e che sei pazzo affatto.
Il Re scaccia le donne e biasma il sesso feminile.
Ah, sesso ingrato e discortese, quando feci io tal legge? Levatevi or ora dalla presenza mia e andate alla malora, seme ribaldo e importuno, che adesso io conosco chiaramente che donna non vuol dinotare altro che danno e femina semina zizanie e discordie, che dalla casa ov'ella si parte si tira dietro ciò che può col rastello, e dove ella entra vi porta la fiamma e il fuoco; ella è una sentina d'inganni e di tradimenti, un baratro infernale nel quale si sentono di continuo i pianti e i lamenti de' miseri mariti; elle sono la ruina de' padri, tormento delle madri, flagello de' fratelli, vergogna de' parenti, consumamento delle case, e in somma elle sono pena e afflizzione di tutto il genere umano. Andate via tutte nella mala perdizione e non mi tornate mai più innanzi, spiriti infernali e bestie malvagie che voi siete. Oh che fracasso, oh che rovina hanno fatto queste pazze scatenate per niente! Ma s'io posso sapere chi sia stato l'autore di questa novità, io son risoluto di riconoscerlo secondo ch'egli merita. Ecco che pur sono andate via queste insolenti, che poco vi è mancato ch'esse non mi abbino cavati gli occhi con le dita.
Partite le donne e quietatosi alquanto il Re, Bertoldo ch'era stato in disparte ad ascoltar il tutto, essendogli riuscito il suo disegno, si fece, ridendo, innanzi al Re e gli disse:
Bertoldo. Che dici, o Re? Non ti diss'io che prima che tu andasti a letto il giorno d'oggi tu leggeresti il libro alla roversa di questo che ieri dicesti in lode delle donne? Or vedi, ch'elle ti hanno chiarito.
Re. O che cervelli diabolici andar a trovare inventiva ch'io abbia ordinato che ogni uomo debba prendere sette mogli, cosa che mai non m'imaginai, né pure me la sognai. O che mal seme, o che crudel razza!
Bertoldo. Tu sai i patti che sono fra te e me.
Re. Tu hai molto ben ragione; però vien, siedi meco su questo seggio regale, poiché tu l'hai meritato.
Bertoldo. Non ponno capire quattro natiche in un istesso seggio.
Re. Io ne farò fare un altro appresso di questo e vi sederai su, e darai audienza come me.
Bertoldo. Né amore, né signoria non vuol compagnia; però governa pur tu, che sei Signore.
Re. Io dubito che tu sia stato l'auttore di questo fracasso.
Bertoldo. Tu l'hai indovinato alla prima e non mi puoi castigare altrimente perch'io mi son ingegnato per adempire quanto avea promesso di fare.
Re. Orsù, poiché questa è stata tua invenzione, io ti perdono; ma come hai tu ordita questa diavoleria?
Bertoldo. Io sono andato a trovar colei alla quale tu concedesti lo specchio e gli ho dato ad intendere che tu volevi di nuovo farlo spezzare e darne la metà alla sua avversaria, e di più che tu avevi ordinato che ogn'uomo pigliasse sette mogli e perciò costei aveva radunato così gran numero di femine insieme e hanno fatto lo schiamazzo che tu hai sentito.
Il Re si pente di aver detto male delle donne, onde torna di nuovo a lodarle.
Re. Tu sei stato un grand'inventore, ma però di malizia, e tu hai quasi causato un gran disordine oggi, e hanno avuto mille raggioni, non che una, a muoversi ad ira contro di me; e non potevo credere che il sesso donnesco fusse così privo di cervello che si movesse a far tanto rumore senza grandissima cagione; e qual maggior occasione di questa gli potevi tu dare a farle irritare verso di me? E a me parimente hai dato occasione di dire contro di loro quello ch'io non vorrei aver detto per tutto l'oro del mondo; e ne son dolente e pentito, e torno a dire che la donna è un fonte di virtù, un fiume di bontà, un giardino di costumi, un monte di benignità, un prato di gentilezza, un campo di cortesia, un specchio di prudenza, una torre di magnanimità, un mare di pudicizia, e un fermo scoglio di costanza e di fermezza. Però chi vuol essere mio amico non dica male delle donne, perch'elle non offendono alcuno, non portano armi, non cercano risse, ma sono tutte mansuete, placide, benigne e quiete, amabili e ornate di tutte le creanze, si ché non incitar più l'ira mia verso di loro perché io ti farò dare condegno castigo.
Bertoldo. Io non toccherò più le corde di questa cittera, ma attenderemo ad altro e saremo amici.
Re. Sì, perché dice il proverbio: sta' discosto all'acqua corrente e da can che mostra il dente.
Bertoldo. Ancora, l'acqua cheta e l'uomo che tace, non mi piace.
La Regina manda a domandar Bertoldo al Re, perché lo vuol vedere.
Mentre ragionavano così famigliarmente il Re e Bertoldo, giunse un messo da parte della Regina, il qual disse al Re come la Regina desiderava di vedere Bertoldo, pregando sua Maestà a mandarglielo; e perché ella aveva inteso che costui si pigliava spasso di burlar le donne, aveva fatto pensiero di farlo bastonare ben bene; onde il Re, udito la dimanda della Regina, volto a Bertoldo, gli disse:
Re. La Regina ha mandato a domandarti. Ecco il messo, il qual è venuto a posta, ch'ella brama di vederti.
Bertoldo. Tanto per male, quanto per bene si portano le ambasciate.
Re. La conscienza sempre rimorde l'uomo tristo.
Bertoldo. Il riso della corte non si confà con quello della villa.
Re. L'innocente passa libero fra le bombarde.
Bertoldo. La donna irata, la fiamma impicciata e la padella forata son di gran danno in casa.
Re. Spesso interviene all'uomo tristo quello ch'ei teme.
Bertoldo. Il gambaro spesse volte salta fuora della padella per salvarsi, e si trova nelle bragie.
Re. Chi semina iniquità raccoglie de' mali.
Bertoldo. Sotto la scuffia bianca spesso vi sta la tigna ascosa.
Re. Chi ha intricato la tela la destriga.
Bertoldo. Mal si può destricare, quando i capi sono avviluppati.
Re. Chi semina le spine non vada senza scarpe.
Bertoldo. Non si può combattere contra più forti di sé.
Re. Non temere che alcuno ti faccia oltraggio.
Bertoldo. Al buon confortatore non duole il capo.
Re. Temi tu forsi che la Regina ti facci dispiacere?
Bertoldo. Donna iraconda, mar senza sponda.
Re. La Regina è tutta piacevole e brama di vederti; però va' via allegramente, e non dubitare.
Bertoldo. In ultimo se ne dirà, e tal ride che piangerà.
Bertold. è condotto dalla Regina.
Così Bertoldo fu condotto dalla Regina, la quale avendo inteso, come vi dissi, la burla fatta a quelle donne il giorno innanzi, aveva fatto preparare alquanti bastoni e commesso alle sue donne che, serratolo in una camera, gli sbattessero ben bene la polvere di sul mantello; e, subito ch'essa lo vide, mirando quel mostruoso aspetto, tutta sdegnata, disse:
Regina. Mira che ceffo di babuino.
Bertoldo. Il laveggio grida dietro la padella.
Regina. Come t'addimandi tu?
Bertoldo. Io non domando nulla.
Regina. Come ti chiami?
Bertoldo. Chi mi chiama, io gli rispondo.
Regina. Dico come tu t'appelli.
Bertoldo. Io non mi sono mai pelato, ch'io mi ricorda
Mentre che la Regina interrogava Bertoldo, una delle serve portò di nascosto un vaso pieno d'acqua per fargli batter dentro il sedere, ma il villano astuto, accortosi di ciò, stava molto bene avvertito, e subito pensò una nuova astuzia, seguitando pur la Regina il suo parlare.
Astuzia di Bertoldo, perché non gli fusse bagnato il podice.
Regina. Come fai tu tante astuzie, che tu pari un indovino?
Bertoldo. Ogni volta che mi vien adacquato il sedere, io indovino ogni cosa, e so se una donna fa l'amore e se ella ha mai fatto errore con alcuno, e s'ella è casta overo impudica; e in somma io indovino ogni cosa, e se vi fusse chi mi volesse bagnar di dietro io vi saprei dir ogni cosa adesso, adesso.
Bertoldo scampa la furia dell'acqua.
Allora quella serva che aveva portato il secchio con l'acqua per bagnarlo, udendo tal parola, lo portò via pian piano, per sospetto di non essere scoperta di qualche macchia; né ve ne fu alcuna che ardisse di fargli scherzo alcuno, perché tutte avevano, come si suol dire, qualche straccio in bucato. Ma la Regina, che ardeva di sdegno contro di costui, impose che esse pigliassero un bastone per ciascheduna in mano e lo bastonassero ben bene; ond'esse se gli avventarono addosso con maggior impeto che non fecero le furiose Baccanti addosso al misero Orfeo. Onde, vedendosi il povero Bertoldo in così gran pericolo, ricorse di nuovo all'usata astuzia, e rivolto a loro così disse:
Nuova astuzia di Bertoldo per non esser bastonato.
Bertoldo. Quella di voi che ha trattato di avvelenar il Re alla mensa, quella sia la prima a pigliare il legno e percuotermi, ch'io mi contento.
Allora tutte s'incominciarono a guardare l'una con l'altra, dicendo: "Io non ho mai pensato di far questo"; "Né io", rispondeva l'altra, e così di mano in mano risposero tutte e per sino la Regina, a tale ch'esse tornarono i bastoni al suo luogo e il sagacissimo e buon Bertoldo restò illeso da quelle aspre percosse per allora.
La Regina brama che Bertoldo sia bastonato per ogni modo.
La Regina, che tuttavia ardeva di sdegno contra Bertoldo, e volendo per ogni modo ch'ei fosse bastonato, mandò a dire alle sue guardie che nell'uscir fuora lo bastonassero senza remissione alcuna e lo fece accompagnare a quattro dei suoi servi, i quali poi gli portassero la nuova di tutto quello ch'era successo.
Astuzia sottilissima di Bertoldo, per non essere percosso dalle guardie.
Quando Bertoldo vidde che in modo alcuno non la poteva fuggire, ricorse all'usato giudicio e, volto alla Regina disse: "Poi ch'io veggio chiaramente che pur tu vuoi ch'io sia bastonato, fammi questa grazia: ti prego in cortesia, che la domanda è onesta e la puoi fare, in ogni modo a te non importa pur ch'io sia bastonato, di' a questi tuoi che mi vengono accompagnare, che dicano alle guardie che portino rispetto al capo e che elle menino poi il resto alla peggio".
La Regina, non intendendo la metafora, comandò a coloro che dicessero alle guardie che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio che sapevano; e così costoro, con Bertoldo innanzi, s'inviarono verso le guardie, le quali aveano di già i legni in mano per servirlo della buona fatta; onde Bertoldo incominciò a caminare innanzi agli altri di buon passo, sì che era discosto da loro un buon tratto di mano. Quando coloro che l'accompagnavano viddero le guardie all'ordine per far il fatto ed essendo omai Bertoldo arrivato da quelle, cominciarono da discosto a gridare che portassero rispetto al capo e che poi menassero il resto alla peggio, che così aveva ordinato la Regina.
I servi sono bastonati in cambio di Bertoldo.
Le guardie, vedendo Bertoldo innanzi agli altri, pensando che esso fusse il capo di tutti, lo lasciarono passare senza fargli offesa alcuna, e quando giunsero i servi gli cominciarono a tempestare di maniera con quei bastoni che gli ruppero le braccia e la testa, e in somma non vi fu membro né osso che non avesse la sua ricercata di bastone. sì tutti pesti e fracassati tornarono alla Regina, la quale, avendo udito che Bertoldo con tale astuzia s'era salvato e aveva fatto bastonare i servi in suo luoco, arse verso di lui di doppio sdegno e giurò di volersene vendicare, ma per allora celò lo sdegno che ella avea, aspettando nuova occasione; facendo in tanto medicare i servi, i quali, come vi dissi, erano stati acconci per le feste, come si suol dire.
Bertoldo. torna dal Re, e fa una burla a un parasito.
Venuto l'altro giorno, la sala regale s'incominciò a empire di cavalieri e baroni, secondo il solito, e Bertoldo non mancò di comparire al modo usato; laonde vedutolo il Re, lo chiamò a sé e disse:
Re. E bene, come passò il negozio fra te e la Regina?
Bertoldo. Dall'orlo alla scarpa vi fu poco vantaggio.
Re. Il mare era molto turbato.
Bertoldo. Chi sa ben veleggiare passa ogni golfo sicuramente.
Re. Il cielo minacciava gran tempesta.
Bertoldo. La tempesta s'è scaricata sopra d'altri.
Re. Credi tu che sia tornato sereno?
Bertoldo. Io lasciai il cielo molto turbato.
Insolenza d'un parasito.
Allora un parasito che stava appresso il Re, il quale serviva ancora per far ridere e si chiamava Fagotto per essere egli uomo grosso, picciolo di statura, con il capo calvo, disse al Re: "Di grazia, Signore, fammi grazia ch'io ragioni un poco con questo villano, ch'io lo voglio chiarire". Disse il Re a lui: "Fa' quello che ti pare; ma guarda a non fare come fece Benvenuto, il quale andò per radere e fu raduto". "No, no - rispose Fagotto - io non ho paura di lui", e volto verso Bertoldo con un ceffo stravagante le disse:
Fagotto. Che dici tu barbagianni caduto del nido?
Bertoldo. Con chi parli tu, allocco spennacchiato?
Fagotto. Quante miglia sono dal far della luna ai Bagni di Lucca?
Bertoldo. Quanto fai tu dal caldaron della broda alla stalla?
Fagotto. Per che causa fa la gallina negra l'ova bianche?
Bertoldo. Per che causa il staffile del Re fa venire nere a te le chiappe di Fabriano?
Fagotto. Chi sono più, i Turchi o gli Ebrei?
Bertoldo. Chi sono più, quelli che tu hai nella camicia o nella barba?
Fagotto. Il villano e l'asino nacquero tutti due a un parto istesso?.
Bertoldo. Il gnattone e il porco mangiano tutti due ad un'istessa conca?
Fagotto. Quant'è che tu non hai mangiato rape?
Bertoldo. Quant'è che non t'è stato dato la coperta?
Fagotto. Sei tu un bufalo o una pecora?
Bertoldo. Non mettere in ballo i tuoi parenti.
Fagotto. Sin quando starai tu a lasciar da parte le tue astuzie?
Bertoldo. Quando tu lascierai stare di leccare i piatti di cucina.
Fagotto. Al villano non gli dar bacchetta in mano.
Bertoldo. Al porco e alla rana non gli levare il fango.
Fagotto. Il corvo mai non portò nuova buona.
Bertoldo. Il nibbio e l'avoltore vanno sempre dietro le carogne.
Fagotto. Io sono uomo da bene e ben creato.
Bertoldo. Chi si loda s'imbroda.
Fagotto. Il villano è un mal animale.
Bertoldo. E l'adulatore è un brutto mostro.
Fagotto. Non fu mai villano senza malizia.
Bertoldo. Non fu mai gallo senza cresta, né parassito senza adulazione.
Fagotto. Le tue scarpe hanno aperta la bocca.
Bertoldo. Le ridono di te, che sei una bestia.
Fagotto. Le tue calze sono tutte rappezzate.
Bertoldo. Meglio è avere rappezzato le calze che il mostaccio come hai tu.
Avea costui molti segni sulla faccia che gli erano stati dati per suo benemerito; dove che, sentendosi toccare sul vivo, né sapendo che si rispondere, venne rosso in viso come il fuoco per vergogna, tanto più che tutta la corte cominciò a ridere di questo motto, onde cominciossi ad acchettare; e volontieri si saria partito se quei cavalieri non l'avessero trattenuto.
Ma Bertoldo, che per aver ragionato assai aveva la bocca piena di saliva, né sapendo dove sputare, essendo ornata la sala tutta e le pareti di panni di seta e d'oro, disse al Re: "Dove vuoi tu ch'io sputi?" Disse il Re: "Va, sputa in piazza". Allora Bertoldo voltossi verso Fagotto, qual era tutto calvo, come già vi dissi, gli sputò in mezo della testa, onde costui alterato si querelò innanzi al Re dell'ingiuria fatta. Disse Bertoldo: "Il Re mi ha dato licenza ch'io sputi in piazza; e qual è la più bella piazza quanto la tua testa? Non si dice per proverbio, testa calva, piazza da pedocchi? Ecco dunque ch'io non ho fatto errore alcuno, e che io ho sputato in piazza secondo la commissione del Re".
Tutta la corte diede ragione a Bertoldo, e Fagotto spazzandosi la zucca convenne aver pazienza; e avrebbe voluto esser digiuno di essersi mai impacciato con lui; e tutti n'ebbero gran piacere perché costui faceva professione di bellissimo ingegno e dava delle canzoni a tutti; e ora non ardiva a pena di alzare più gli occhi per vergogna, e fu quasi per andarsi a impiccare per il dispiacere.
E perché era sera, il Re accomiatò tutti i suoi baroni e disse a Bertoldo che tornasse da lui il dì seguente, ma che non fusse né nudo né vestito.
Astuzia galante di Bertoldo nel tornare innanzi al Re nel modo ch'ei gli aveva detto.
Venuta la mattina, Bertoldo comparve alla presenza del Re involto in una rete da pescare, e il Re, vedutolo a quella maniera, gli disse:
Re. Perché sei tu comparso così alla presenza mia?
Bertoldo. Non dicesti tu ch'io tornassi a te questa mane e che io non fosse né nudo né vestito?
Re. Sì, dissi.
Bertoldo. Ed eccomi involto in questa rete, con la quale parte copro delle membra, e parte restano scoperte.
Re. Dove sei stato fino ad ora?
Bertoldo. Dove son stato più non sono, e dove son ora non vi può stare altri che me.
Re. Che cosa fa tuo padre, tua madre, tuo fratello e tua sorella?
Bertoldo. Mio padre d'un danno ne fa due; mia madre fa alla sua vicina quello che non gli farà mai più; mio fratello quanti ne trova, tanti ne ammazza; e mia sorella piange di quello ch'ella ha riso tutto quest'anno.
Re. Dichiarami questo imbroglio.
Bertoldo. Mio padre, nel campo desiderando di chiudere un sentiero, vi pone dei spini; onde quei che solevano passare per detto sentiero, passano or di qua or di là dai detti spini, a tale che d'un solo sentiero, che vi era, ne viene a far due. Mia madre serra gli occhi a una sua vicina che muore, cosa che non gli farà mai più. Mio fratello, stando al sole, ammazza quanti pedocchi trova nella camicia. Mia sorella tutto quest'anno s'è data trastullo con il suo marito, e ora piange nel letto i dolori del parto.
Re. Qual è il più lungo giorno che sia?
Bertoldo. Quello che si sta senza mangiare.
Re. Qual è la più gran pazzia dell'uomo?
Bertoldo. Il riputarsi savio.
Re. Per che causa vien più presto canuta la testa che la barba?
Bertoldo. Perché i capelli son nati prima della barba.
Re. Qual è quel figlio che pela la barba a sua madre?
Bertoldo. Il fuso.
Re. Qual è quell'erba che fin i ciechi la conoscono?
Bertoldo. L'ortica.
Re. Qual è quella femina che balla sempre nell'acqua e mai non si lava i piedi?
Bertoldo. La barca.
Re. Qual è colui che si serra in prigione da sua posta?
Bertoldo. Il bigatto, o cavaliero da seta.
Re. Qual è il più tristo fiore che sia?
Bertoldo. Quello ch'esce della botte quando si finisce il vino.
Re. Qual è la più sfacciata cosa che sia?
Bertoldo. Il vento, che si caccia fin sotto i panni delle donne.
Re. Qual è colei che nessun non la vuole in casa?
Bertoldo. La colpa.
Re. Qual è quel storto che taglia le gambe a tutti i dritti?
Bertoldo. Il ferro, overo falce da mietere il grano.
Re. Qual è la più gramma femina che sia?
Bertoldo. La gramma da fare il pane.
Re. Quanti anni hai tu?
Bertoldo. Chi numera gli anni fa conto con la morte.
Re. Qual è la più bianca cosa che sia?
Bertoldo. Il giorno.
Re. Più del latte?
Bertoldo. Più del latte e della neve ancora.
Re. Se tu non mi fai vedere questo, io ti voglio far battere duramente.
Bertoldo. Oh infelicità e miseria delle corti.
Astuzia ingegnosa di Bertoldo, per non aver delle busse.
Andò dunque Bertoldo e prese un secchio di latte e secretamente lo portò nella camera del Re e serrò tutte le finestre, ed era mezogiorno ed entrando il Re nella camera venne a urtare nel detto secchio di latte e lo roversò tutto, e poco vi mancò ch'ei non cadesse con la faccia per terra; onde tutto irato fece aprire i balconi e, vedendo quel latte sparso per terra ed esso avere urtato in quel secchio, cominciò a gridare, dicendo:
Re. Chi è stato colui che ha posto quel secchio di latte nella camera mia e ha serrato le finestre acciò ch'io v'urti dentro?
Bertoldo. Sono stato quell'io, per provarti che il giorno è più bianco e più chiaro del latte, perché se il latte fosse stato più bianco del giorno egli t'avria fatto lume per la camera e non averesti urtato nel secchio, come hai fatto.
Re. Tu sei un astuto villano e a ogni cesto trovi il suo manico. Ma chi è questo che viene in qua? Costui è un messo della Regina, certo, e ha una lettera in mano. Tirati un poco da banda, ch'io intenda quello che dice costui.
Bertoldo. Io mi ritiro e il Ciel voglia ch'ella non sia trista nuova per me.
Umor fantastico saltato nel capo alle donne della città.
Venne dunque il messo inanzi, e fatto la debita riverenza al Re, gli porse la carta in mano, il cui contenuto era questo, che le matrone di quella città, cioè le più nobili, bramavano, anzi pur dimandavano liberamente al Re di potere esse ancora entrare né consigli e reggimento della città, come erano i loro mariti, e metter fave e balottare, e udire le querele e sentenziare, e in conclusione di fare anch'esse tutto quello che facevano quelli del Senato e primati della città, allegando che ve n'erano state dell'altre che avevano retto imperii e regni con tanta prudenza, e più tal ora che non avevano fatto molti re e imperatori passati, e che molte erano uscite alla campagna armate e avevano diffesi i loro stati e regni valorosamente, e che perciò il Re non doveva rifiutarle ma accettarle e far partecipe ancor loro di quanto addimandavano, perché pur loro pareva strana cosa che gli uomini avessero il dominio d'ogni cosa e che esse fossero tenute per nulla; alludendo nel fine che tanto esse sariano secrete nelle cose d'importanza quanto gli uomini e forse più, e di ciò la Regina faceva molta instanza, raccomandandogli caldamente tal negozio. Letto il Re la lettera, e inteso la pazza domanda di queste femine, non sapeva che risoluzione si dovesse prendere; onde volto a Bertoldo gli narrò tutto il fatto, il quale prese fortemente a ridere, onde il Re alterato alquanto gli disse:
Re. Tu ridi, manigoldo?
Bertoldo. Io rido per certo, e chi non ridesse adesso meritarebbe che gli fussero cavati tutti i denti.
Re. Perché?
Bertoldo. Perché queste donne ti hanno scorto per un babuino e non per Alboino, e per questo elle ti hanno fatto questa pazza domanda.
Re. A loro sta il domandare, a me il servirle.
Bertoldo. Tristo quel cane che si lascia prendere la coda in mano.
Re. Parla, ch'io t'intenda.
Bertoldo. Triste quelle case che le galline cantano e il gallo tace.
Re. Tu sei come il sole di marzo, che commove e non risolve.
Bertoldo. A buono intenditore poche parole bastano.
Re. Cavamela fuori del sacco una volta.
Bertoldo. Chi vuol tener la casa monda, non tenghi polli né colomba.
Re. A proposito, chiodo da carro, vieni alla conclusione.
Bertoldo. Ch'intende, chi non intende, e chi non vuol intendere.
Re. Chi s'impaccia con frasche, la minestra sa di fumo.
Bertoldo. Che cosa vuoi tu da me, insomma?
Re. Io voglio il tuo consiglio in questa occasione.
Bertoldo. La formica chiede del pane alla cicala, adesso.
Re. So che tu hai ingegno e che sei copioso d'invenzioni, e però io voglio dare a te l'assunto di tutto questo negozio.
Bertoldo. Se a me dai l'assonto di questo, non ti dubitare che presto te le caverò da torno; lassa pur far a me, che s'elle ti parlano mai più di questo fatto, io sono un cane.
Re. Orsù, ingègnati di espedirle quanto prima.
Bertoldo. Lassa pur fare a me.
Astuzia di Bertoldo per cavare questo capriccio del capo alle dette femine.
Andò dunque Bertoldo in piazza e comprò un uccelletto, e lo pose in una scatola e portollo al Re dicendo che mandasse quella scatola così serrata alla Regina e che essa la mandasse a quelle donne e che gli commettesse espressamente che non l'aprissero e che la mattina seguente tornassero e che portassero la scatola così serrata che il Re gli farebbe loro la grazia di quanto chiedevano. Il messo prese la scatola e la portò alla Regina, la quale la consegnò alle dette matrone che in camera di lei stavano aspettare la risposta, commettendole espressamente da parte del Re che non dovessero in modo alcuno aprir la detta scatola e che tornassero il dì seguente, ch'elle avriano ottenuto tutto quello ch'esse desideravano dal Re. E così si partirono tutte consolate dalla Regina.
Curiosità di cervelli donneschi.
Partite che furono le dette femine dalla Regina, gli venne gran desiderio di vedere quello ch'era in detta scatola e cominciarono l'una con l'altra a dire: "Vogliamo noi veder quello che si rinchiude qui dentro?" Altre dicevano: "Non facciamo, perché abbiamo espressa commissione di non aprirla, perché forsi v'è dentro qualche cosa importante per il Re". "Che cosa vi può egli essere? - dicevano le più curiose - e poi se noi l'apriamo non sapremo ancora serrarla com'ella sta? Sì, sì, apriamola pure e siaci dentro quello che si voglia".
Risoluzione di donne.
Al fine, dopo molti bisbigli fatti fra di loro, si risolsero di aprirla, né così tosto ebbero levato il coperchio, che l'uccello che v'era dentro spiegò l'ali e si levò in aere e volò via; onde ne restarono tutte confuse e di mala voglia, e tanto più poiché esse non poterono vedere che uccello si fusse quello, perché con tanta velocità se gli levò di vista che non poterono discernere s'egli era o passero o rosignuolo, perché se l'avessero veduto avrebbono forsi fatto instanza di averne uno simile a quello, e la mattina che seguiva avriano portato la scatola come l'avevano avuta e non vi saria stato male alcuno.
Dolore delle dette donne per essergli scampato via l'uccello.
Stavano dunque tutte dolenti e malenconiche queste povere madonne per aver perso il detto uccello, e riprendendo la sua curiosità dicevano: "Meschine noi, come avremo più faccia di tornare innanzi al Re, poiché non abbiamo osservato il suo comandamento, né abbiamo solo potuto tener stretto l'uccello per una notte. Misere e sconsolate noi, che animo, che ardire sarà il nostro domattina?" Così passarono tutta quella notte con dolore e angustia, né si sapevano risolvere se dovevano tornare il dì seguente innanzi al Re, o pur starsene a casa.
Risoluzione di donne animose.
Passata la notte e tornato il giorno chiaro, le dette donne si levarono e si ridussero insieme, e come disperate non sapevano che partito si dovessero pigliare circa il tornare più alla presenza del Re, per l'errore commesso; e parimente stavano in dubbio se dovevano tornare dalla Regina, o sì o no; chi diceva a un modo e chi a un altro, chi persuadeva di andare, chi di restare. Al fine, dopo molti parlamenti, si fece innanzi una di loro che aveva un poco più gagliardo il cervello di tutte l'altre e disse: "A che perdere più tempo in far tante chiacchiere fra noi? L'errore è già fatto, né si può coprire, né manco emendare se non con chiedere perdono al Re e confessare liberamente il fatto com'egli sta. Imperocché esso è di natura benigno e massime con le donne, facilmente ci perdonerà; e io sarò la prima andare inanzi. Su, fate buon animo e seguitatemi poiché questa all'ultimo non è morte d'uomo; sarebbe mai egli più che un uccelletto da quattro quattrini il quale è volato via? Venite meco e non temete punto". Altre dicevano che il Re averebbe più a sdegno l'atto della disobedienza, che se esse gli avessero fatto scampar via quanti fagiani e pernici egli si trovava avere ne' suoi boschetti e giardini. Al fine, volta e rivolta, si risolsero d'appresentarsi alla Regina e narrargli il fatto, e così fecero.
Le donne vanno dalla Regina ed essa le conduce innanzi al Re.
Udendo la Regina simil cosa, restò molto travagliata nell'animo e non sapeva che si dire, né che si fare, temendo di qualche gran disordine; pur fece buon cuore e andò dal Re con tutta questa comitiva di donne, le quali dovevano essere sino a trecento e tutte quante venivano col capo basso e tutte vergognose. Giunto che fu la Regina nella gran sala, salutò il Re ed esso rese a lei il saluto allegramente; poi la fece sedere appresso di sé e gli addimandò che buona nuova la conduceva a lui con tanta compagnia di donne.
La Regina racconta al Re la fuga dell'uccelletto.
Disse la Regina: "Sappia tua Maestà ch'io son venuta qui dinanzi alla tua Corona con queste nobilissime madonne per la risposta della domanda fatta a te per via d'entrare ancor esse ne' negozi e offici istessi che hanno quei del Senato; alle quali avendo tua Maestà mandato quella scatola con espressa commissione ch'elle non l'aprissero in modo alcuno e tornarla a lei nel modo ch'ella gli era stata data, ora una più curiosa dell'altre avendo desiderio di vedere quello che vi si rinchiudeva dentro, l'aperse non pensando più oltre; e l'uccello subito scampò via; onde elle sono restate tanto addolorate di simil fatto ch'elle non ardivano di levar più la testa, né mirarti in viso per la gran vergogna ch'elle hanno per aver trasgredito il precetto regale. Tu dunque, che sempre fosti benigno e clemente verso tutti, perdona loro, pregoti, tale errore, che non per disubbidire a tua Maestà, ma per un loro curioso desiderio hanno fatto simil fallo. Eccole qui pentite e dolenti innanzi a te, ch'elle ti chiedono umilmente perdono".
Il Re si mostra turbato forte e riprende le donne di tal fatto, poi gli perdona e le manda a casa.
Allora il Re mostrando avere a sdegno simil fatto, volto a loro con un viso turbato, disse: "Voi vi siete dunque lasciato scampare l'uccello fuori della scatola? Ahi, femine sciocche e di poco cervello! e poi avete ardimento di voler entrare ne' consigli segreti della mia corte? Or come potreste, ditemi voi, tenere un secreto, dove andasse l'interesse dello stato mio e della vita degli uomini, se un'ora intiera non avete potuto tener serrato una scatola, la quale io ho raccommandata con tanta instanza? Tornate dunque ai vostri esercizi e ad aver cura delle vostre famiglie e governare le case vostre, come è solito vostro, e lasciate il governo della città agli uomini. Io so che le cose andrebbono per i loro piedi, s'elle avessero a passare per le vostre mani: non vi sarebbe cosa tanto secreta e occulta che non si sapesse in un'ora per tutta la città. Orsù, levatevi su, ch'io vi perdono, e andate alle case vostre e non entrate mai più in simil frenetico".
Poi licenziò similmente la Regina, facendola accompagnare sino alle sue stanze da molti cavalieri. Così si partirono quelle povere donne tutte di mala voglia, né mai più parlarono di entrare in consiglio, né di balottare o mettere fave, essendo elle state balottate per sempre dal Re per opera però dell'astuto Bertoldo, al quale il Re rivolto, ridendo, disse:
Re. Questa è stata una bellissima invenzione, ed è riuscita molto bene.
Bertoldo. Ben vada la capra zoppa, fin che nel lupo ella s'intoppa.
Re. Perché dici tu questo?
Bertoldo. Perché donna, acqua e fuoco per tutto si fan dar luoco.
Re. Chi ha il seder nell'ortica, spesse volte gli formica.
Bertoldo. Chi sputa contra il vento si sputa nel mostaccio.
Re. Chi piscia sotto la neve forza è che si discopra.
Bertoldo. Chi lava il capo all'asino perde la fatica e il sapone.
Re. Parli tu forsi così per me?
Bertoldo. Per te parlo apunto e non per altri.
Re. Di che cosa ti puoi tu doler di me?
Bertoldo. Di che poss'io lodarmi?
Re. Dimmi in che cosa tu ti senti aggravato da me.
Bertoldo. Io ti sono stato coadiutore in cosa di tanta importanza e tu in cambio di assicurarmi della vita mi dai la burla.
Re. Io non son tanto ingrato ch'io non conosca i tuoi meriti.
Bertoldo. Il conoscerli è poco, il tutto è il riconoscerli.
Re. Taci, ch'io ti voglio rimunerare in guisa ch'io voglio che tu stia sempre a piè pari.
Bertoldo. Anco quelli che sono appiccati stanno a piè pari.
Re. Tu interpreti ogni cosa alla roversa.
Bertoldo. Chi dice così l'indovina quasi sempre.
Re. Tu dici male e fai male ancora.
Bertoldo. Che male faccio io nella tua corte?
Re. Tu non hai punto di civiltà né di creanza.
Bertoldo. Ch'importa a te s'io son ben creato o scostumato?
Re. M'importa assai, perché troppo villanescamente ti porti meco.
Bertoldo. La causa?
Re. Perché quando tu vieni alla presenza mia mai non ti cavi il cappello e non t'inchini.
Bertoldo. L'uomo non deve inchinarsi all'altr'uomo.
Re. Secondo le qualità degli uomini si devono usare le creanze e le riverenze.
Bertoldo. Tutti siamo di terra, tu di terra, io di terra, e tutti torneremo in terra; e però la terra non deve inchinarsi alla terra.
Re. Tu dici il vero, che tutti siamo di terra; ma la differenza qual è fra te e me non è altro se non che, sì come d'un'istessa terra si fanno varii vasi, parte che in essi tengono liquori preciosi e odoriferi e altri che servono a esercizi vili e negletti, così io sono uno di quelli che rinchiudono in sé balsami, nardi e altri liquori preciosi, e tu uno di quelli nei quali s'orina e vi si fa peggio ancora: e pure tutti sono fabricati da una mano istessa e d'un'istessa terra.
Bertoldo. Questo non ti nego, ma ben ti dico che tanto sono fragili l'uno quanto l'altro, e quando ambo son rotti i pezzi si gettano là per le strade e dall'uno all'altro non si fa differenza alcuna.
Re. Orsù, sia come si voglia, io voglio che tu t'inchini a me.
Bertoldo. Io non posso far questo, abbi pazienza.
Re. Perché non puoi?
Bertoldo. Perché io ho mangiato delle pertiche di salice e però non vorrei scavezzarle nel piegarmi.
Re. Ah, villan tristo, io voglio al tuo dispetto che tu t'inchini, come tu torni alla presenza mia.
Bertoldo. Ogni cosa può essere, ma duro gran fatica a crederlo.
Re. Domattina si vedrà l'effetto; va' pur a casa per questa sera.
Il Re fa abbassar l'uscio della sua camera acciò Bertoldo
convenga in chinarsi nell'entrar dentro la mattina.
Partissi Bertoldo, e il Re fece abbassar l'uscio della sua camera tanto che chi voleva entrare in essa, bisognava per forza inchinarsi con il capo; e ciò fece acciò che Bertoldo alla tornata ch'ei faceva si dovesse inchinare nell'entrare e così venisse a fargli riverenza al suo dispetto. E così stava aspettando il giorno per vedere il successo della cosa.
Astuzia di Bertoldo per non inchinarsi al Re.
La mattina l'astuto Bertoldo tornò alla corte, come era suo solito, e veduto l'uscio abbassato in quella maniera penso subito alla malizia e conobbe che il Re aveva fatto far questo solamente perché esso nell'entrare a lui se le inchinasse; onde in cambio di chinare il capo e abbassarlo nell'entrare dentro, voltò la schiena ed entrò all'indietro a tal che, in cambio di far riverenza al Re, gli voltò il podice e l'onorò con le natiche. Allora il Re conobbe che costui era astuto sopra gli altri astuti ed ebbe caro simil piacevolezza; pur, mostrando d'essere alquanto alterato, gli disse:
Re. Chi t'ha insegnato, villan ribaldo, d'entrar nelle case a questa foggia?
Bertoldo. Il gambaro.
Re. Perché il gambaro? Tu hai avuto un buon pedante, certo.
Favola del gambaro e della granzella narrata da Bertoldo.
Bertoldo. Tu dei sapere che il mio padre aveva fin a dieci figliuoli ed era povero come ancora son io, e perché spesse volte non vi era pane da cena, egli, in iscambio di cibarci e mandarci pasciuti a letto, ci soleva contare qualche favola a buon conto per farci addormentare, e così la solevamo passare fino alla mattina; onde fra l'altre ch'io gli udì raccontare, questa mi restò nella mente, e se tu hai pazienza di darmi un poco di udienza, udirai cosa che non ti spiacerà e torna a punto al proposito nostro.
Re. Di' pur su, che ciò mi sarà di sommo piacere.
Bertoldo. Diceva il mio padre che quando le bestie parlavano e che le civette cacavano mantelli, che il gambaro e la granzella, amici carissimi, si disposero d'andare un poco per lo mondo a vedere come si viveva negli altri paesi (e il gambaro allora caminava all'innanzi come fa l'altro bestiame, e similmente la Granzella non andava per traverso, come fanno al presente). Ora costoro partironsi dalle paterne case, andarono molto tempo girando il mondo e furono nel regno delle cavallette; poi passarono su quello delle lucerte, che confina con quello del Re de' parpaglioni, e così circondarono gran parte della terra e videro vari riti e vari costumi fra quelle bestiole; alla fine capitarono nel paese de' schiratoli ed era sera; e perché fra gli schiratoli e le donnole era grandissima guerra per esser confinanti insieme e per una nuova sospizione di tradimento si stava in arme dall'una e dall'altra parte, arrivati questi due compagni in simil luoco, furono dalle guardie scoperti e tolti per due spioni; e subito presi e legati furono condotti innanzi al loro capitano, il quale, fattogli essaminare minutamente non trovò in essi altro se non che, desiderosi di veder del mondo, erano giunti in quelle parti e che come forastieri non erano informati di cosa alcuna, e che bramavano di esser posti in libertà e tornarsene alle patrie loro; o pure, se volevano trattenergli per soldati, gli dessero il soldo come agli altri, ch'essi gli averiano serviti in quella guerra fidelissimamente. Inteso ciò dal capitano, subito gli fece slegare, e parendogli essere bestie da fazzione, per avere tanti piedi e tante braccia, gli accettò e subito gli fece passar la panca. Ora avvenne che, essendo mandato il gambaro a spiare quello che si faceva nel campo de' nemici, come quello ch'era nuovo personaggio in quel paese e che caminava con grandissimo silenzio e spesso si copriva tutto sotto la coda, non sarebbe conosciuto così facilmente; esso andò animosamente nel campo nemico e, trovando le guardie che dormivano, passò avanti e andò fino al padiglione del Donnolotto, pensando ch'ivi ancora si dormisse; ma il meschino ebbe la mala fortuna perché ivi si stava svegliato e giocavano a massa e topa, onde nel porre ch'ei fece il capo dentro, subito fu visto da uno di quei soldati, il quale cheto cheto si levò da giocare, che il povero gambaro non se n'avidde, e preso uno stanghetto gli tirò così fatto colpo sul capo, che lo stordì di maniera ch'ei parea morto, e se egli non si fusse trovato indosso le sue solite arme, il cervello gli andava a spasso.
Colui che lo percosse, non sapendo ch'ei fosse una spia, ma credendosi che quivi fosse capitato a caso, non avendo mostaccio a proposito da spia e credendolo morto, lo prese per le corna e lo gettò in un fosso, e senza altro sospetto tornò a giocare. Ora, ritornato il misero in se stesso e non potendo appena levare il capo per la gran percossa ricevuta, giurò di mai più non voler entrare con il capo inanti in luoco alcuno, ma caminare con la coda, acciò se più gli veniva dato delle busse, che più tosto gli fusse dato sulla schiena che sulla testa. Così, tornato al campo, fece la relazione di quanto gli era intravenuto, e come le guardie dormivano ma che nel padiglione si veghiava; onde il capitano fece armare chetamente le sue schiere, e andò ad assaltare il nemico e prese il padiglione e uccise tutti quelli che vi erano dentro, e fecero le vendette del bastonato gambaro. Il quale, per non giunger più a simil passo, disse alla granzella: "Andiamoci con Dio, perché la guerra non fa per noi". "Ma come fuggiremo - disse la granzella - che non siano vedute le nostre pedate?" "Tu caminerai per traverso - disse il gambaro - e io all'indietro, e così ci torremo di sotto". Piacque la proposta alla granzella, e subito si levò in punta di piedi e gentilmente cominciò a caminare di gallone e con tanta destrezza che il gambaro a pena poteva tenergli dietro; e così si partirono dal campo e mai non potero coloro sapere dove fossero andati per lo stravagante caminare che facevano. Così giunsero alle case loro e, per i pericoli ne' quali erano stati, lasciarono per testamento che tutti i descendenti loro dovessero per l'avenire caminare sempre come avevano fatto essi nel tornare alle case loro; e fin ora si vede che il gambaro camina all'indietro e la granzella per fianco. E perché il gambaro ebbe quella bacchettata sul capo nel cacciarsi nel padiglione, io me lo son sempre tenuto a mente, e per questo nel cacciarmi nella tua camera sono entrato alla roversa, perché meglio è che il sedere sia percosso che il capo. Or che ne dici? Non è bella questa favola
Re. Sì, certo, e sei stato un grand'uomo. Orsù vattene a casa e torna domani da me e fa' ch'io ti vegga e non ti vegga, e portami l'orto, la stalla e il molino.
Bertoldo. Indovinala tu, Grillo. Orsù, io vado, e m'ingegnarò di fare quel ch'io saprò.
Astuzia di Bertoldo per comparire innanzi al Re nel modo sopradetto.
Il giorno seguente Bertoldo fece fare una torta a sua madre di bietole ben unta con butiro, casio e ricotta in abbondanza, e poi, preso un crivello da formento, se lo pose sopra la fronte, sì che pendeva giù al petto e al ventre; e così con esso e con la torta tornò dal Re, il quale, vedendolo comparire in guisa tale, ridendo disse:
Re. Che cosa vuol dire quel crivello che tu hai dinanzi al viso?
Bertoldo. Non mi commettesti tu ch'io tornassi a te in modo tale che tu mi vedessi e non mi vedessi?
Re. Sì, ti commisi.
Bertoldo. Eccomi dunque doppo i buchi di questo crivello, dove tu mi puoi vedere e non mi puoi vedere.
Re. Tu sei un grand'uomo e ingegnoso; ma dove l'orto, la stalla e il molino ch'io ti dissi che tu portassi?
Bertoldo. Ecco qui questa torta, nella quale vi sono infuse tutte tre le dette cose, cioè la bietola, la quale dinota l'orto, il casio, il butiro e la ricotta, che significa la stalla, e la spoglia della farina, che altro non vuol dimostrare che il molino.
Re. Io non ho mai veduto né pratticato il più vivo intelletto del tuo; però serviti della mia corte in ogni tua occorrenza.
Piacevolezza di Bertoldo.
A queste parole Bertoldo, scostatosi alquanto dal Re e ritiratosi nella corte, si calò le brache, mostrando di voler fare un suo servigio corporale; laonde, veduto il Re tal atto, gridando, disse:
Re. Che cosa vuoi tu fare manigoldo?
Bertoldo. Non dici tu ch'io mi serva della tua corte in ogni mia occorrenza?
Re. Sì, ho detto; ma che atto è questo?
Bertoldo. Io me ne voglio servire adunque a scaricare il peso della natura, il quale tanto m'aggrava ch'io non posso più tenerlo.
Allora uno di quelli della guardia del Re, alzato un bastone, volse percuoterlo, dicendogli: "Brutto poltrone, va' alla stalla dove vanno gli asini pari tuoi, e non fare queste indignità innanzi al Re, se non vuoi ch'io t'assaggi le coste con questo legno". A cui Bertoldo rivolto, disse:
Bertoldo. Va' destro, fratello, né voler tu fare il sofficiente, perché le mosche che volano sulla testa ai tignosi vanno sulla mensa regale ancora e cacano nella propria scodella del Re e pure esso mangia quella minestra; e io dunque non potrò fare i miei servigi in terra, che è cosa necessaria? E tanto più che il Re ha detto ch'io mi serva della sua corte in ogni mio bisogno? E qual maggior bisogno per servirmene poteva venirmi che in questo fatto?
Intese il Re la metafora di Bertoldo e si cavò di deto un ricco e precioso anello e, volto a lui, disse:
Re. Piglia questo anello, ch'io te lo dono; e tu, tesoriero, va', porta qui mille scudi ch'io gliene voglio far un presente or ora.
Bertoldo. Io non voglio che tu m'interrompa il sonno.
Re. Perché interrompere il sonno?
Bertoldo. Perché quand'io avessi quell'anello e tanti danari io non poserei mai, ma mi andarei lambiccando il cervello di continuo, né mai più potrei trovar pace né quiete. E poi si suol dire: chi l'altrui prende, se stesso vende. Natura mi fece libero, e libero voglio conservarmi.
Re. Che cosa poss'io dunque fare per gratificarti?
Bertoldo. Assai paga, chi conosce il beneficio.
Re. Non basta conoscerlo solamente, ma riconoscerlo ancora con qualche gratitudine.
Bertoldo. Il buon animo è compìto pagamento all'uomo modesto.
Re. Non deve il maggiore cedere al minore di cortesia.
Bertoldo. Né deve il minore accettar cosa che sia maggiore del suo merito.
La Regina manda di nuovo a chieder Bertoldo al Re.
Mentre essi andavano così ragionando insieme, giunse un altro messo da parte della Regina, con una lettera la quale conteneva che il Re gli mandasse Bertoldo per ogni modo, ché, sentendosi ella un poco indisposta, voleva passare il tempo alquanto con le piacevolezze di lui. Ma ciò era al contrario, anzi ch'ella aveva fatto pensiero di farlo privar di vita, avendo inteso che per opera sua quelle matrone avevano ricevuto quello affronto dal Re, per lo quale erano in tanta rabbia che se l'avessero potuto aver nelle mani l'averiano lapidato. Il Re, letta la lettera, prestando fede alle parole della Regina, volto a Bertoldo, disse:
Re. La Regina di nuovo mi t'ha mandato a domandare e dice ch'essendo alquanto indisposta vorrebbe che tu l'andasti un poco a trattenere e fargli passar l'umore con le tue piacevolezze.
Bertoldo. Anco la volpe talora si finge inferma per trapolar i polastri.
Re. A che proposito dici tu questo?
Bertoldo. Perché né tigre, né femina fu mai senza vendetta.
Re. Leggi qui, se tu sai leggere.
Bertoldo. La prattica mi serve per libro.
Re. Sdegno di donna nobile tosto passa via.
Bertoldo. Le cernici coperte tengono un pezzo calda la cenere.
Re. Non odi tu le buone parole ch'ella ti manda a dire?
Bertoldo. Buone parole e tristi fatti ingannano i savi e i matti.
Re. Orsù, chi ha d'andar vada, che l'acqua non è spada.
Bertoldo. Chi è scottato dalla minestra calda soffia sulla fredda.
Re. Da corsaro a corsaro non si perde altro che i barili vuoti.
Bertoldo. Una cosa pensa il ghiotto, l'altra il tavernaro.
Re. Il far servizio mai non si perde.
Bertoldo. Servizio con danno, Dio ti dia il mal anno.
Re. Non aver paura di nulla nella mia corte.
Bertoldo. Meglio è esser uccello di campagna che di gabbia.
Re. Orsù, non ti far bramar più; va' via, perché cosa tanto pregata poco è poi grata.
Bertoldo. Tristo colui che dà essempio ad altrui.
Re. Chi sta più, vorrebbe star più.
Bertoldo. Chi spinge la nave in mare sta sulla riva.
Re. Orsù, va' dove ti mando, e non temere.
Bertoldo. Quando il bue va alla mazza, suda dinanzi e trema di dietro.
Re. Fa' un animo di leone e va' via arditamente.
Bertoldo. Non può far animo di leone chi ha il cuore di pecora.
Re. Va' via sicuramente, che la Regina non ha più odio teco, ma s'è passata quella burla in riso.
Bertoldo. Riso di signore, sereno di verno, cappello di matto, trotto di mula vecchia, fanno una primiera di pochi punti.
Re. Non ti far più aspettare perché ogni tardanza è poi noiosa.
Bertoldo. Orsù, io vado, poiché tu me lo comandi; vada come si vuole, in ogni modo, o per l'uscio o per la porta bisogna entrarvi.
Bertoldo con una bellissima astuzia si ripara dal primo empito della Regina.
Così Bertoldo s'inviò per andare dalla Regina, e avendo inteso come ella aveva commesso ai suoi cagnateri che subito ch'egli giongeva nella sua corte essi gli lasciassero andare tutti i cani incontro, acciò da quelli fusse crudelmente stracciato (tanto era incrudelita verso di lui), nel passare ch'ei fece per piazza vidde per buona sorte un villano il quale aveva una lepre viva, e comperolla, mettendosela sotto il mantello; e quando fu gionto nella detta corte gli furono lasciati i cani, i quali venivano verso lui correndo quasi come affamati, e l'averiano morto e stracciato con i fieri denti. Ma esso, vedendo il gran pericolo nel quale ei si trovava, subito lasciò gir la lepre che egli avea sotto, la quale non sì tosto fu veduta dai cani, che lasciarono stare di morder Bertoldo e si posero a correr dietro alla lepre, com'è lor natura, a tale ch'esso restò salvo e illeso dai crudi morsi di quei fieri cani, e così si ridusse innanzi alla Regina, la quale tutta ammirativa, credendolo morto da quei cani, tutta piena di disdegno e ira gli disse:
Regina. Tu sei qua, brutto assassino?
Bertoldo. Così non ci fussi come ci sono.
Regina. Come sei scampato dai denti de' miei fieri cani?
Bertoldo. La natura ha provisto all'accidente.
Regina. La moglie del ladro non rise sempre.
Bertoldo. Chi va al molino, bisogna che s'infarini.
Regina. Chi ha le prime non va senza.
Bertoldo. A chi tocca leva.
Regina. A te toccarà a questa volta.
Bertoldo. Non viene ingannato se non chi si fida.
Regina. Promettere e non dare, vien per matto confortare.
Bertoldo. Chi manco può, paga il bo'.
Regina. Chi non gli gioca mal li spende.
Bertoldo. A chi la va bene, par savio.
Regina. Andar bestia e tornar bestia è tutt'uno.
Bertoldo. Non bisognava entrarci, disse la volpe al lupo.
Regina. Pur ci sei venuto tu, che fai l'astuto e il malicioso.
Bertoldo. Pazienza, disse il lupo all'asino: tal va al sposalizio che non va a tavola.
Regina. Ogni tempo viene, a chi può aspettarlo.
Bertoldo. Ventura, pur che poco senno basta.
Regina. Dietro il tuono suol venire la tempesta.
Bertoldo. Il pesce grosso mangia il picciolo.
Regina. Ogni gallo non conosce fava.
Bertoldo. Ogni serpe ha il veleno nella coda, ma la femina irata lo tiene per tutta la vita.
Regina. Tu non camperai del certo questa volta, usa pure quanta malizia tu puoi e sai, ch'io non voglio che tu ti vanti di fare più stratagemme contra le donne.
Bertoldo. Chi non va a una fornata va all'altra, e chi va più presto inganna il compagno; però sbrigarmi in un tratto. In ogni modo, come disse la volpe al villano, se noi campassimo mille anni, noi non ci guardaremo mai più di buon occhio, né sarà buon stomaco fra di noi.
La Regina fa mettere Bertoldo in un sacco.
Allora la Regina tutta adirata lo fece pigliare e legar stretto, poi lo fece condurre in una camera appresso a quella dove lei dormiva; e, perch'ella non si fidava ch'esso non scampasse, come aveva fatto altre volte con le sue astuzie, lo fece mettere in un sacco e gli pose per guardia un sbirro il quale lo guardasse sino alla mattina, con animo poi di mandarlo a gettare nel fiume o fargli altra cosa, ch'ei non potesse fargli più burle. E così il misero Bertoldo restò serrato nel sacco, né mai ebbe timore della morte se non in quella volta; pure si pensò una nuova astuzia per uscir del sacco, e gli riuscì mirabilissimamente, e fu questa.
Astuzia nobilissima di Bertoldo per uscir fuori del sacco
Restò dunque il povero Bertoldo serrato nel sacco, con la guardia di quello sbirro; e avendosi imaginato una nuova astuzia, mostrando di parlare fra se stesso, incominciò querelandosi a dire: "O fortuna maledetta, come ti pigli tu spasso di travagliare tanto i ricchi quanto i poveri! Oh robba iniqua, dove m'hai tu condotto? Meglio saria stato per me se il padre mio m'avesse lasciato mendico, che ora io non sarei a così tristo passo congiunto. Che cosa ha giovato a me il vestirmi di questi rozzi e ruvidi panni per mostrare di esser povero, s'io sono stato scoperto per ricco, come io sono? Onde questi tiranni per l'avidità della robba mia si vogliono imparentar meco; ma vada come si voglia, io non consentirò mai di prenderla, ché io son uomo contrafatto e so ch'ella non sarebbe tutta mia, e se la Regina vorrà ch'io la pigli al mio dispetto, qualche cosa sarà".
Lo sbirro comincia a impaniarsi.
Allora lo sbirro udendo queste parole ed essendo curioso di sapere dove derivava simil ragionamento, ed essendo alquanto compassionevole di natura, disse:
Sbirro. Che ragionamento è questo che tu fai? Perché sei tu stato messo in questo sacco, poveraccio?
Bertoldo. Eh, fratello, a te non importa saper le mie miserie, però lasciami lamentare e tu attendi a far l'ufficio al quale sei stato messo.
Sbirro. Se ben faccio lo sbirro, per questo son uomo anch'io e ho compassione delle calamità de' compagni, e se io non potrò darti aiuto con le forze mie in questo tuo travaglio, ti darò almeno qualche consolazione di parole.
Bertoldo. Poca consolazione puoi darmi, perché il termine è breve di quanto s'ha da fare.
Sbirro. Ti vogliono forsi far frustare?
Bertoldo. Peggio.
Sbirro. Dar della fune?
Bertoldo. Peggio.
Sbirro. Mandar in galera?
Bertoldo. Peggio.
Sbirro. Far impiccare?
Bertoldo. Peggio.
Sbirro. Far squartare?
Bertoldo. Peggio ancora.
Sbirro. Abbruggiare?
Bertoldo. Mille volte peggio.
Sbirro. Che diavolo ti possono far (peggio) di queste sei cose?
Bertoldo. Mi vogliono dar moglie.
Sbirro. E questo è peggio che esser frustato, aver della fune, andar in galera, esser impiccato, squartato e abbruggiato? O bestia che sei, io mi credea che questo fusse un gran fastidio. Oh sì che questa è da cantare nella chitarra!
Bertoldo. Non che il prender moglie sia peggio (di quello) ch'io ho detto; ma il modo che vogliono tenere in darmela mi dà più travaglio che se mi fessero tutte queste cose che m'hai detto.
Sbirro. E che modo vogliono essi tenere? Parla chiaro.
Bertoldo. È lì nissun altro che te? Perché io non vorrei essere udito da qualchedun altro, perch'io sarei poi rovinato affatto.
Sbirro. Non v'è altri che me; parla pure sicurissimamente.
Bertoldo. Di grazia, che non mi facci poi la spia.
Sbirro. Non dubitar di questo, ch'io non ho mai fatto simil professione, né manco voglio incominciare adesso.
Bertoldo. Orsù, io mi voglio fidar di te, perché al parlare che tu fai tu mi pari galantuomo; e poi vada com'ella si voglia, quello che deve essere non può mancare.
Sbirro. Orsù cominciami a narrare il negozio, ch'io ti ascolterò.
Bertoldo. Tu dei dunque sapere che trovandomi io ricco de' beni di fortuna, ma difforme e mostruoso di vista, confinando con i miei poderi con un gentiluomo il quale ha una figliuola bellissima, costui, avendo visto le ricchezze mie, s'è pensato (benché io sia villano, brutto, come ti dico) di voler darmi questa sua figliuola per moglie, e più volte me n'ha fatto parlare, non già perché gli piaccia il mio aspetto, ma per la gran robba ch'io mi trovo, che in quanto della vita mia non credo ch'ei se ne curi un aglio, anzi credo che egli mi vorrebbe piuttosto vedere sulle forche.
Sbirro. Tu sei dunque ricco?
Bertoldo. Ricchissimo d'armenti, di greggi, di possessioni e d'ogni cosa.
Sbirro. Quanto puoi tu aver d'entrata?
Bertoldo. Io mi trovo avere un anno per l'altro sei mila scudi e più.
Sbirro. Cancaro! Vi sono dei signori che non hanno tanto. E questo gentiluomo è ricco, lui?
Bertoldo. Egli si trova stare assai commodo, ma appresso di me è poverissimo.
Sbirro. Quanto può aver egli d'entrata?
Bertoldo. Da mille scudi in circa.
Sbirro. Ei non è però così povero come tu dici. È poi nobile di famiglia?
Bertoldo. Nobilissimo.
Sbirro. Non ti vuole egli dar nulla in dote?
Bertoldo. Sì, vuole; ma io ti dirò il tutto, poiché siamo qua. Ma io non posso parlare in questo sacco se tu non gli sleghi la bocca, tanto ch'io possa metter fuori la testa, che poi tornarai a serrarlo, come avrai inteso il fatto intieramente.
Sbirro. Volentieri, eccola slegata, ragiona via allegramente. Ma tu hai un brutto mostaccio. Se il resto corrisponde al viso, tu dei essere un brutto manigoldo.
Bertoldo. Cavami del tutto fuori e vedrai la mia bella disposizione.
Sbirro. Sì, ma bisogna che vi torni poi dentro, come hai finito di ragionare, e ch'io ti serri come stavi prima.
Bertoldo. Siamo d'accordo in questo, non ti dubitare.
Lo sbirro cava Bertoldo fuori del sacco.
Sbirro. Orsù, vien fuori.
Bertoldo. Eccomi. Che ti pare di questa bella vitina?
Sbirro. A fé, che tu sei un garbato cavaliero. O può far il Cielo! Io non ho mai visto la più brutta bestia di te. T'ha mai visto la sposa?
Bertoldo. Ella mai non m'ha veduto, e perché ella non mi vegga m'hanno fatto cacciare in questo sacco e vogliono condurla in questa stanza e fare ch'io la sposi senza lume e quando poi l'averò sposata mi scopriranno e bisognerà ch'ella si contenti al suo dispetto, che così è stabilito, e a me subito sarà sborsato due mila doble di Spagna le quali gli dona la Regina, acciò non gli scappi così buona ventura.
Sbirro. Una buona ventura, certo. O che bambino grazioso da tener in braccio! O robba mal nata, quanti poveri uomini e povere donne affuoghi tu? Mira, di grazia, costui, che pare un mostro infernale; e perché esso ha delle facoltà, i gentiluomini nobili hanno di grazia di fare parentato con esso lui. Or bene dice vero il proverbio, che la robba fa stare il tignoso al balcone. A me che son povero e che già non sono mostruoso come questo diavolo, non intraverrebbe simil ventura; ma la robba malvaggia è causa di questo. Pazienza.
Bertoldo. Se tu fossi galant'uomo io ti farei ricco questa notte; perché io mi sono rissoluto di non voler costei in modo alcuno, perché intendo ch'ella è bella come un sole, però mi vado pensando ch'ella non sarebbe tutta mia. L'altra poi, vedendomi sì contrafatto, mi potrebbe dar forse il boccone e farmi tirare le calcie. Però, se tu vuoi entrare in questo sacco in mio cambio, io ti rinonciarò questa gran ventura.
Sbirro. Qualche buffalaccio farebbe tal pazzia, che, come mi scoprissero poi, e ch'io non fussi te, mi facessero tirare il guindo· e farmi fare il saltarello del groppo.
Bertoldo. Non dubitare di questo, perché subito che tu averai sposata la sposa e che ti scopriranno, tu che sei un giovane garbato e non orrendo come me, ella vedendoti non dirà altrimente che non ti voglia, e quello che sarà fatto non potrà più tornare a dietro e beccarai via le due mila doble ed entrarai in possesso di quella robba, perché il padre è vecchio e poco più può stare andare a fare dell'erba al cavallo del Gonnella; sì che tu potrai per l'avvenire vivere onoratamente senza essercitare più questo tuo mestiero così vituperoso e infame.
Sbirro. Tu la fai molto facile la cosa; ma io non voglio però pormi a questo rischio: entra pur tu nel sacco.
Bertoldo. Oh poveraccio che tu sei, non sai tu che il si dice che all'uomo audace giova il tentar la fortuna? Che cosa di male ti può intravenire in questo negozio? Vuoi tu che il padre di lei ti faccia dispiacere, come l'avrai sposata? Vuoi tu che lei, ch'è tutta modesta, dica che non ti voglia? Vuoi tu che la Regina, la quale è tanto larga e liberale, non voglia sborsare i danari per parere avara? Tutti si rimetteranno a quello che vuole il Cielo e la passaranno sotto silenzio, e tu andarai in casa della sposa e con il tempo sarai erede del tutto e sarai onorato da tutti come gentiluomo.
Sappi, sappi conoscere così gran ventura, e pensa che ogni dì non s'appresentano simili occasioni. Su, dunque, entra nel sacco e non vi pensar più, perché se vi fusse qualche pericolo per te io non te lo direi, che io sono un uomo schietto, né saprei dire una bugia, e inanzi che sia domani ora di desinare, t'accorgerai s'io ti voglio bene.
Lo sbirro comincia a cascare alla rete.
Sbirro. Tu me la dipingi tanto garbatamente, che quasi quasi mi hai fatto venir voglia d'entrare in questa impresa. Io ho sempre udito dire che chi non s'arrischia non guadagna. Chi sa che il Cielo non abbi preparato per me questa ventura?
Bertold. mostra di non volere più che lo sbirro entri nel sacco, per fargliene venir più desiderio.
Bertoldo. Io non ti so dire tante chiacchiere. Colui che non conosce la fortuna quando gli viene in mano, la va poi cercando indarno. Se il Cielo vuol farti questo dono, perché lo vuoi tu ricusare? Ma io so bene che se tu conoscessi la mia sincerità, tu non faresti tante repulse. Orsù, fratello, fa' quello che ti pare. Io non voglio più starmi affaticare in farti tanti prologhi; ecco, ch'io entro nel sacco, vienmi pure a serrare, ch'io non ti direi più nulla per tutto l'oro del mondo.
Sbirro. Fermati ancora un poco, che v'è ben del tempo da entrarvi dentro.
Bertoldo. Chi ha tempo non aspetti tempo. Io veggo che tu non sai conoscer tua ventura, e però non voglio più star a intuonarti il capo, perché pazzo è colui che vuol far del bene a suo dispetto.
Lo sbirro si risolve d'entrar nel sacco.
Sbirro. Orsù, io conosco veramente che queste tue parole vengono da un puro zelo d'amore che tu mi porti, e veggo che tu ti scommodi molto per me; però io non voglio abusare simil cortesia. Eccomi qui risoluto per entrare nel sacco e fare quel tanto che tu hai detto, perché quando averò sposata costei, bisognerà ben poi ch'ella sia mia e che tutti abbino pazienza al suo dispetto.
Bertoldo. Orsù, vien pur, serra il sacco, ch'io entro dentro.
Sbirro. Aspetta, non v'entrare, perché io sono risoluto d'entrarvi.
Bertoldo. Io non voglio più farne altro; vien pur, lega la bocca al sacco.
Sbirro. Di grazia, caro fratello, non mi vietare simil ventura, ch'io te la domando per cortesia.
Bertoldo. Orsù, io non voglio mancare di farti questo beneficio, se bene tu m'hai fatto alterare alquanto. Entra dunque dentro e non stare a parlar più, ma sta' aspettar quello che ha da venire, che domattina vedrai che opera io avrò fatta per te.
Sbirro. S'io non t'avessi per galant'uomo e per uomo schietto, io non mi lasciarei ridurre a serrarmi in questo sacco, ma si vede che sei l'istessa bontà.
Bertoldo. Il Ciel ti fa parlare adesso. Orsù, caccia ben dentro quell'altro braccio e abbassa un poco giù la testa, perché tu sei un poco più alto di me, e non potrei legar la bocca.
Sbirro. Ohimè, io mi stroppio il collo. Orsù, lega pure, in ogni modo non ponno star arrivare i parenti, secondo che tu hai detto.
Bertoldo. Fra due o tre ore al più sarai espedito. Orsù, io t'ho legato, sta' cheto e non dir più nulla, acciò la cosa vada com'ha d'andare.
Sbirro. Io non parlerò più, ma appoggiami al muro, perché mi stancherei a star ritto tanto.
Bertoldo. Eccoti appoggiato. Stai tu bene?
Sbirro. Benissimo.
Bertoldo. Orsù, cito e senza lingua; e sappiti reggere, che il bisogna.
Sbirro. Io non parlo più e sta' pur cheto ancor tu, e lascia che venghi la sposa.
Bertoldo compra il porchetto e lascia lo sbirro nelle peste.
Posto ch'ebbe Bertoldo lo sciocco sbirro nel sacco, fece pensiero di subito scampar via e non aspettare altrimente la tempesta che gli era per cadere adosso la mattina che succedeva; e, bisognando passare per le stanze della Regina, accostò più volte l'orecchio se udiva nessuno; né sentendo anima nata per quelle camere (perché erano tutti nel primo sonno), aperse l'uscio pian piano della camera dov'egli era ed entrò nella sala e di qui nella camera dove dormiva la Regina, e appressandosi al letto di lei cheto cheto trovò ch'essa dormiva come un tasso, onde pensò di fargli una beffa, e, preso una delle sue vesti, se la pose indosso e così vestito da donna passò per tutte le altre stanze dove dormivano le dame; e, avendo trovato le chiavi di tutte le porte dal capo del letto della nutrice, aperse destrissimamente tutti gli usci e uscì fuori del palazzo. Ed essendo nevato la notte aveva paura che le sue pedate non lo scoprissero; onde, come astuto, si pose le scarpe in piedi alla roversa, a tale che, in cambio d'andare in là, pareva ch'ei venisse in qua. Così, tanto andò di qua e di là, che alfinecapitò ad un forno dietro le mura della città e si ficcò dentro.
La Regina non trovando la veste dà la colpa allo sbirro che l'abbia rubbata, e
credendo parlar con Bertoldo parla con lo sbirro ch'era nel sacco.
Venuta la mattina, entrarono le damigelle per vestir la Regina, né trovando la veste ch'esse gli avevano cavato la sera, restarono tutte ammirate e stupefatte. Alfinela Regina, fattosi portare altra veste, si levò tutta furiosa e subito andò alla camera dove aveva lasciato Bertoldo nel sacco, né vedendo la guardia ch'ella aveva messo alla custodia sua, dubitò che lo sbirro fosse stato quello che gli avesse rubbata la veste e che si fosse gito con Dio; e giurò, se lo poteva aver nelle mani, di farlo subito impiccare. Poi, accostatasi al sacco, disse: "E bene, galant'uomo, sei tu più dell'umor di prima?"
Sbirro. Signora no, anzi son qui per pigliarla quanto prima.
Regina. Che cosa vuoi tu pigliare, una medicina?
Sbirro. L'avete voi posta all'ordine?
Regina. La faremo metter all'ordine or ora.
Sbirro. Quanto più presto sarò ispedito, l'avrò più caro.
Regina. Non passerà molto tempo, che tu sarai consolato.
Sbirro. Non vedo l'ora d'aver quest'allegrezza. Su, fate ch'ella sia condotta or ora.
Regina. Dico che fra poco ti condurremo da lei, sta' pur allegro.
Sbirro. Se i nostri patti sono ch'ella venghi in questa camera e ch'io la sposi incognitamente e ch'io tiri le due mila doble poi come l'avrò sposata, a che voler farmi andar da lei? Fate ch'ella sia condotta qua e farò quel tanto ch'io ho da fare.
Regina. Che parla questo villano di sposa e di doble? Cavatelo un poco fuori di quel sacco, ch'io lo veggia in viso.
Lo sbirro esce fuori del sacco in cambio di Bertoldo, e la Regina tutta stupefatta dice:
Regina. Chi t'ha posto in quel sacco, sciagurato?
Sbirro. Colui ch'aveva da essere lo sposo, il quale, non volendo colei che gli volete dare, ha rinunciato a me questa ventura. Però fate venir la sposa e le doble, ch'io son qui per far quel tanto che va fatto.
Regina. Che sposa? che doble dici tu? Parla più chiaro, ch'io t'intenda.
Sbirro. La sposa che volevate dare a quel villano con quelle due mila doble.
Regina. T'ha forsi dato colui a intendere questa pappolata?
Sbirro. Dico ch'egli ha detto del miglior senno ch'egli ha, e m'ha posto in questo sacco a posta ed ei se n'è fuggito via; però venghisi all'espedizione, fin ch'io son di vena di fare la ricevuta.
Lo sbirro vien bastonato; poi, tornato nel sacco, mandato a gettar nell'Adice.
Regina. Adesso, adesso farò venir le doble; intanto preparati al ricevere, ch'io voglio che il contratto sia fatto a tue spalle.
Sbirro. Io sono qui per questo e un'ora mi pare mille anni di contarle; ma avvertite ch'io le voglio di peso e trabocchenti.
Regina. Tu le conterai prima; poi, se non saranno di peso, io te le farò cambiare. In questo mezo comincia a contare, e quelle che ti paiono leggiere, dillo.
Il che poi detto, subito fece comparire quattro de' suoi serventi con un buon bastone per uno, i quali tosto cominciarono a bastonare il povero sbirro, il quale, sentendosi tempestare con tanta rovina, incominciò a gridare e raccomandarsi; ma nulla gli giovò perché coloro lo lasciarono in terra come morto, né bastò di questo, ché la Regina lo fece tornar nel sacco e portarlo a gettar nel fiume, e così quel povero disgraziato tirò le doble di peso, mal per lui, e in cambio di prender moglie s'ammogliò nell'Adice del tutto.
Bertoldo sta nel forno e la Regina il fa cercar per tutto.
Dopo che l'infelice sbirro fu mandato a bere, si fece gran diligenza per trovar Bertoldo, ma per le pedate volte alla roversa non poteva(si) comprendere ch'ei fosse uscito fuori di corte, e la Regina lo fece cercar per tutto con animo risoluto di farlo impiccare, parendogli pur grave la beffa della veste e dello sbirro.
Bertoldo viene scoperto nel forno da una vecchia, e si divulga per tutto la Regina esser nel forno.
Stava dunque il misero Bertoldo in quel forno e udiva il tutto e cominciò a temere molto della morte e si pentì d'esser mai andato in quella corte e non ardiva d'uscire fuori per non essere preso, sapendo che la Regina gli aveva mal animo adosso; e ora tanto più avendogli fatto la burla dello sbirro e della veste, dubitava ch'ella non lo facesse impiccare. Ma avendo indosso quella veste, ch'era lunga, né avendola tirata ben dentro del forno tutta, essendone restata fuori un lembo, volse la sua mala sorte ch'ivi venne a passare una vecchia appresso al detto forno, e conosciuto l'orlo della veste, che pendeva fuori, che quella era una delle vesti della Regina, si pensò che la Regina fusse rinchiusa nel detto forno; onde andò in un tratto da una sua vicina e gli disse che la Regina era in quel forno. Andò colei seco e, guardando nel forno, vidde la detta veste, e, conoscendola, lo disse ad un'altra, quell'altra ad un'altra e così di mano in mano a tale che non fu meza mattina che per tutta la città andò la nuova che la Regina era in un forno dietro le mura della città.
Il Re dubita che Bertoldo non abbi portato la Regina in quel forno, e va a chiarirsi del fatto.
Udendo il Re simil fatto, dubitò che Bertoldo avesse portato la Regina in quel forno, perché lo conosceva tanto tristo che credeva ch'ei potesse fare ogni cosa, e le strattagemme del passato maggiormente gli crescevano il sospetto; onde subito andò alla camera della Regina e la trovò ch'ella era tutta arrabbiata; e inteso da lei la beffa della veste, si fece condurre a quel forno e guardando in esso vidde costui nel detto avviluppato nella veste della Regina, e tosto lo fece tirar fuori, minacciandolo della morte; e così fu spogliato della veste il povero villano e restò con gli suoi strazzi intorno; e tra che esso era brutto di natura e avendosi tutto tinto il mostaccio nel detto forno, pareva proprio un diavolo infernale.
Bertoldo è tirato fuori del forno e il Re sdegnato dice:
Re. Pur ti ci ho colto, villan ribaldo, ma a questa volta non scamperai del certo, se non sei il gran diavolo.
Bertoldo. Chi non vi è non vi entri, e chi v'è non si penti.
Re. Chi fa quello che non deve, gli avviene quello che non crede.
Bertoldo. Chi non vi va non vi casca, e chi vi casca non si leva netto.
Re. Chi ride il venere, piange la domenica.
Bertoldo. Dispicca l'appiccato, egli appiccherà poi te.
Re. Fra carne e unghia, nissun non vi pungia.
Bertoldo. Chi è in difetto, è in sospetto.
Re. La lingua non ha osso e fa rompere il dosso.
Bertoldo. La verità vuol star di sopra.
Re. Ancor del ver si tace qualche volta.
Bertoldo. Non bisogna fare, chi non vuol che si dica.
Re. Chi si veste di quel d'altri, presto si spoglia.
Bertoldo. Meglio è dar la lana, che la pecora.
Re. Peccato vecchio, penitenza nuova.
Bertoldo. Pissa chiaro, indorme al medico.
Re. Il menar delle mani dispiace fino ai pedocchi.
Bertoldo. E il menar de' piedi dispiace a chi è tratto giù dalle forche.
Re. Fra un poco tu sarai uno di quelli.
Bertoldo. Inanzi orbo, che indovino.
Re. Orsù, lasciamo andare le dispute da un lato. Olà, cavaliero di giustizia, e voi altri ministri, pigliate costui e menatelo or ora a impendere a un arbore, né si dia orecchie alle sue parole perché costui è un villano tristo e scelerato che ha il diavolo nell'ampolla e un giorno sarebbe buono per rovinare il mio stato. Su, presto, conducetelo via, né si tardi più.
Bertoldo. Cosa fatta in fretta non fu mai buona.
Re. Troppo grave è stato l'oltraggio che tu hai fatto alla Regina.
Bertoldo. Chi ha manco ragione, grida più forte. Lasciami almeno dire il fatto mio.
Re. Alle tre si fa cavallo e tu glien'hai fatte più di quattro, che gli sono state di troppo affronto. Va' pur via.
Bertoldo. Per aver detto la verità ho da patir la morte? Deh, non esser così crudele contra di me, ti prego.
Re. Tu sai bene quello che dice il proverbio: odi, vedi e tace, se vuoi vivere in pace; e, chi vuol bene a madonna, vuol bene a messere. Però non mi star più a intuonar l'orecchie, perché quanto più preghi, più gitti indarno le parole e pesti acqua in mortaio.
Esclamazione di Bertoldo per la sentenza data dal Re contra di lui.
Bertoldo. Orsù pure, il proverbio dice il vero: o servi come servo, o fuggi come cervo, perché corvi con corvi non si cavano mai gli occhi, e i parenti si vedono condurre alla forca, ma fra loro non si appiccano; però tutto quello che luce non è oro, ma chi non fa non falla; parola detta e pietra tratta non può tornar a dietro, e un torso di verze è cagione talora della morte di mille mosche; ma tal mi ride in bocca che ha il rasoio sotto, onde meglio è un'oncia di libertà, che dieci libre d'oro, perché alla fine lupo non mangia di lupo, e però per cantare il corvo perse il formaggio, come ho fatto io, che, per aver canzonato in amaro son ridotto al buco del gatto, né mi scamperiano le ali di Dedalo, ché il Re ha già dato la sentenza e la sua parola non può tornare a dietro, ancorché si dica che chi può fare può anco disfare.
Astuzia ultima di Bertoldo per campar la vita, seguitando il suo dire.
Bertoldo. Orsù pur Bertoldo, qui ti bisogna far un animo di leone e mostrar la tua generosità a questo passo, poiché tanto dura il dolore quanto tarda il morire, e quello che non si può vendere, si deve donare. Eccomi dunque pronto, o Re, a essequire quanto hai ordinato. Ma, prima ch'io muoia, io bramo una grazia da te e sarà l'ultima che mi farai più.
Re. Eccomi pronto per fare quello che domandi, ma di' presto, ché m'hai fastidito con quel tuo longo cianciume.
Bertoldo. Comanda, ti prego, a questi tuoi ministri, che non mi appicchino sin tanto che io non trovo una pianta o arbore che mi piaccia, che poi morirò contento.
Re. Questa grazia ti sia concessa. Su, conducetelo via, né lo sospenderete se non a una pianta che gli piaccia, sotto pena della mia disgrazia. Vuoi altro da me?
Bertoldo. Altro non ti chieggio, e ti rendo grazie infinite.
Re. Orsù, a Dio Bertoldo, abbi pazienza per questa volta.
Bertoldo non trova arbore né pianta che gli piaccia, onde i ministri infastiditi lo lasciano andare.
Non comprese il Re la metafora di Bertoldo, onde costoro lo menarono in un bosco pieno di varie piante, e, quivi non ve n'essendo nissuna che gli piacesse, lo condussero per tutti i boschi d'Italia, né mai poterono trovare pianta, arbore né tronco che gli piacesse; onde, fastiditi dal lungo viaggio e ancora avendo conosciuto la sua grande astuzia, lo slegarono e lo posero in libertà, e ritornati al Re gli narrarono il tutto. Il quale, oltra modo si stupì del gran giudicio e sottile ingegno di costui, tenendolo per uno de' più accorti cervelli che fossero al mondo.
Il Re manda di nuovo a cercar Bertoldo e trovatolo va in persona
dove sta e con preghi e gran promesse lo fa tornare alla corte.
Passato lo sdegno al Re, mandò di nuovo a cercar Bertoldo e, trovatolo, lo fece pregare a tornare in corte, che il tutto gli era stato perdonato; ed esso gli mandò a dire che cavoli riscaldati né amore ritornato non fu mai buono, e che non v'era tesoro che pagasse la libertà. Onde il Re vi andò in persona e lo pregò e supplicò tanto che alfine(benché contra sua voglia) lo condusse in corte e gli fece perdonare alla Regina, e volse ch'ei stesse sempre appresso della sua corona, né faceva cosa alcuna senza il consiglio di lui. E mentre ch'ei stette in quella corte, ogni cosa andò di bene in meglio; ma essendo egli usato a mangiar cibi grossi e frutti selvatichi, tosto ch'esso incominciò a gustar di quelle vivande gentili e delicate s'infermò gravemente a morte, con grandissimo dispiacere del Re e della Regina, i quali dopo la sua morte vissero poi sempre sotto una vita trista e infelice.
Morte di Bertoldo e sua sepoltura.
I medici non conoscendo la sua complessione, gli facevano i rimedi che si fanno alli gentiluomini e cavalieri di corte; ma esso, che conosceva la sua natura, teneva domandato a quelli che gli portassero una pentola di fagiuoli con la cipolla dentro e delle rape cotte sotto la cenere, perché sapeva lui che con tal cibi saria guarito; ma i detti medici mai non lo volsero contentare. Così finì sua vita con questa volontà, colui ch'era tenuto un altro Esopo da tutti, anzi un oracolo, e fu pianto da tutta la corte, e il Re lo fece sepelire con grandissimo onore, e quei medici si pentirono di non gli aver dato quant'esso gli addimandava nell'ultimo, e conobbero che egli era morto per non l'aver essi contentato. E il Re, a perpetua memoria di questo grand'uomo, fece scolpire nella sua sepoltura in lettere d'oro i seguenti versi in forma d'epitafio, facendo vestire di nero tutta la sua corte, come se fosse morto uno dei primati di quella.
Epitafio di Bertoldo.
In questa tomba tenebrosa e scura
Giace un villan di sì difforme aspetto,
Che più d'orso che d'uomo avea figura;
Ma di tant'alto e nobile intelletto
Che stupir fece il mondo e la natura.
Mentr'egli visse e fu Bertoldo detto,
Fu grato al Re; morì con aspri duoli
Per non poter mangiar rape e fagiuoli.
Detti sentenziosi di Bertoldo innanzi la sua morte.
Chi è uso
alle rape non vada ai pasticci.
Chi è uso alla zappa non pigli la
lancia.
Chi è uso al campo non vada alla corte.
Chi
vincerà il suo appetito sarà un gran capitano.
Chi non mangia da
tutte due le bande, non è buona simia.
Chi guarda fisso nel sole e non
strenuta, guàrdati da quello.
Chi ogni dì si veste di nuovo,
grida ognor con il sartore.
Chi lascia stare i fatti suoi per far quelli
d'altri, ha poco senno.
Chi vuol salutare ognuno frusta presto la berretta.
Chi batte la moglie dà da mormorare ai vicini.
Chi misura il suo
stato non sarà mai mendico.
Chi gratta la rogna d'altri la sua
rinfresca.
Chi promette nel bosco, deve osservare la parola nella
città.
Chi ha paura degli uccelli non semini il miglio.
Chi
farà come il riccio starà sempre sicuro in casa.
Chi va in
viaggio porti il pane in seno e il bastone in mano.
Chi crede ai sogni fonda i
suoi pensieri nella nebbia.
Chi pone la sua speranza in terra, si discosta dal
cielo.
Chi è pigro delle mani non vada a tinello.
Chi ti
consiglia in cambio d'aiutarti, non è buon amico.
Chi castiga la cagna,
il cane sta discosto.
Chi imita la formica l'estate, non va per pane in presto
il verno.
Chi tira il sasso in alto, gli torna a dare sul capo.
Chi va
alla festa e ballar non sa, ingombra il loco e altro non fa.
Chi tuol moglie
per robba, la borsa va a marito.
Chi dà il maneggio di casa alle donne,
ha sempre le filiere all'uscio.
Chi non può portar la sua pelle
è una trista pecora.
Chi usa la robba in mala parte, alla morte vede le
sue partite.
Chi loda uno innanzi che l'abbia praticato, spesso si dà
delle mentite da se stesso.
Chi dà del pane ai cani d'altri, spesso
vien latrato dai suoi.
Chi non dà la sua mercede all'operaio non ha
dell'uomo giusto.
Chi mangia a gusto d'altrui non mangia mai cosa che gli
faccia pro.
Chi si pretende di saper nulla, quello è più
sapiente degli altri.
Chi vuol correggere altri, diasi buon essempio a se
medesimo.
Chi fugge le volontà terrene, mangia frutti celesti.
Chi si trova senza amici è come corpo senza anima.
Chi manda la
lingua avanti del pensiero non ha del saggio.
Chi all'uscir di casa pensa
quello che ha da fare, quando torna ha finito l'opera.
Chi dà presto
quello che promette, dà due volte.
Chi pecca, e fa peccar altrui, ha da
far due penitenze in una volta.
Chi a se stesso non è buono, manco
può esser buono per altri.
Chi vuol seguir la virtù, bisogna
scacciare il vizio.
Chi domanda quello che non spera d'avere, a se stesso nega
la grazia.
Chi ha buon vino in casa, ha sempre i fiaschi alla porta.
Chi
elegge l'armi vuol combattere con vantaggio.
Chi navica nel mar delle
sensualità si sbarca al porto delle miserie.
Chi del ben d'altri si
attrista, altri ride del suo male.
Chi ti lecca dinanzi, ti morde di dietro.
Chi sta in sospetto, vada a buon'ora a letto.
Chi ha la virtù per
guida va sicuro al suo viaggio.
Testamento di Bertoldo trovato
sotto al capezzale del suo letto, dopo la sua morte.
Queste sentenze
tutte fece il Re imprimere in lettere d'oro, e quelle poner sopra la porta della
sala regia, acciò ognuno le potesse vedere, né si poteva consolare
della perdita di così grand'uomo. E quelli i quali erano restati custodi
della camera del detto Bertoldo, nell'accommodare il letto dove esso dormir solea,
trovorno sotto il matarazzo un fagotto di strazzi e di scritture, dove senz'altro
indugio portarono il detto stramazzo inanzi al Re, il quale, facendolo subito
sciorre, trovò tra quelle tattare il testamento che il detto aveva fatto
molti giorni innanzi ch'ei morisse, né mai l'aveva palesato a nissuno; la
causa, forse, acciò che nissuno non sapesse di che stirpe né di che
parte egli si fusse, essendo un uomo così stravagante. Or sia come si voglia,
commandò il Re adunque che subito si andasse per il notaro che l'avea fatto,
acciò glielo leggesse alla presenza sua; e così il detto notaro
comparve in un tratto e, fatto la debita riverenza al Re, disse:
Notaro.
Eccomi, Sacra Corona, per essequire quel tanto che da lei mi sarà comandato.
Re. Avete voi fatto il testamento di Bertoldo?
Notaro. Sì,
Sacra Maestà, ch'io l'ho fatto.
Re. E quanto è che l'avete
fatto?
Notaro. Può essere da tre mesi in circa.
Re. Or
eccolo, prendetelo e leggetelo voi, ché questa lettera notaresca non capisco
troppo, per le stravaganti zifere che vi solete fare per dentro.
Notaro.
Anzi, Signore, ch'io non so scrivere se non volgare, perché mai non potei
passare il Donato con tutto ciò ch'io andassi alla scuola ventidue anni, e
però non attendo ad altro che alle differenze de' villani.
Re. Qual
è il vostro nome?
Notaro. Io mi addimando Cerfoglio de' Viluppi,
per servirla sempre.
Re. Bel nome avete certo e anche il cognome può
passare; ma vi starebbe meglio al parer mio nome Sier Imbroglio, poiché
imbrogliate così bene il mondo. Orsù, leggete allegramente, Sier
Cerfoglio, e dite forte, adagio e chiaro, ch'io v'intenda.
Sier
Cerfoglio legge il testamento.
Al nome del buon cominciamento, e sia in
bene; vedendo e conoscendo io Bertoldo figliuolo del quondam Bertolazzo, del
già Bertuzzo, di Bertin, di Bertolin da Bertagnana, che tutti noi mortali
siamo proprio come tante vessiche gonfie che ogni picciola pontura le manda a
spasso, e che come l'uomo giunge agli settant'anni, come oramai io mi ritrovo, si
può dire che sia sulle ventitre ore e che non possa stare a battere le
ventiquattro, e poi buona notte. Però fin ch'io mi trovo un poco di sale
nella zucca voglio accomodare alquanto i fatti miei con fare un poco di testamento
sì per mia sodisfazione, come anco per sodisfare a' miei parenti e amici ai
quali io mi trovo esser obligato; e così voi, Sier Cerfoglio, sarete pregato
di rogarvi di questo mio testamento e mia ultima volontà e prima.
Lasso
a mastro Bartolo ciavattino le mie scarpe da quattro suole, e otto soldi di moneta
corrente per essermi stato sempre amorevole e avermi più volte prestato la
lesina da trappongere i tacconi e fatto altri servigi, etc.
Item a mastro
Ambrogio spacciator di corte soldi diece per avermi più volte portato il
braghiero a far conciare e fatto altri servigi, etc.
Item a barba Sambuco
ortolano il mio cappello di paglia per avermi talora dato un mazzo di porri la
mattina a buona ora per fare buon stomaco e aguzzarmi l'appetito.
Item a
mastro Allegretto canevaro la mia correggia larga e il scarsellotto, per avermi
empito il bottrigo ogni volta che io ne avea bisogno, e fatti altri servigi, etc.
Item a mastro Martino cuoco il mio coltello e la mia guaina per avermi alcune
volte cotto delle rape sotto le cernici e fatto della minestra de fagiuoli con della
cipolla, cibo conferente alla mia natura più assai che le tortore, le pernici
e i pastizzi, etc.
Item alla zia Pandora bugattara il mio pagliarizzo dove
dormo suso e due scaranne, desligate e tre brazza di tela da farsi due grembiali, e
questo per avermi più volte lavato i scalfarotti e tenuto nette le mie
massarizie, etc.
Item, il resto de' strazzi, tattare e ciangatole ch'io mi
trovo nella camera, rinuncio e lascio a mastro Braghetton solfanaro, per avermi
talora portato a donare un castagnaccio e altre cosette uguali al mio gusto, etc.
Item, lasso a Fichetto ragazzo di corte stafillate numero venticinque con un
buon stafile per avermi forato l'orinale e fattomi pisciare nel letto e attaccatomi
un chiocchetto overo zaganella di dietro e orinato in una scarpa e fattomi molte
altre burle; e questo bramo sia essequito quanto prima etc., perché egli
è un gran tristo, etc.
Re. Di questo non si mancherà etc.
Seguitate pur innanzi, Sier Cerfoglio.
Notaro. Item, perché quando
venni qua giù, che ne foss'io digiuno, io lasciai la Marcolfa mia moglie con
un figlio chiamato Bertoldino che deve aver da diece anni in circa, né
però mi lasciai intendere dov'io mi gissi acciò non mi tenessero
dietro, non avendo mostacci da comparire in questi luochi, parendo più tosto
babuini che altro, e trovandomi aver un podere e certe poche bestiole, lascio la
Marcolfa donna e madonna d'ogni cosa fin che il figliuolo abbi venticinque anni, che
poi allora voglio sia padrone assoluto d'ogni cosa, con patto che se esso piglia
moglie cerchi di non impazzarsi con gente da più di sé.
Che non si domestichi con i suoi maggiori.
Che non dia danno ai suoi
vicini.
Che mangi quando n'ha, e che lavori quando può.
Che
non pigli consigli da gente che sia andata a male.
Che non si lasci medicar a
medico amalato.
Che non si lasci cavar sangue a barbiero che gli tremi la
mano.
Che dia suo dovere a tutti.
Che sia vigilante ne' suoi
negozi.
Che non s'impacci in quello che non gl'importa.
Che non
facci mercanzia di quello che non s'intende.
E sopra il tutto ch'ei si
contenti del suo stato, né brami di più, e consideri che molte volte
l'agnello va innanzi la pecora, cioè che la morte ha la balestra in mano per
tirare tanto a' giovani quanto a' vecchi; che se pensarà a tutte queste cose,
non inciamperà mai in cosa che gli possa dar danno, e farà felice ed
ottimo fine.
Item, non mi trovando altro, poiché non ho voluto accettar
mai nulla dal mio Re, il quale non ha mancato di persuadermi a prendere da lui
anelli, gioie, danari, veste, cavalli e altri ricchi presenti, perché forse
con simili ricchezze non avrei mai posato e forse ancora avrei fatto mille
insolenze, e fattomi odioso a tutti, come alcuni che, di bassi e vili che sono,
ascendono per fortuna a gradi alti e sublimi, né però con tante
dignità non escono fuora del fango del quale sono impastati; io mi contento
di morir povero e sapere ch'io non ho mai usato adulazione al mio Re, ma sempre
consigliatolo fedelmente in ogni occasione ch'egli mi ha chiamato, parlando
liberamente secondo che io l'ho inteso, e non altrimente. E per mostrargli parimente
in quest'ultimo fine l'affetto ch'io gli porto, gli lascio questi pochi di
documenti, i quali non si sdegnarà accettare e osservare insieme, ancor
ch'essi eschino fuor della bocca di un rustico villano, e sono questi, cioè:
Di tenere la bilancia giusta, tanto per il povero, quanto pel ricco.
Di
far veder minutamente i processi, inanzi che si venghi all'atto del condennare.
Di non sentenziare mai nessuno in colera.
Di farsi benevoli i suoi
popoli.
Di premiare i buoni e i virtuosi.
Di castigare i
rei.
Di scacciar gli adulatori, i gnattoni e le lingue mal dicenti che
mettono fuoco per le corti.
Di non aggravare i suoi sudditi.
Di
tenere la protezzione delle vedove e pupilli, e difendere le loro cause.
Di
espedire le liti, né lasciare stracciar i poveri litiganti, né farli
correre in su e giù per le scale del foro tutto il giorno.
Che
osservando questi pochi ricordi viverà lieto e contento, e sarà tenuto
da tutti per ottimo e giusto Signore, e qui finisco.
Udito il Re il prefato
testamento e gli ottimi ricordi a lui lasciati, non puoté fare che non
mandasse le lagrime fuor degli occhi, considerando alla gran prudenza che rognava in
costui e l'amor e la fedeltà che esso gli avea portato in vita e dopo la
morte. E così, fatto donare a Sier Cerfoglio cinquanta ducati, lo
licenziò; poi, secondo che il Magno Alessandro conservò fra le
più care e preciose gioie l'Iliade d'Omero, così esso fece riporre il
detto testamento fra le sue più ricche e pregiate gemme; poi cominciò
a fare instanza che si trovasse dove fosse il suo figliuolo Bertoldino e la Marcolfa
sua madre e che si conducessero alla città, che per ogni modo gli voleva
appresso di lui, per memoria del detto Bertoldo; e così espedì
alquanti cavalieri che l'andassero a cercare per quei monti e boschi vicini e che
non tornassero a lui se non gli avevano con essi.
Così si partirono i
detti cavalieri, e tanto andarono girando attorno che li trovarono. Ma di quello che
ne seguì, s'udirà in un altro volume, e presto, che questo non passa
più oltre per ora, lasciandovi intanto il buon giorno. Addio.
Le piacevoli e ridicolose semplicità di Bertoldino.
figliuolo del già astuto e accorto Bertoldo
con le sottili e argute sentenze
della Marcolfa
sua madre e moglie del già Bertoldo
Opera tanto piena di moralità quanto di spasso
di Giulio Cesare Croce
Proemio.
Ogni pianta, ogni albero e ogni radice suole produrre il frutto suo secondo la sua specie, né mai prevaricare di quanto gli ha ordinato la gran madre natura, maestra di tutte le cose. Solo la pianta dell'uomo è quella che varia e manca, onde molte volte si vede che d'un padre di bella presenza nasce un brutto, anzi mostruoso figlio, e d'un dotto un ignorante e goffo. La causa di ciò lascio disputare a chi sa, poiché io non son scolastico né cattedrante, ma un uomo dozzinale e che ha poca cognizione di simil cose; però non starò quivi a rendere la ragione di quanto o di tanto, né dove si derivi simil varietà, ma solo io m'accingo per spiegarvi in queste carte la vita di Bertoldino figliuolo del quondam Bertoldo, la cui natura tanto fu differente dal padre, quanto è il piombo dall'oro e il vetro dal cristallo, essendo esso Bertoldo pieno di tanta vivacità e di tanto ingegno, e la madre sua parimente di tanto alto e chiaro intelletto, ed esso (un) essere tanto semplice che mai non fu così il figliuolo di Midgone, il quale, come scrivono molti, dispensava tutto il giorno a numerare l'onde del mare, o di quell'altro che si levava di tre ore inanzi giorno per vedere crescere un fico ch'egli aveva nell'orto. Insomma, qui udirete la vita d'un semplice, anzi d'un balordo, se non in tutto, almeno in parte, ma avventurosissimo, essendo la fortuna stata sempre fautrice di questi tali, come bene disse il gentilissimo Ariosto, quando, descrivendo le pazzie d'Orlando, disse: "Ma la Fortuna, che de' pazzi ha cura", e via discorrendo; e molte volte si mostra nemica agli uomini savi e sapienti, come chiaramente si vede di giorno in giorno. Or dunque, mentre io mi vado preparando per descrivere, come ho detto, le simplicità di questo galante umore, e voi intanto venite preparando l'orecchie vostre a udirle, perché ne trarrete utile e spasso a un tempo istesso. State sani, addio.
Il Re Alboino manda attorno gente per vedere se si trova alcuno della razza di Bertoldo.
Dopo la morte dell'astutissimo Bertoldo essendo restato il Re Alboino privo di così grand'uomo, dalla cui bocca scaturivano detti tanto sentenziosi e che con la prudenza sua aveva scampato molti strani pericoli nella sua corte, gli parea di non poter vivere senza qualcheduno il quale, oltre che gli desse consiglio e aviso nelle sue differenze, come facea già il detto Bertoldo, gli facesse ancora con qualche piacevolezza passare tal volta l'umore; e pur s'andava imaginando che della razza di esso Bertoldo vi fusse rimasto qualchedun altro, il qual, se bene non fusse stato così astuto e accorto come il detto, avesse almeno avuto alquanto di quel genio e di quella sembianza, per tenerlo appresso di sé, come faceva la buona memoria di esso Bertoldo. E così stando nell'istesso pensiero si venne a ricordare come nel suo testamento Bertoldo aveaffatto menzione di sua moglie e di Bertoldino suo figliuolo, e lasciatolo erede universale di tutto il suo avere, ma però non avea specificato dove né in qual luogo essi dimorassero, per esser forse più tosto gente da boschi e da montagne che da città, essendo persone rozze e lontane da ogni civiltà; onde si pensò d'espedire gente attorno per quei monti e per quei villaggi, ch'andassero a cercare dove si trovavano costoro, se pur erano al mondo; e, fatta tal disposizione, chiamò a sé uno de' suoi più famigliari di corte, addimandato Erminio, e gli commise che senz'altro indugio esso montasse a cavallo e si ponesse in via, con altri compagni con esso lui, e che cercassero la moglie di Bertoldo e il figliuolo, se erano vivi, e gli conducessero a lui, e di ciò gli fece grandissima instanza, per l'amor grande che esso portava al detto Bertoldo.
Gli uomini del Re si partono per andare a essequire il suo commandamento.
Udito il commandamento del Re, Erminio (che così si chiamava quel cavaliero, come ho detto) fattogli la debita riverenza non stette a indugiar punto, ma, preso con essolui alquanti gentiluomini, montarono a cavallo e si posero in viaggio, e cercarono tutti quei villaggi attorno, addimandando a ognuno che trovavano se gli sapevano dar notizia di queste genti, né mai poterono trovare uomo che gliene sapesse dar novella; onde erano quasi disperati per lo strettissimo precetto il quale gli aveaffatto il Re lor signore, cioè ch'essi non tornassero a lui senza condurgli costoro. Alfine, dopo molto girare attorno, capitarono sopra un monte molto aspro e selvaggio, dove non pareva loro vi potesse abitare altro che animali indomiti e fieri, non vi essendo altro che boschi e ruinose rupi, e si pentirono più fiate di essere saliti colà sù, e tosto voltarono i lor cavalli a dietro per tornare a basso, e nel calare al piano giunsero suso un sentiero, il quale guidava alla volta d'un bosco, e aviatisi per quello, essendo assai battuto dalla pesta degli uomini e delle bestie, andarono tanto innanzi, ch'essi gionsero in mezzo al detto bosco, il quale dalla parte di settentrione era cinto e adombrato d'altissime querce e da mezzogiorno alquanto aperto, ma circondato da sassi grandissimi, i quali venivano a servire quasi per fortezza del loco così formato dalla natura, e nel mezzo del detto bosco vi si stava un vil cappanuccio fatto di frasche e di terra e coperto di tegole, e innanzi all'uscio di quello vi sedeva una donna di aspetto molto difforme, la quale con la conocchia a lato filava alla spera del sole; quale vedendo queste genti giongere là su, tosto levatasi da sedere se ne entrò nel suo cappanno e serrò l'uscio, come quella che rare volte o non mai era usa a vedere simil personaggi in tal loco, e appoggiatogli il manico del badile si fortificò dentro, temendo fossero genti che gli volessero fare qualche oltraggio; e questa era la moglie di Bertoldo, la quale con il suo figliuolo Bertoldino (che così si chiamava) dimorava su quelle briccole, e il detto doveva avere quattordici o quindici anni in circa, ed era gito a pascere le capre per quei boschi, ed ella si chiamava Marcolfa.
Erminio. chiama la Marcolfa e la prega aprirgli l'uscio.
Vedendo Erminio che quella femina s'era fortificata in casa, ancora che con un pugno esso avesse potuto battere giù l'uscio, nondimeno non volse però usarle atto alcuno d'inciviltà, ma chiamandola amorevolmente la cominciò a pregare ch'ella gli volesse aprire in cortesia, attento ch'essi non erano lì per fargli danno alcuno, ma solo per giovargli; ond'ella, affacciatasi a una picciola fenestruccia della detta capanna, così disse:
Marcolfa. Che cosa cercate voi qua su per queste biche?
Erminio. Aprite l'uscio, madonna, che noi non siamo venuti qua se non per farvi beneficio.
Marcolfa. Non può fare beneficio di gran rilievo ad altri chi è fuora di casa sua.
Erminio. Se ben noi siamo fuora di casa nostra, vi potiamo però fare assai giovamento. Venite alquanto fuora, che vi vogliamo parlare.
Marcolfa. Chi cerca di cavarmi fuor di casa mia cerca più tosto nocermi che di giovarmi; però gite alla via vostra, che questo sarà il maggior giovamento che voi potiate farmi.
Erminio. Dite, madonna mia, avete voi marito?
Marcolfa. Chi cerca di sapere i fatti altrui mostra di curare poco i suoi.
Erminio. Buono per miaffé; ma ditemi, per cortesia, se voi avete marito o no.
Marcolfa. Io l'averei se esso non avesse mangiato.
Erminio. Odi questa, se va a proposito. E come l'avereste voi, se esso non avesse mangiato?
Marcolfa. Se esso non avesse mangiato pavoni, pernici, fagiani, tortore e altri cibi delicati, i quali erano contro la sua natura, ma avesse atteso a mangiare delle castagne, come era usato prima, esso sarebbe vivo, che ora egli è morto.
Erminio. Buona proposizione affé; ma, ditemi, chi era questo vostro marito, se vi piace?
Marcolfa. Il più bello e il più garbat'uomo che si potesse veder al mondo.
Erminio. Come si chiamava esso per nome?
Marcolfa. Poiché bramate saperlo, io ve lo dirò, e si chiamava Bertoldo.
Erminio. Bertoldo dunque era vostro marito?
Marcolfa. Signor sì.
Erminio. O buona nuova per noi! E quello era il più bell'uomo del mondo?
Marcolfa. Maidesì, anzi agli occhi miei esso parea un Narciso, perché a una donna onesta deve sempre più piacere il suo marito, che tutti gli altri.
Erminio. E voi piacevate ad esso.
Marcolfa. Non solo esso mi amava, ma di me avea una gelosia, che creppava.
Erminio. Orsù, di qui chiaro si vede che ogni simile apetisce il suo simile, e in vero esso avea grandissima ragione d'esser geloso, perché certamente voi eravate una copia d'amanti molto lascivi.
Marcolfa. La bellezza sta nel volto, sì, ma molto più nelle virtù e nelle belle qualità dell'animo, e però si suol dire per proverbio che non è bello chi è bello, ma bello chi piace; perché ancora vi sono degli uomini belli, i quali poi hanno delle qualità dispiacevoli, e degli brutti, all'incontro, i quali hanno in essi certe grazie date dal Cielo, le quali gli fanno amabili e graziosi a chi gli prattica, sì come particolarmente parea che regnassero in Bertoldo mio consorte.
Erminio. Voi dite la verità. Ma ditemi, di grazia, avete voi alcun figliuolo di lui?
Marcolfa. Io n'ho uno, ma non l'ho.
Erminio. Come l'avete, se non l'avete?
Marcolfa. Quando esso è in casa posso dire che io l'abbia; ma ora che egli è fuora, posso dire di non averlo altrimenti.
Erminio. E dove si ritrova ora questo vostro figliuolo?
Marcolfa. Domandatelo alle sue scarpe, le quali vanno seco per tutto.
Erminio. Per donna di montagna voi siete molto arguta.
Marcolfa. Egli è segnale ch'io sono stata sotto un buon maestro.
Erminio. Sì, certo. Orsù, madonna mia, io vi faccio intendere come il Re nostro signore ci manda a cercarvi ambidue, ché, per la gran benivolenza ch'esso portava a Bertoldo vostro marito, esso vuole tenervi appresso e far vostro figliuolo uno de' primi della sua corte; però venite fuora sicuramente, che vi potiamo parlare con più commodità.
Marcolfa. Eccomi, che cosa volete voi dirmi?
Erminio. Che cosa avete voi di buono da pransare?
Marcolfa. Chi cerca saper quello che bolle nelle pentole altrui, ha leccate le sue.
Erminio. Voi siete una maliziosa femina.
Marcolfa. Quest'aere sottile porge così. Ma poiché bramate sapere quello che io mi trovo da mangiare, io ve lo dirò: io tengo in questa pentoletta quattro erbe selvatiche senza sale.
Erminio. Quattro erbe senza sale, ohimè, or come potete voi mangiarle?
Marcolfa. L'appetito è condimento delle vivande, e però la nostra mensa viene a esser più lauta e sontuosa assai che quella del Re vostro, perché sopra questi alpestri monti la fame sempre precede alla digestione, e l'esercizio provoca la detta fame, e il digiuno fa i cibi saporiti e buoni, e la sete fa l'acque dolcissime e delicate.
Erminio. Veramente a questo vostro parlare si vede che siete stata discepola di esso Bertoldo, dalla cui bocca mai non uscì fuori parola che non fosse piena di sentenze. Ma, ditemi, come faremo noi a vedere questo vostro figliuolo?
Marcolfa. Aprite gli occhi come esso viene, e lo vedrete, se non siete ciechi.
Erminio. Orsù, tanto faremo; ma intanto che noi l'aspettiamo, ci fareste un piacere menarci un poco nella vostra cantina a bere, ché, dapoi che cavalchiamo costà su questi monti, mai non abbiamo bevuto.
Marcolfa. Di grazia, i miei signori, venite pure con essa meco.
La Marcolfa mena i detti sopra un limpido ruscello d'acqua e, quivi giunta, dice a loro:
Marcolfa. Eccovi, onorati signori, la cantina mia e del mio figlio, alla quale veniamo ogni dì a trarci la sete con tutto il nostro bestiame. Beete ora quanto vi pare, poiché le nostre botti stanno sempre piene, e tanto le lasciamo aperte la notte quanto il giorno. Beva chi vuole, e se bevesti tre giorni continui di questo chiaro liquore non v'alteraresti punto, né vi sarebbe pericolo né sospetto di goccia né di paralisia, come spesse volte suole accadere a molti di quelli i quali caricano l'orcia di quei vini grandi e possenti, senza meta né misura alcuna, i quali similmente levano l'intelletto e sono causa di mille strani inconvenienti, perché, come l'uomo ha riscaldato il cervello, facilmente si piega a far delle cose indegne e di poca lode, onde esso dà da ridere bene spesso al volgo e fa piangere quei di casa; ma chi beve di questa sta sempre in tono e sempre ha il suo cervello a segno.
Erminio. Veramente, madonna, che questa vostra cantina è molto nobile e non v'è sospetto, come dite voi, che niuno vi spini le botti. Ma non avete voi almeno un qualche vaso da poterne attingere un poco, tanto che noi beviamo?
Marcolfa. Qua su non vi capitano mai boccalari né pentolari, e però noi non abbiamo bicchiere, né scodella; ma in tal occasione ci serviamo della tazza la quale ci ha dato la madre natura, cioè le mani, sì come ancora converrà che facciate voi ora, se vorrete bere.
Erminio. Orsù, ancor noi ci accomodaremo secondo l'ocasione. Ma chi è questo, che viene in qua con quelle capre?
Marcolfa. Questo è Bertoldino, figliuolo di Bertoldo e mio.
Erminio. O buona nuova affé. Vieni ben innanzi, Bertoldino.
Bertoldino si maraviglia di quelle genti a cavallo, che mai più non ne avea veduto, e dice:
Bertoldino. Che genti e che bestie attaccati insieme sono queste, mia madre, che parlano qua con essa voi?
Erminio. Costui ci ha dato delle bestie sulle prime.
Marcolfa. È signale che vi ha conosciuti da discosto. Orsù, vieni pur innanzi, che questi gentiluomini ti vogliono parlare.
Bertoldino. I gentiluomini sono dunque mezzo uomini e mezzo cavalli?
Erminio. Bèccati su quest'altra, quasi che voglia dire che siamo mezzo uomini e tutto il resto cavalli.
Marcolfa. Non vuol dir così altrimenti, ma dice questo perché vi vede sopra quei cavalli, cosa ch'esso non ha veduto fin ora in questi luoghi, e si è pensato che voi e le bestie dove sedete suso, siate tutti una cosa.
Erminio. Orsù, questo non ci dà fastidio; fatelo pur venire innanzi.
Bertoldino. O quante gambe hanno costoro, e n'hanno sei per uno! O quanto devono correre forte!
Marcolfa. Quelle quattro che toccano terra sono quelle del cavallo, e le dua che pendono dai lati sono le sue di loro.
Bertoldino. Questi animali, che mangiano il ferro, deono aver le budelle di piombo.
Erminio. Sì, e' l'hanno di stagno. O quest'è il bel barbagianni, e non vuol già somigliarsi al padre, ch'esso era accortissimo e d'acuto ingegno, e costui fin ad ora mostra di essere una delle gran pecore che vadino in beccaria. O quanto spasso vuole aver il Re di questo cucco dispennato, se lo potiamo condurre a lui! Orsù, Bertoldino, poniti all'ordine, che bisogna che tu vegni con essi noi.
Bertoldino. E dove mi volete voi menare?
Erminio. Alla corte del Re nostro signore.
Bertoldino. A che fare? A stare per gentiluomo con un servitore?
Erminio. Sì bene, ah ah ah! Oh che dolce sempliciotto è questo!
Bertoldino. E quella corte è maschia o femina; sta ella a terreno, o a tassello?
Erminio. Ella starà dove vorrai tu. Vientene pur via allegramente, che te felice se saprai conoscere la tua buona ventura.
Bertoldino. Di che panni va ella vestita questa buona ventura, acciò che io la possa conoscere come io la veggio? Ditemelo un poco.
Erminio. Ella va vestita d'oro e d'argento e pietre preciose, delle quali tu ancora sarai riccamente vestito, e praticherai fra dame e cavalieri, da' quali sarai onorato e riverito come gentiluomo principale del nostro Re.
Bertoldino. Potrò io poi menare le mie capre nella sala del Re quando mi parerà?
Erminio. Sì, sì, vien pur via, né dubitare di nulla; e voi, madonna, ch'io non so il vostro nome.
Marcolfa. Marcolfa mi chiamo.
Erminio. Madonna Marcolfa, se volete venire ponetevi ancor voi all'ordine quanto prima, e aviamoci.
Marcolfa. Tanto è ordine ch'io lasci mai questo tugurio, ancor ch'esso sia di pali e di terra, quant'è ordine che i villani lascino mai le malizie loro; anzi bramo che quanto prima voi ve n'andiate di qua, perché l'aria de' monti non si confà con quella del piano; e ancora vi prego a non volermi privare di questo figlio, attento ch'egli senza di me non camparebbe al mondo quattro giorni, essendo composto di materia grossa e leggiero di cervello, a tale ch'egli sarebbe il babuino di corte, e si sa che nelle corti non vi voglion simili garzotti, ma genti astute e accorte, che sappino bene il fatto loro.
Erminio. Quello che lui non saprà se gli insegnarà, né vi mancheranno maestri che lo disciplinaranno e che gli daranno le buone creanze. Lasciate pur che venghi con noi, e non vi dubitate di nulla.
Marcolfa. Che dici, Bertoldino, ci vuoi tu andare, o no?
Bertoldino. Se venite ancor voi io mi vi lascierò ridurre, altramente io non voglio partirmi di qua su.
La Marcolfa si risolve d'andare con Bertoldino alla città.
Marcolfa. Orsù, io mi risolvo di venire ancor io teco, acciò che tu possi far bene, e che tu non perda tanta ventura. Ma innanzi ch'io mi parta io voglio raccomandare la casa nostra a questa vicina qui appresso, la quale n'abbi custodia fin al nostro ritorno, se mai più tornaremo qua su.
Bertoldino. E io a chi lascierò le mie capre?
Marcolfa. A lei ancora le lascierai.
Bertoldino. No, no, io me le voglio condurre innanzi con il mio bastone.
Erminio. Non occorre che tu meni la giù capre né becchi, ché ve ne son in abbondanza.
Bertoldino. Vi son delle mandre di vacche ancora colà giù?
Erminio. Sì, ti dico, e assai più copia di qua su. Vieni pur via allegramente.
Bertoldino. Eccomi dunque pronto a lasciar queste, poiché la giù non ne mancano dell'altre. Orsù, mia madre, rinunciate le mie capre ancora alla nostra vicina, e sbrighiamoci in un tratto.
Marcolfa. Adesso adesso sarò alla via.
Così la Marcolfa raccomandò la casa alla sua vicina, che ne tenesse cura fin al suo ritorno, e messe un poco di stoppa e quattro fuse e due ciavatte in una sporta, e tolto la gatta e una gallina, ch'ella avea, l'una in una sachetta e l'altra in grembo, s'inviò co' detti gentiluomini alla volta della città; i quali, volendo metter Bertoldino a cavallo, non poterono mai fargli aprirle gambe, onde gli convenne porlo così a traverso della sella come un sacco di grano, e così cavalcando di buon passo, lasciando la Marcolfa venire a sua commodità, gionsero alla città, dove che, andato la nuova al Re di tal venuta, subito gli uscì incontro con tutta la sua corte, e vedendo costui a traverso di quel cavallo incominciò fortemente a ridere, e poi disse ad Erminio:
Re. Che fagotto è quello che tu hai a traverso di quel cavallo?
Erminio. serenissimo Signore, questo è Bertoldino, figliuolo di Bertoldo, il quale avemo trovato sopra questi alpestri monti, in un luogo aspro e selvaggio, e vien con esso la madre di lui ancora, e sarà qua presto, perché ella camina di buonissimo passo.
Re. Perché non avete voi messo costui a cavallo come si fanno gli altri?
Erminio. Perché mai non v'è stato possibile, con tutto ciò che noi abbiamo fatto ogni sforzo per metterlo in sella, ch'esso mai abbia voluto aprir le gambe, onde s'abbiamo voluto condurlo, ha bisognato metterlo così a traverso, come fanno i macellai i vitelli che vanno a torre in villa, e credo che la Corona vostra avrebbe fatto ben a lasciarlo star a casa sua, ch'è più grosso dell'acqua de' macheroni e se gli darebbe a creder che gli asini volassero, e volea al dispetto del mondo condurre le sue capre qua giù, e avemo durato fatica grande a levarlo dalle castagne e dalle ghiande.
Re. Orsù, non importa, toglietelo giù di quel cavallo, che gli devono essere venute le budelle in bocca, e fate destramente, che voi non gli fate male. Veramente all'effigie non può negare di non esser figliuolo di Bertoldo; e come dite voi ch'ei si chiama per nome?
Erminio. Bertoldino è il nome suo, e la madre Marcolfa, la quale è questa che viene in qua, ed è donna molto accorta e d'assai sottile ingegno; ma costui è bene il rovescio della medaglia, sì del padre come della madre ancora.
La Marcolfa saluta il Re.
Marcolfa. Il Cielo ti salvi e mantenga, o serenissimo Re, e ti accreschi ognora più stato e grandezza.
Re. E a voi ogni sorte di consolazione, madonna Marcolfa. Siete voi stanca?
Marcolfa. Stanca sarei io s'io non avessi caminato.
Re. Come, stanca se voi non avesti caminato? Questo è un gran paradosso; ditemelo più chiaro.
Marcolfa. Ve lo dirò, Signore. Colui che camina per obedire al suo superiore, come ho fatto io, non si stanca mai, ma sì bene chi volontieri non lo serve si stanca, anco che vada piano, anzi, se bene ei non si muove, perché ha già stanco il pensiero e la voglia d'aggradirlo innanzi che si ponga in camino.
Re. Questo è il più chiaro segno che voi mi potiate dare di esser stata moglie del mio caro Bertoldo, poiché a pena qui giunta avete sputato fuori una sentenza così nobile. Orsù, che gli sia preparato il loro appartamento e che siano vestiti nobilmente secondo l'uso della nostra corte, e che siano condotti dalla Regina.
Marcolfa. Di grazia, serenissimo, concedimi un favore, ti prego.
Re. Volontieri; comandate pure che cosa volete sicuramente.
Marcolfa. Non ci far levare d'intorno questi nostri panni, i quali è tanto tempo che noi siamo usi portare, perciocché chi spoglia l'arbore della sua antica veste, non solo esso non fa più frutti, ma si secca affatto; voglio riferire che, se tu ci fai adornare di panni d'oro e d'argento, noi potressimo, mirandoci talmente addobbati e con quelle spoglie così ricche e di gran pregio intorno, darci ad intendere d'esser di qualche gran lignaggio, scordandoci in tutto la bassezza nostra, montar in superbia e in ambizione e voler farci temere a questo e quello, e insomma inasinirci affatto, poiché non si trova al mondo la più insolente bestia quanto il villano il quale si trova posto in alto stato dalla fortuna; però lassaci i nostri panni, come ho detto, perché mirando quelli staremo ognora umili e bassi, essendo nati per esser servi e non padroni.
Re. Gran parole sono queste, che tu dici, e degne da notarsi; e mostri in vero la sincerità dell'animo tuo, e conosco chiaramente che il Cielo dispensa le grazie sue tanto ne' luoghi ruvidi e alpestri quanto nelle popolate città, dove sono le scuole delle scienze e degli studi; e perciò tanto più voglio che tu sii adornata di ricchi vestimenti e che tu sia servita quanto la Regina istessa.
Marcolfa. Ascolta, o serenissimo Re, ti prego, prima una filateria piacevole, ma che torna a proposito nostro, la quale mi disse una sera la buona memoria di Bertoldo mio marito, mentre stavamo presso al fuoco a mondare delle castagne.
Re. Volontieri v'ascolto; dite pur su.
Marcolfa. Mi disse ch'egli avea udito raccontare a suo avolo, che fu una volta là nelle parti della Trabisonda, dove si sbarcano le scorze dell'anguille affumicate, un asinaccio grande e alto di gambe quant'ogni gran cavallo, il quale vedendo un dì certi corsieri con le selle guarnite d'oro e di perle riccamente ornate, e la briglia e il freno con borchie e rosette d'oro, e valdrappe riccamate superbissimamente, gli entrò nel capo (o che bestiazza) di esser anch'esso adobbato in tal maniera, e ne fece motto al suo padrone, pregandolo per quanto egli avea cara la sua pelle come era morto, a voler fargli fare una sella, briglia e valdrappa della maniera ch'avevano quei corsieri, adducendo per ragione ch'esso non era manco nobile del cavallo, essendo anch'esso stato creato con tutto l'altro bestiame in un istesso giorno, onde per antichità non cedeva a nessun'altra bestia che si fusse.
Alle cui parole il padrone così rispose: "Messer asino mio caro, non v'accorgete voi che dite una gran baccaleria? Perché, quando furono create le bestie, come voi dite, a ciascuna di esse furono dispensati i loro uffici, cioè il bue all'aratro, il cane al pagliaio, il gatto a prender i toppi, il mulo al basto, il cavallo alla sella, e l'asino qual siete voi alla soma e alle bastonate. Però voi non farete nulla, perché, se bene voi avesti attorno tutto l'oro di Mida, sempre sarete conosciuto per un asino, e poi avete le orecchie tanto lunghe che non potrete mai negare di non esser un asinaccio da legnate, come siete". A cui rispose messer l'asino: "Se l'orecchie longhe ch'io tengo mi hanno da scoprire per un asino, a questo tosto si trovarà rimedio con il farmele ascortare atteso la testa, che poi allora io parerò un bertone, dove che, come sarò guarnito con la valdrappa lunga e gli altri fornimenti, chi sarà quello che mi scorga per un asino? Fate pur venire or ora il marescalco, e quanto prima mi tagli l'orecchie" (mira che bestiale ambizione d'un asinaccio). Così il padrone per compiacerlo gli fece tagliar tutte due l'orecchie presso alla zucca e l'abertonò galantemente, e poi lo fece guarnire nobilissimamente e lo pose fra i suoi corsieri; il qual per esser sì grande, com'ho detto, fu tolto su le prime per un corsiero di molta stima. Ma perché la natura supera l'accidente, il misero animalaccio, vedendo passar un'asina per strada, subito si discavallò e s'inasinì di nuovo e, lasciando i cavalli, incominciò a correre dietro a quell'asina raggiando, e gettò in terra la valdrappa e la sella e ruppe la briglia e fece mille mali, scoprendosi in tutto e per tutto un vile asino com'egli era; onde coloro che fin allora l'avevano tolto per un cavallo, scorgendolo al raggiare e all'altre asinesche creanze ch'egli era un asino, tosto lo presero e lo menarono nella stalla, e ivi gli dierono una buona prebenda di bastonate e lo ritornarono sotto la soma secondo ch'egli era usato prima. Quest'esempio, o serenissimo Re, può servire a noi, che se tu ci farai vestire riccamente, e mettendoci co' principali della tua corte, ognuno ci mirerà e ammirerà finché staremo cheti; ma, come poi ci udiranno parlare, ci scorgeranno per due goffi e rustici montanari e, dove prima ci avevano in pregio e stima, si faranno beffe di noi e forse ancora ci faranno qualche scherzo. Sicché o lasciaci questi panni bigi che noi abbiamo, o, se pur vuoi farci vestire, facci vestir moderatamente, senza oro né seta, perch'io ti so dire che noi non siamo per riuscire troppo bene in questa corte, e massime questo mio figliuolaccio, il qual è più goffo che lungo e ogni giorno farà qualche disproposito da far ridere la gente, e forse ancora piangere.
Re. Questa favola che tu m'hai narrata è molto esemplare, ma non ho dubbio che tu faccia scappate, perché fin ad ora m'hai dato chiaro segno del tuo raro intelletto, e non ti tengo per donna ruvida, se bene i panni e la vil scorza lo dimostrano, ma sì bene per un oracolo; e se bene Bertoldino alcuna volta parlasse o facesse qualche cosa fuora di proposito, come tu dici, sarà sempre per iscusato per esser egli giovane e non ancora esperto nelle città, e ogni dì praticando con questi cortegiani piglierà senno e ingegno. Tu dunque, Erminio, menali agli loro appartamenti e falli vestire di buon panno fino e provedigli di quello che gli occorre, e, come son posati, conduceli dalla Regina, ch'io so che li vedrà molto volontieri.
Erminio. Tanto farò, Signore. Orsù, venite con esso meco.
Bertoldino. E dove ci volete voi menare?
Erminio. Venite pur meco e non vi dubitate, ch'io vi voglio menar nell'alloggiamento di vostro padre.
Bertoldino. Mio padre alloggia sotto terra, lui, e però voi ci volete seppellire con esso lui. O mia madre, torniancene a casa nostra.
Marcolfa. Ei vuol dire nelle stanze dove alloggiava tuo padre quando egli era vivo, balordo che tu sei.
Bertoldino. Faceva dunque osteria mio padre?
Marcolfa. Perché osteria?
Bertoldino. Ma s'ei dice dove alloggiava mio padre, forza è ben ch'egli fosse oste.
Marcolfa. Ei vuol dir dov'egli abitava, cioè le stanze dove stava. Ohimè, ben lo diss'io, ch'io sarei impacciata qua giù con questo bestiolo. O, foss'io restata a casa mia, volesselo il Cielo!
Erminio. Orsù, venite pur meco e non vi sgomentiate, ché questo non è nulla.
Così Erminio li condusse in una bellissima stanza tutta adobbata di panni d'arazzi e spalliere d'oro, co' due letti ornati di padiglioni di broccato e cupola d'oro, e coperte di seta con bellissimi ricami e altre cose di grandissimo valore, e dopo fece venire lo sartore del Re a vestirli alla civile; dove che, stringendo esso alquanto il giuppone alla gola a Bertoldino, come a quello ch'era usato a portare i panni larghi, credendo che il detto sartore lo volesse affocare, incominciò a dire gridando:
Bertoldino. Perché mi fa impiccare il Re? o strangolarmi qui?
Sartore. Perché impiccare o strangolare? Che cosa dici tu?
Bertoldino. Non sei tu il boia?
Sartore. Io non sono il boia altramente, ma sì bene il sartore del Re.
Bertoldino. L'hai tu mai impiccato lui?
Sartore. Perché vuoi tu ch'io l'impicchi, s'egli è mio Signore?
Bertoldino. Perché impicchi tu me adunque, se mai non l'hai appiccato lui?
Sartore. Come, che io t'impicco? e che cosa ti faccio io da impiccarti?
Bertoldino. Tu mi stringi tanto la gola ch'io non posso avere il fiato.
Sartore. Egli è il vestimento, che va così assettato alla gola, e per questo a te pare che io t'affochi nell'accomodarlo.
Bertoldino. Se tu vai stringendo un poco più, io non terrò saldo, perché sento che mi vien suso un castagnaccio ch'io ho mangiato poco fa. Guarda che il viene; non te lo diss'io, ch'io non terrei saldo?
Bertoldino impronta il mostaccio al Sartore con un castagnaccio, ed esso tutto colerico dice:
Sartore. O ti venga il cancaro, porcaccio! Mira come tu m'hai concio il mostaccio! Ohibò, possi tu creppare!
Bertoldino. Non te l'ho io detto prima, ch'io non starei al segno, perché tu mi stringevi troppo la gola? Lasciami pur un poco i miei panni vecchi a me, ch'io non voglio che tu mi ficchi in quelle sacchette, ch'io mi vi affogherei dentro.
Sartore. Orsù, insomma il villano, o alla città o alla villa ch'egli si sia, sempre conviene ch'esso mostri la sua villania, perché mai non si cavarebbe la rana del pantano. Piglia gli tuoi panni e vestiti a tuo modo, ché, a voler vestir te nobilmente, è proprio un volere mettere la sella a un porco; e qui ti lasso con il malanno che ti pigli, ch'io voglio andare a lavarmi il mostaccio.
Così il sartore, col grugno tutto impiastrato di pasta di castagne, se n'andò a casa borbottando a lavarsi il volto; poi fece la relazione al Re di quanto gli era avvenuto. Il qual udendo ciò fu quasi per iscoppiare di ridere, e poi gli mandò un altro sartore, il qual gli fece un abito alquanto più largo, e alla Marcolfa fece fare medesimamente una zimarra di buon panno fino, e poi così vestiti gli fece condurre dalla Regina, la quale mirando quei due mostacci contrafatti non poté fare che non desse nelle risa; la qual cosa vedendo la Marcolfa, dopo avergli fatto una riverenza così alla grossolana, e salutatola all'usanza di montagna, disse queste parole:
Favola esemplare narrata dalla Marcolfa alla Regina a proposito di chi è goffo e vuol abitare in corte.
Marcolfa. serenissima Regina, io udii una volta raccontare a una certa vecchia di là su nel nostro comune che già le cornacchie soleano parlare come facciamo noi, e diceva questa buona vecchia, la quale dovea avere cento e vent'anni, che a questi animali sempre è piacciuto di alloggiare sui campanili (come ancora in questi tempi) e dice ch'elle andarono una volta ad abitare sopra la Torre di Babilonia e che, stando elle colassù, notavano i fatti di tutte le genti, e vedevano che l'uno ingannava l'altro, vedevano gli artegiani la più parte bugiardi, i padroni sconoscenti, i servitori infedeli, le serve inobedienti, le madri poco modeste, le figliuole scapestrate, i padri dissoluti, i figliuoli viziosi, le vedove scandalose, i cortegiani ambiziosi, i parasiti adulatori, i buffoni sfacciati, gli osti lusinghieri, le meretrici falsissime, i ruffiani malvaggi e scelerati, e insomma vedevano tutto il mondo avviluppato, dove che notando i fatti d'ognuno, come ho detto, gli andavano appalesando a tutto il mondo, a tale che l'uno più non si fidava dell'altro, e tutti i negozi andavano a male e ogni cosa alla peggio; onde, essendosi scoperto che questi uccellacci erano cagione di tanta ruina, furono citati dinanzi al tribunale della regina delli uccelli e ivi accusati della loro loquacità, siccome, andando scoprendo i vizi di questo e di quello, il mondo non faceva più facende; onde la detta regina gli fece un precetto, sotto pena di essergli pelato il capo con acqua bollente, che mai più elle non dovessero parlare, e le privò in tutto della favella. Pure stanno ancor con speranza di riaverla un giorno per poter scoprire i vizi di questi tempi, i quali più che mai son in colmo, e di continuo van gridando crà, crà, cioè di dì in dì stanno aspettando che gli sia concessa la grazia di poter parlare. Ma, prima ch'elle il perdessero, disse la buona vecchia ch'ella gli udì raccontar questa ch'io ora ti dirò se mi fai grazia d'ascoltarmi, e tutto torna a profitto nostro.
Regina. Dite pur su, che queste vostre parole fin ad ora m'hanno dato grandissimo contento, né mai mi stancarei di stare a udirvi.
Favola de i schiratoli e i topi dai fichi secchi.
Marcolfa. Dissero dunque questi uccelli che, nel tempo che le lumache tessevano delle pellicce, si trovarono nella città delle sanguettole alcuni topi, i quali faceano mercanzia di fichi secchi e teneano fornite tutte le città lor vicine, onde si partirono alcuni mercanti dell'India Pastinaca con alquanti sacchi di noci moscate per venirle a barattare in tanti barili di fichi secchi; e un giorno, essendo alquanto stanchi pel lungo viaggio, si posero all'ombra d'una querce antica e frondosa molto, qual era in mezzo a un verdeggiante prato, e quivi s'addormentarono; e mentre essi dormivano giunse un gran stuolo di porci cinghiali e, accostatisi a quei sacchi, gli dierono dentro de' grugni e mangiarono tutte le dette noci, ma ne portarono tutti la mala pena, perché, essendo usi a mangiar delle ghiande, sùbito ch'essi ebbero quelle noci in corpo, se gli mosse un tal garbuglio nelle budelle, che non solo furono astretti a vomitare, ma ciò ch'essi tenevano nel corpo ancora, e si espedirono tutti in poco d'ora; onde di qui nacque il proverbio che le noci moscate non sono fatte per i porci cinghiali. Svegliati che furono i detti mercanti, e trovando i sacchi loro tutti stracciati e mangiata la lor mercanzia da' detti porci, restarono molto dolenti; pur non volsero restar di non gire innanzi, trovandosi alcune pelli di donnola da donar al re delle tinche fritte, al quale nel passar che fecero in detta città gliele appresentarono, ed esso in iscambio di quelle fece far loro un bellissimo presente, il quale parte fu tartuffi, parte sorbe secche, e così con dette robbe passarono nella città delle sanguettole, e fu proprio quell'anno che si segarono i prati, ed essendo giunti quivi barattarono quei tartuffi e quelle sorbe in tanti barili di fichi secchi, dandogli giunta alquanti funghi salati, i quali si trovavano avere in un bussolotto di terra creta cotta al sole. Così con i detti barili s'imbarcarono nel porto delle salamandre e dopo alquanti dì arrivarono nel porto de' scarafaggi e trovandosi travagliati dal mare si rissolsero di sbarcarsi in detta città e ivi riposarsi alquanti giorni, e, fatto portare i detti barili in doana, gli fecero sgabellare; ma i poveretti, fidandosi troppo de' gabellini, furono traditi da essi, poiché, avendo quei scarafaggi anasato i barili de' detti fichi, tosto s'imaginarono una frode, la qual fu questa, cioè di votargli que' barili di fichi ed empirli di tante di quelle pallottole di sterco di bue (con riverenza) ch'essi son usi di fare l'estate nelle careggiate delle strade. Pensatosi dunque quest'inganno, tosto lo posero in esecuzione e votarono tutti i barili, cavandone i fichi, e gli riempirono di quella mercanzia che già vi ho detto e, bollati i detti barili e fatto loro passaporto e segnata la bolletta e presa la fede della sanità, si partirono di là e in pochi dì gionsero nelle lor contrade, dove tutta la città corse a rallegrarsi seco dell'essere essi tornati sani e salvi alla patria; e perché ognuno avea gran desiderio di veder la mercanzia ch'essi aveano condotta, furono pregati a voler aprire i barili.
Non fu mai tanta furia quando si dà la fava il dì de' morti alle porte de' ricchi, né tanta calca di villani il sabato a comprar del sale, quanto era la furia e la calca di coloro che volevano comprare de' detti fichi, e quelli che non potevano avicinarsi gli gettavano i fazzoletti co' danari come si fa a quelli che cantano in banco, pregandogli con la beretta in mano ch'essi gliene dessero chi una libbra, chi due, chi più, chi manco; ed era tanta la moltitudine di quelli ch'essi aveano intorno, che andarono a pericolo più volte d'esser soffocati. Pur Alfine apersero i detti barili, dove in iscambio di trovarvi i fichi secchi dentro, vi trovarono tante pallottole di sterco di bue, onde restarono talmente confusi e scornati, che non sapevano che si dire; e quelli i quali gli aveano dato i lor danari se gli fecero rendere indietro, e se gli levò un schiamazzo dietro di batter de mani, e di zufolare, che i poverelli furono quasi per andarsi a impiccare per la mala vergogna, vedendosi esser stati burlati a quella foggia, e vedersi similmente far dietro il ciambello da quelli i quali aspettavano i fichi secchi, e vedere loro appresentarsi delle sudette pallottole; né furono mai più arditi di comparire sulla pubblica piazza, ma si ritirarono alla villa, dove che, pensando a simil caso, in pochi giorni morirono disperati.
Questa favola mi narrava la detta vecchia, la quale torna tanto a proposito nostro, che non si può dir di più, poiché il Re ha mandato a pigliarci di là su pensando che noi siamo dolci e domestici nel conversare e nelle creanze, e riusciremo tante di quelle pallottole impastate là per le strade dai scarafaggi, cioè da' costumi rozzi e villani, a tale che chi ci ha guidati qua giù avrà spesso delle rampogne da tutta la corte, avendo condotti, in iscambio di due barili di fichi dolci e saporiti, due barili d'una mercanzia stomacosa come siamo noi, che in poco tempo verremo a nausea a tutti, e già questo mio fantacciotto ha cominciato a dare segno delle sue balorderie, le quali ogni dì più anderanno crescendo; onde era meglio assai per il Re lassarci stare a casa nostra, che farci venire qua giù a essere babuini di corte. Ma chi così vuole così abbia; io ho mostrato fin ad ora che io sono pronta per sempre ad ubidire all'una e l'altra Maestà.
La Regina. si stupisce dell'eloquenza della Marcolfa e dice:
Regina. Madonna Marcolfa, io non posso credere all'eloquenza vostra e a' belli essempi che voi m'avete addotti che voi siate altramente nata sui monti, ma sì bene alla città fra i studi e le scienze, poiché io non so qual oratore si trovasse fra noi, il quale sapesse con tal facondia di parole e con più ornato modo esplicare il suo concetto improvisamente, come avete fatto voi. E se il marito vostro, mentre visse fra noi, fece già stupire questa corte con tante sue sottili astuzie e dotte sentenze che uscirono dalla sua bocca, e voi fin a quest'ora non solo fate stupire, ma trasecolare chi vi sente; onde, per mostrarvi un poco di segno di gratitudine, ecco ch'io vi dono questo ricco anello. Pigliàtelo e ponetevelo in dito, e portatelo per amor mio.
Marcolfa. Non deve la donna vedova portare altro anello in dito, che quello il quale gli fu posto dal suo marito, e però a me basta questa verghetta d'argento, qual è l'anello matrimoniale, cioè quello che mi fu messo in dito quando fui sposata.
Regina. Che posso io dunque darvi, che sia a proposito vostro?
Marcolfa. Non avete cosa per me, che più non bisogna per voi.
Regina. Di qual cosa ho io bisogno, che sono regina di tutta l'Italia, e di tesori e ricchezze non cedo ad altra donna che sia in terra?
Marcolfa. Oh, vi mancano pur tante cose, serenissima Signora.
Regina. Che cosa mi manca? Ditemelo, vi prego.
Marcolfa. Io non mi partirò di questa corte, ch'io vi farò confessare di propria bocca ch'avete bisogno di mille cose; e perché il bisogno viene dalla povertà, voi venite a essere molto più povera che non son io, e avrete più bisogno di me, ch'io non avrò di voi.
Regina. Quando mi farete vedere questo, sarete una gran donna. Orsù, conduceteli alle stanze loro, e tu, Bertoldino, vieni a visitarmi spesso.
Bertoldino. Che cosa vuol dire visitare?
Marcolfa. Vuol dire lassarsi vedere da lei spesso.
Bertoldino. Son io forse un setaccio, che sia chiaro e spesso?
Marcolfa. Non vi diss'io, serenissima Regina, che noi saressimo la mercanzia delle pallottole? Udite questo balordo, come ha bene inteso.
Regina. Questo non importa, anzi che le corti non sono belle se non vi sono di tutti gli umori. Orsù, andatevi pur a posare.
Ragionamento di Bertoldino e sua madre nelle lor stanze.
Così furono menati in una bellissima stanza, e dato loro tutto quello che gli facea bisogno, e stando ivi tutti dua, Bertoldino incominciò a dire a sua madre:
Bertoldino. Mia madre, io ho udito dire che la Regina vuol star sopra tutte le altre donne; però sarebbe ben fatto che quanto prima noi ce ne tornassimo a casa nostra, perché s'ella vi monta adosso una volta, ella vi farà saltare le budelle fuor del corpo, ch'ell'è grande e grossa più che non è la nostra vacca; però leviamoci di qua, innanzi ch'ella vi faccia creppare.
Marcolfa. Quel dire di stare sopra le altre donne non vuol dire ch'ella voglia montargli adosso, goffo che tu sei; ma come signora e padrona vuol essere maggiore di tutte l'altre ed essere onorata e riverita da quelle come il giusto vuole.
Bertoldino. Sì, sì, voi vederete bene, s'ella vi monta addosso una sol volta, s'ella vi farà ridere o piangere.
Marcolfa. Orsù, io t'intendo benissimo; tu sei un balordo, un maccarone, e non so come si possa stare che d'un uomo di tanto acuto e raro ingegno, com'era tuo padre, sia uscito un cedrone di questa fatta.
Bertoldino. Ditemi un poco, chi nacque prima: io, o mio padre?
Marcolfa. Odi quest'altra, s'ella sa di sale! O ignorantone che tu sei, vuoi tu essere nato prima di tuo padre? O meschina me, non fuss'io mai venuta qua giù con questo guffo!
Bertoldino. Al Re se gli dà del messere, o del maestro?
Marcolfa. Io credo che tutto quello che uscirà fuora dalla bocca tua sarà tutto buono, perché, in ogni modo quando tu volessi dir meglio, sempre dirai peggio; però, se vuoi essere tenuto per uomo che parli bene, non aprir mai la bocca.
Bertoldino. E se a sorte m'occorresse a sbadagliare, non volete voi ch'io apra la bocca?
Marcolfa. Orsù, apri quello che ti pare; in ogni modo io credo che fino a quest'ora la corte t'abbia scorto per un buffalaccio, e già gli hai cominciato a dar da ridere e gliene darai ogn'ora più.
Bertoldino. Le corti ridono dunque esse ancora? Ma dove hanno elle la bocca?
Marcolfa. Ohimè, taci, che pare che io senta venire gente. Oh, egli è il Re in persona, che viene diritto alle nostre stanze.
Bertoldino. Che vuole egli da noi, questo bel messere?
Marcolfa. Ohimè, serra la bocca e non dir niente.
Bertoldino. Io la serro, guardate mo' s'io l'ho ben serrata.
Marcolfa. Sì, sì. Orsù, tienela così stretta fin ch'io ti dico che tu l'apri.
Il Re. dona un podere fuora della città a Bertoldino e a sua madre.
Mentre essi ragionavano insieme, Bertoldino e sua madre, il Re, ch'avea avuto assai solazzo, tanto della pecoraggine di lui quanto dell'acutezza dell'ingegno di lei, li fece montare con esso suso una carroccia e, conduttogli fuor della città due tratti di mano, gli diede in dono un bellissimo podere, con un nobile palazzo e un ameno giardino con peschiera e fontane, boschetti, vigne e altre cose deliciose, dicendo alla Marcolfa:
Re. Perché, essendo voi usati alla vostra libertà, vi pare forse di essere imprigionati qua dentro la città, ecco io vi faccio libero dono di questo bel palazzo che vedete, con questo podere, giardino, peschiera, fontana e quanto si contiene sotto di lui; con patto però che tu, Bertoldino, ti lasci vedere ogni giorno una volta da me. Entrate dunque in questo palazzo, il qual è fornito di quanto occorre, e, se nulla vi mancherà, io vi farò fare provisione di tutto.
Marcolfa. Per mille volte io ringrazio la tua gran magnanimità, o benignissimo Re, e conosco certo che ciò non viene per merito alcuno che sia in noi, poiché io, come femina nata e allevata in paese ruvido e selvaggio, non mi trovo aver qualità alcuna in me la quale sia da praticare in questi luochi regi, ma sì bene fra montuose rupi e scoscese ruine, ove non albergano né creanze, né virtù alcuna. Parimente questo mio bamboccio, il quale non so s'egli sia di stucco over di sambuco, tanto è goffo e balordo, ch'io non so a quello ch'ei si possa servire se non far ridere il volgo, altro da lui non credo si possa aspettare; perché d'un'acqua così dolce è uscito un pesce così amaro, cioè che d'un padre tanto accorto e di sottile ingegno, come era Bertoldo, sia uscito un figliuolaccio tanto stupido com'è questo, il quale, quando si vuol levare la mattina, non sa se si metta giù del letto i piedi prima, o la testa.
Re. È vero questo, Bertoldino? Tu non rispondi. Olà, tu tieni sì stretta la bocca.
Marcolfa. Io gli ho fatto precetto che la tenghi così serrata.
Re. Per che causa volete ch'ei la tenga così?
Marcolfa. Perché esso mi ha addimandato se a vostra Maestà si dà del messere o del maestro, e io gli ho detto ch'egli dirà ben ogni cosa se mai non aprirà la bocca, perché sempre parla alla riversa.
Re. Io mi credevo ch'esso avesse fatto qualche gran fallo, ma questo non è errore alcuno, anzi a me piacciono altro tanto, e più, queste sorti d'umori semplici prodotti dalla natura, che quelli che fanno i semplici e i goffi artificiosamente, anzi pur maliziosamente, per così dire. Orsù, parla, Bertoldino, ch'io ti do licenza che dici. Apri la bocca.
Bertoldino. Mia madre vuole ch'io la tenghi serrata.
Marcolfa. Orsù parla pur su, ch'io ti do licenza; ma guarda dire delle tue. Che dirai qui al nostro Re? Di' su.
Bertoldino. Io vorrei quanto prima ch'ei si partisse di qua.
Marcolfa. Ah, ribaldo, queste son cose da dire a un nostro Signore, il qual ci haffatto tanti benefici? E perché vuoi tu ch'ei se ne vada?
Bertoldino. Perché mentre egli sta qui io non posso andar a merenda.
Marcolfa. Udite che bella creanza, Signore. Vi pare che questo sia per riuscire buon cortegiano? Oh zucconaccio da semente, in iscambio di render grazie a vostra Maestà del gran dono ch'ella ci haffatto, ei brama che gite via per andare a merenda.
Re. Egli ha molto ben ragione; io non l'ho mica per balordo in questo fatto. Orsù, io me ne vado. Restate in pace, e ricordati di venire ogni giorno una volta a vedermi: hai tu inteso?
Bertoldino. Signor messer maestro sì. Ma, ditemi, chi è più lungo: il giorno della città, o quello della villa?
Re. Tanto uno quanto l'altro; vieni pur via allegramente.
Marcolfa. Odi quest'altra: s'è più lungo il giorno della villa che quello della città. Oh cavallaccio che sei! Orsù non dubitate, Signore, che io lo mandarò ogni giorno da lei.
Re. Orsù mi raccomando, Bertoldino. A rivedersi, madonna Marcolfa.
Marcolfa. Gite in pace, serenissimo Signore, che il Cielo vi dia ciò che desiderate.
Simplicità di Bertoldino ridicolosa con le rane della peschiera.
Partito che fu il Re, la Marcolfa e Bertoldino restarono al podere donatogli da lui, il quale era fornito di tutto quello che a loro faceva bisogno, sì per il vivere quanto per ogn'altra commodità; e in mezzo al detto giardino vi era una bella peschiera piena di varie sorti di pesci, e vi erano ancora delle rane, le quali rane, un giorno che esso Bertoldino stava sopra la detta peschiera a mirare quei pesci, i quali givano per l'acqua guizzando, cantavano forte; e perché nel linguaggio loro pare ch'elle dicano quattro, quattro, Bertoldino credendo ch'elle dicessero che il Re non gli avesse dato altro che quattro scudi, avendone egli dato più di mille, saltato in colera subito corse a casa e, preso un coffanetto dove erano i detti scudi, lo portò sopra la peschiera e, pigliandone fin a cento in un pugno, gli gettò colà dove le dette rane facevano maggior strepito, dicendo a loro: "Togliete, bestie del diavolo; numerate se sono quattro, overo cento". Ma non per questo le rane s'acchettavano, anzi parea ch'elle raddoppiassero il gracchiar loro; onde esso, pigliatone altrettanti, glieli gettò a basso, dicendo: "Ah, canaglia, io vi farò ben vedere ch'egli ce n'ha dato più di millanta". E così fece più volte, tanto ch'egli gettò quei mille scudi nella peschiera, né potendole far racchettare, tutto pieno d'ira e di sdegno gli trasse dietro il coffanetto dove essi erano dentro e, dicendo loro un mare di villanie, se ne tornò a casa tutto imbestiato; onde la madre, vedendolo così in furia e riscaldato dalla colera e dalla smania, gli disse:
Marcolfa. Che cosa hai, Bertoldino, che tu sei così riscaldato?
Bertoldino. Io sono in colera con le rane della nostra peschiera.
Marcolfa. Per che causa? Che oltraggio t'hanno elle fatto?
Bertoldino. Lo sapranno ben esse.
Marcolfa. Ti hanno elle interrotto il sonno con il loro rappellare?
Bertoldino. Peggio mi hanno fatto.
Marcolfa. Pisciato sulle scarpe?
Bertoldino. Mille volte peggio.
Marcolfa. Che cosa ti possono elle aver fatto? Di' su.
Bertoldino. Il Re non ci ha egli donato quel coffanetto pien di scudi?
Marcolfa. Sì, ha. Perché?
Bertoldino. Perché quelle maladette bestie dicevano ch'esso non ce n'avea donato più di quattro; onde io gliene ho gettato un buon pugno, ed elle pur andavano dicendo quattro, quattro, e io gliene ho gettato un altro pugno, e poi un altro, e un altro, a tale ch'io glieli ho gettati tutti, ed elle ognora più forte gridavano quattro, quattro; onde, vedendole ostinate in quest'umore, tutto pieno di colera gli ho gettato a basso il coffanetto ancora, acciò che numerandoli si chiariscono quanti scudi ci ha donati il Re, e che poi gli tornino nel coffanetto, ch'io l'andarò poi a pigliare e lo portarò a casa con i detti scudi dentro. Or che ne dite, mia madre? Non ho io fatto da galantuomo a chiarir quelle bestie?
Marcolfa. Tu hai gettati tutti i scudi nella peschiera?
Bertoldino. Se dicevano che essi non erano più di quattro, non ho io fatto bene a fargli vedere che sono più di millantaquattro?
Marcolfa. O poverina me, o tapina Marcolfa! O sì, che questa è da contare! O pazzo, matto, bismatto e senza cervello che sei, ch'io non so che mi tenghi ch'io non t'affochi.
Che vuoi tu che dica il Re di questa tua pazzia, quando la saprà? Questa è la volta ch'egli ci espedirà per tante bestie e ci caccerà alle forche, e meritamente, solamente per le tue gran balordaggini, le quali sono tanto grandi, che un pazzo affatto non ne farebbe di più.
Bertoldino. Dica pur Sua Maestranza ciò che gli pare e piace, esso dovrebbe accostumare le sue rane, che non volessero saper quanti scudi egli dona via. Il peggio sarà che, s'elle vanno dietro gracchiando a quel modo, e ch'elle mi faccino montare in colera un'altra volta, io gettarò nella peschiera tutto il mobile di casa, e lo vedrete, che elle non mi stiano un poco a intonare il capo, ch'io gl'insegnarò di farmi dietro il chiasso, ch'io sono più bestia di loro.
Marcolfa. Questo si sa, né mai dicesti più vero d'adesso; anzi, più bestia di tutte l'altre bestie.
Bertoldino. Udite fin da star qui s'elle son ostinate e s'elle fanno più schiamazzo che mai. Non mi tenete, ch'io gli voglio andare a gettare questa cassa sulla testa.
Marcolfa. Férmati, férmati! O poverina me, lascia stare lì quella cassa.
Bertoldino. Fate dunque voi ch'elle stiano chete.
Marcolfa. Io lo farò, mafférmati, ch'io le farò pigliar a questi pescatori da rane con il boccone, sì ch'elle non ti daranno più fastidio. Aspettami qui, ch'io voglio andare alla città a veder se a sorte io gli posso trovare, e farle venire a prender tutte, poiché la tua balordaggine vuol così. Non ti partir di qui attorno alla casa, che non ci sia levato qualche cosa.
Bertoldino fa in bocconi tutto il pane che si trova in casa e lo getta nella peschiera.
Partita che fu la Marcolfa, Bertoldino fece un'altra balorderia, anzi due, le quali furono queste, ch'avendo egli udito dire a sua madre che le rane si pigliano col boccone, udendole cantare ad alta voce, non potendole più comportare, andò tutto instizzato alla cassa del pane e, pigliatolo tutto, lo fece in bocconi e ne empì un sacco; poi andò sopra la peschiera e gettòvegli tutti dentro, dove che al percotere dell'acqua tutte le rane scamparono in fondo della peschiera, e i pesci, a tanta copia di pane, corsero tutti e, quivi urtandosi l'uno contro l'altro, pareva che facessero fra di loro una crudel battaglia, e in poco d'ora gli dierono spedizione; onde Bertoldino, vedendo questo, montò in tanta colera, che si dispose di volere accecare tutto quel pesce perché avea mangiato tutti i bocconi del pane ch'egli avea gettati nell'acqua, sì che le rane non avevano potuto averne pur un minimo boccone, ma tutte s'erano tuffate nel fondo della peschiera, come ho detto, per il gran movimento dell'acqua che facevano fare quei pesci mentre si toglievano il pane di bocca l'uno all'altro, e andato in casa prese un sacco di farina per gettarla negli occhi al detto pesce e accecarlo e, tornato sopra la peschiera, secondo ch'esso vedeva il detto pesce venire al sommo dell'acqua, ed egli con una pala gli gettava adosso di quella farina, pensando pure, il povero sempliciotto, di cavargli gli occhi; ma quello, guizzando sotto l'acqua, poco curandosi di simil fatto, così gettò tutto quel sacco di farina nella peschiera e pensando di aver cavato gli occhi a quel pesce, ritornò a casa tutto contento, credendosi di aver fatte le sue vendette.
Bertoldino entra nel cesto dell'oca a covare in cambio di lei.
Fatto Bertoldino questa bella galanteria torna a casa e vede l'oca che sta in un cesto grande a covare l'ova, e la fece levar su, ed esso entrò nel detto cesto in atto di covare, e alla prima ruppe tutte le ove con il podice, ed erano oramai per nascere i pavarini. E così stando nel detto cesto, giunse la Marcolfa, la quale non avea altrimenti cercato pescatori da rane, sapendo ella che non era possibile a pigliarle tutte, ma era stata dalla Regina a darle alquanto di trattenimento, e ancora per passare un poco d'affanno ch'ella avea delle gran balorderie di costui; e giunta a casa (come vi dico) batté all'uscio chiamando Bertoldino, che gli aprisse, dicendo:
Marcolfa. Bertoldino, o Bertoldino, vieni, aprimi l'uscio.
Bertoldino. Io non posso venire.
Marcolfa. Perché non puoi venire? Dove sei tu?
Bertoldino. Io sono nel cesto dell'oca.
Marcolfa. E che fai tu in quel cesto, ribaldo?
Bertoldino. Io covo i pavarini.
Marcolfa. Tu covi i pavarini? O meschina me, tu averai rotte tutte le ove. Vieni aprir quest'uscio, in tua mal'ora.
Bertoldino. Io non posso venire, dico, perché cominciano a nascere, ch'io ne sento uno che mi dà del becco nelle natiche.
Marcolfa. O povera sventurata me, che debbo io fare con costui? Non fosse io mai venuta qua giù con questa bestia. Bertoldino, oh Bertoldino!
Bertoldino. Zitto, zitto, mia madre, che l'oca mi guarda.
Marcolfa. E vieni aprirmi quest'uscio in tua buon'ora.
Bertoldino. Orsù aspettate, ch'io vengo.
Così Bertoldino esce fuora del cesto e apre l'uscio a sua madre, la quale, vedendolo così impegolato di dietro di quei tuorli d'ova ch'esso avea rotti nel cesto con le natiche, tutta disperata incominciò a dire:
Marcolfa. O traditore, o assassino!
Bertoldino. Che cosa avete voi?
Marcolfa. Che cosa io ho? Ah, manigoldo che sei, mira qua la bell'opera che tu hai fatto, sporco, bestia! Orsù, io voglio insomma andare a pigliarmi licenza dal Re di tornar sulle montagne, perché noi non siamo degni di tanto bene. O, quanto bene avevaffatto tuo padre a non appalesare al Re, né a niuno, ch'egli avesse figliuoli, perché aveva previsto che tu non saresti stato buono da niente. Guarda qui, bestiaccia, quello che tu hai fatto, che tu mi hai rotto tutte le ova e hai soffocato tutti i pavarini, i quali cominciavano già a nascere, e ti sei sporcato tutte le calcie di dietro. E che dirai tu al Re quando ei ti chiederà che cosa è stato quello che t'ha sporcato così di dietro?
Bertoldino. Dirò ch'io ho fatto una frittata alle mie natiche.
Marcolfa. O gentil risposta da giovane discreto! Orsù, càvati quelle calcie, ch'io te le voglio lavare, e mettiti queste e vieni, che mangiamo un boccone, ché bisogna che tutti due andiamo alla città.
Bertoldino. E che volete voi mangiare, se non v'è pane in casa?
Marcolfa. Come, che non v'è pane in casa? Non ve n'era un mezzo sacco?
Bertoldino. Sì, che v'era.
Marcolfa. Ma dov'è andato?
Bertoldino. Non dicesti voi che le rane si pigliavano con i bocconi?
Marcolfa. Sì, ti disse. E bene, che vuoi tu dire?
Bertoldino. Io ho sminuzzato tutto il pane quale era in casa in bocconi, e l'ho gettato nella peschiera, perch'io volevo pigliar tutte quelle rane con quei bocconi; ma quei maladetti pesci sono corsi e se l'hanno tranguggiato tutto, a tale ch'elle non hanno potuto averne pur un picciolo bocconcino. Ma lasciate, ch'io gli ho fatto una burla, ch'io voglio che voi ridiate un pezzo. Cominciate pur a ridere, mo' ridete, cancaro!
Marcolfa. Ch'io rida? Ah, traditore, quest'è un bel principio da farmi ridere, sì, da farmi piangere. E che burla è questa che tu gli hai fatto? Di' su, manigoldo, ch'io m'aspetto un'altra pazzia maggior di questa.
Bertoldino. Sapete il sacco dalla farina?
Marcolfa. Sì, ch'io lo so. Sta' pur a udire.
Bertoldino. Io ero tanto instizzato contra quel pesce, perché egli aveva mangiato il pane a quelle rane, che io ho preso quel sacco di farina e gliela ho gettata tutta negli occhi.
Marcolfa. E perché hai tu fatto questo?
Bertoldino. Perché io glieli voleva cavare, e credo di averne accecati pur assai, perché io gliene gettavo sulla testa le palate piene, e credo che non vedano più lume.
Marcolfa. O balordo, o pazzo, o mentecato che sei! Perché non ti soffocai io nelle fasce subito che fusti nato? O Bertoldo, che diresti se tu fussi vivo, tu che eri un fonte di sentenze, e udire le gran balorderie di questo pecorone? Orsù prepàrati, che io voglio che noi andiamo fino alla città, che il Re e la Regina ti vuol vedere.
Bertoldino. Perché non vengono essi qua, se mi vogliono vedere?
Marcolfa. Signor sì, toccherà a loro a venire da voi, che siete un gran personaggio, affé. Orsù serra lì quella bocca, e non l'aprire più fino che non siamo tornati a casa, che tu non facci come l'altra volta, che pur volesti aprirla ancorché io t'avessi commesso espressamente che tu la tenessi serrata.
Bertoldino. E se il Re mi domandarà qualche cosa, chi volete che gli risponda per me, il mio taffanario?
Marcolfa. Parlerò ben io, taci pur tu, bestia, e lascia la cura a me di questo.
Bertoldino. Orsù, io la serro. L'ho io ben serrata?
Marcolfa. Orsù tienla così, né l'aprir fin ch'io non te lo dico, se non vuoi ch'io ti ricami il vestito con un bastone, tornàti che siamo a casa.
Così la Marcolfa e Bertoldino un'altra volta andorno alla città e, giunti che essi furono dal Re, esso gli fece molte carezze, e interrogando Bertoldino come stava, esso tenendo la bocca stretta non rispondeva nulla, onde il Re voltatosi alla Marcolfa disse:
Re. Per che causa non mi risponde costui? Ha perduto forse la favella, o gli è venuto qualche strano accidente, ch'ei non possa parlare?
Marcolfa. Meglio per lui, ch'ei non avesse mai parlato, perch'egli dice tutto alla riversa, e peggio è che ne fa ancora, e adesso nuovamente n'haffatto una molto brutta, mentre io sono stata fuora di casa.
Re. Che cosa ha egli fatto di brutto? Ha forse pisciato nel letto?
Marcolfa. Peggio, Signore.
Re. Vi ha egli caccato?
Marcolfa. Peggio mille volte.
Re. Che domine può aver fatto costui? Io non so che si possino far cose più brutte o sporche di queste.
Marcolfa. Quando ve lo dirò, Signore, so che v'alterarete, e con giusta ragione, e meglio sarebbe stato che voi ci avesti lasciati stare là su nelle nostre briccole, che farci condurre qua giù a farci scorgere per due pecore balorde, come in vero noi siamo.
Re. E che cosa d'importanza haffatto costui ditelo ormai, che io gli perdono, e sia che grave errore esser si voglia.
Così la Marcolfa narra al Re tutto quello che haffatto Bertoldino, cioè di gettare i scudi nella peschiera alle rane, e il pane, e la farina per accecare il pesce, e in ultimo il covazzo dell'oca, e insomma tutte le balorderie ch'egli avea fatte; onde il Re, in iscambio di farli qualche gran riprensione, come meritava, incominciò a ridere di maniera tale che fu forza a gettarsi sul letto, e dopo alquanto di spazio levatosi su, pur tuttavia ridendo disse:
Re. Sono queste dunque le gran cose che voi mi volevate dire? Io mi pensava ch'egli avesse fatto qualche gran misfatto; ma questo è nulla, anzi egli haffatto molto bene a insegnare di procedere a quelle bestie. Orsù, questo non importa, non vi mancheranno danari, né pane, né farina, e quello che vi occorrerà: state pur allegri.
Marcolfa. Poiché così vi piace, Signore, io non dico più nulla, poiché già ho fatte le mie proteste che costui non ha tutto quel senno che se gli dovrebbe; anzi, perché io so che mai esso non dice cosa a proposito, gli ho fatto commandamento ch'egli non apra la bocca ancora questa volta sin che non siamo tornati a casa, perché temo sempre ch'esso non dica qualche gran stravaganteria.
Re. E io di nuovo gli do licenza ch'egli apra la bocca, e che parli. Conducetelo dunque dalla Regina, che ella abbia un poco di spasso; e tu Bertoldino, come sei fra quelle dame, di' alla libera tutto quello che ti pare, e senza rispetto alcuno. Andate.
Bertoldino viene alle mani con una donzella della Regina., chiamata Libera.
Così andarono la Marcolfa e Bertoldino dalla Regina, la quale gli fece molte carezze, e perché il Re aveva detto a Bertoldino che egli dicesse quello che gli pareva alla libera, essendo nella detta stanza una donzella della Regina nominata Libera, e udendola esso chiamare per nome, credendo che il Re gli avesse detto che egli dicesse a colei quello che gli parea, la incominciò villanescamente a motteggiare, dicendo:
Bertoldino. Addio, Libera, che pagaresti a essere bastonata?
Libera. Perché bastonata? Le bastonate si danno agli asini pari tuoi, e villani come sei tu.
Bertoldino. Io sarei un asino s'io fussi tuo marito, che proprio tu hai ciera d'un'asinaccia vecchia.
Libera. Se io mi cavo una pianella, te la butterò sul capo, bestia, villano, porco che sei. Mira chi si vuole domesticare con una par mia! Va', guarda le capre, montanaraccio che sei.
Bertoldino. Io non veggio la più bella capra che te, io, che tu fai proprio le calcole, come fa una capra.
Libera. Aspetta, che io ti voglio battere questo zoccolo su quel grugno di porco.
Bertoldino. Se tu mi romperai il grugno di porco, e io ti ammaccarò quel naso di civetta con questa scarpa.
Regina. Orsù, fermatevi un poco, e dimmi tu, Bertoldino, chi ti ha detto che tu dica quelle parolacce a questa mia donzella.
Bertoldino. Il Re me l'ha detto, e domandatelo qui a mia madre.
Regina. È vero questo, madonna Marcolfa?
Marcolfa. serenissima Regina, io ho già fatto tutti i miei protesti, come parimente ho detto al Re che costui non darà gusto niuno, essendo alquanto scemo di cervello; anzi, perché oggi ei non dicesse qualche balorderia innanzi a lui e a voi, io gli avevo fatto commandamento ch'esso tenesse la bocca serrata fin che noi fussimo tornati a casa; ma il Re vostro consorte non solo gli ha dato licenza di parlare, ma, di più, che egli possa dire alla libera ciò che gli pare. E perché costui intende per l'orecchie, come fanno le pentole per il manico, avendo udito nominare questa vostra donzella che si chiama Libera, ha pensato, il balordo, che il Re gli abbia detto ch'ei dica a questa Libera qui tutto quello che gli pare e piace, e però egli ha usato questa bellissima creanza che avete visto.
La Regina ride di questo caso e il Re. dona di nuovo cinquecento scudi a Bertoldino..
Quando la Regina ebbe udita simil baia, si pose a ridere di tal maniera, che bisognò slacciarla da tutte due le bande, e in quell'istante giunse il Re, e chiedendo la causa di ciò gli fu narrato il tutto; onde di nuovo si raddoppiarono le risa, e il Re poi fece donare (mira che fortuna d'un villano indiscreto, che meritava cinquanta bastonate più tosto che altro) a costui cinquecento scudi d'oro, e così gli licenziò che tornassero alla lor abitazione; ma, innanzi che si partissero, la Regina disse a Bertoldino che per l'avvenire non si domesticasse più con le sue dame, ma che si attaccasse alla modestia, ché quella è la vera creanza di quelli che pratticano nelle corti; ed esso, fatto un bello inchino all'usanza di montagna, promise di ciò fare, e così si partiro e tornaro al lor podere.
Bertoldino, per le parole della Regina, s'attacca ai panni della moglie dell'ortolano chiamata Modesta, e se la tira dietro per tutta la villa.
Giunti ch'essi furono alla lor magione, Bertoldino, il qual avea promesso alla Regina di attaccarsi alla modestia, intendendo ogni cosa alla roversa, secondo il suo goffo intelletto, si incontrò nella moglie dell'ortolano, che si chiamava Modesta, e pensando ch'ella avesse detto a quella Modesta, subito senza altro dire se gli attaccò ai panni, e cominciò a tirarsela dietro, come tira il lupo la pecora, e con tanta la nobil destrezza, che quasi gli roversò i panni in capo, e se non fusse stato ch'ella si andava aiutando al più ch'ella poteva, ella avrebbe mostrato il più bello di Roma; e vedendosi così strascinare a questo pazzo (che così mi pare di dirgli ora) incominciò a gridare talmente, ch'ella fu udita dal suo marito, il quale subito corse a quel rumore con un grosso palo in mano e, vedendo costui tirare sua moglie a quella foggia, fu per tirargli di quel legno sulla testa, ma restò di farlo per il rispetto grande che bisognava portargli per comandamento del Re, e gliela levò dalle mani con fatica grande, dicendo:
Ortolano. Chi t'ha insegnato, bestia, d'usare questi atti villani alle moglie d'altri?
Bertoldino. La Regina.
Ortolano. Perché la Regina? Che cosa haffatto mia moglie alla Regina, da farla strascinare a questa foggia?
Bertoldino. Vaglielo domanda a lei, che saprai il tutto, e ispedissiti quanto prima se non vuoi che io torni a fare qualche cosa di mia testa, perché io sono un mal bestione, se tu non lo sai.
Ortolano. Purtroppo lo so. Orsù, io mi voglio andar a chiarire or ora.
Bertoldino. Or va', e torna presto, che io possa finire d'imparare la creanza, che m'ha detto ch'io studi, la Regina.
L'ortolano va alla città per chiarirsi dalla Regina della causa di simil fatto.
Così l'ortolano, tutto pieno di colera, senza indugiare punto corse alla città e, andato dalla Regina, gli narrò questo negozio, domandando a lei s'era vero ch'essa avesse commesso a Bertoldino che si tirasse sua moglie dietro per la villa, e che gli rovesciasse i panni in capo e gli facesse simil insolenza. La Regina si stupì di tal fatto e rispose ch'ella non gli avea commesso tal cosa, anzi, che essa l'aveva ammonito, se egli voleva apprendere la creanza della corte, ch'ei si attaccasse alla modestia e tirasse dietro a quella strada, che si sarebbe ben creato e imparerebbe il procedere civile; "e non gli ho detto altramente, che egli s'attacchi ai panni di tua moglie, né d'altra donna della villa".
Ortolano. Ohimè, Signora, mia moglie ha nome Modesta.
Regina. Tua moglie ha nome Modesta?
Ortolano. Signora sì.
Regina. Orsù, io t'ho inteso. Costui haffatto giusto con tua moglie quello che haffatto qui con la Libera mia cameriera, che il Re mio consorte gli aveva detto ch'egli dicesse quello che gli pareva via alla libera; e, avendo il goffo pensato che dicesse a questa Libera, avendola sentita chiamare così per nome, vi è stato un gran che fare a poterglielo levare d'intorno.
Ortolano. Orsù, questa è stata un'altra babionata a questa foggia, che il nome di mia moglie ha causato questo disordine; però, con sua buona grazia, io me ne tornerò a casa, che questo bestionaccio non ne facesse di peggio.
Regina. Orsù vattene, e di' alla Marcolfa che quanto prima venghi da me, che io ho grandissimo bisogno di lei.
Ortolano. Tanto farò, serenissima Signora.
Così l'ortolano tornò a casa e narrò il tutto alla moglie, quale se ne era fuggita a casa e serratasi in una stanza, perché ancora aveva sospetto di colui; e con bel modo poi lo placorno, sì che esso non gli fece più nessun oltraggio. Poi l'ortolano disse alla Marcolfa che andasse quanto prima dalla Regina, la quale avea grandissimo bisogno di lei; ed ella senza dimora tornò alla città e, giunta innanzi alla Regina, gli fece la debita riverenza, ed essa, amorevolmente e con benigna faccia accogliendola, la fece sedere appresso di lei, e poi gli disse:
Regina. Io avevo grandissimo bisogno di voi, madonna Marcolfa; io dico tanto bisogno, ch'io non so se mai ebbi bisogno di nessuna altra persona al mondo quant'io avevo ed ho di voi ora.
Marcolfa. Il bisogno viene da necessità, e la necessità dalla povertà, e la povertà da non avere quella cosa della quale s'ha carestia. Però, avendo voi bisogno ora di me, venite a essere povera più di me in questo fatto, che non ho bisogno di voi, né di nulla del vostro; ed ecco che io vi ho provato che ognuno, per grande e quanto potente si voglia, ha bisogno di qualche cosa.
Regina. Voi dite la verità, e con chiara ragione mi avete provato questo, onde io non dirò più ch'io sia felice e ch'io non abbia bisogno di nulla, perché, come voi avete detto, avendo io ora bisogno di voi, vengo a esser più povera di voi, non avendo voi bisogno di me. Orsù, lasciamo andare un poco questo da parte per ora. Il bisogno ch'io ho di voi adesso ve lo dirò, e bisogna che voi mi aiutate in una cosa.
Marcolfa. Pur ch'io sia buona, mia Signora, son qui pronta per servirla.
Regina. Se non fusti buona non vi averei fatta venir qua giù con tanta instanza. Voi dovete dunque sapere come questa notte passata l'abbiamo spesa tutta in canti, in suoni e balli, e nell'ultimo poi è stato proposto da questi cavalieri e dame di fare un gioco da mettere suso de' pegni, e così ciascuno aveva messo suso un pegno, dove che per riscuotergli si comandava varie cose, facendo chi recitare delle ottave, chi de' madrigali, chi come poner lettere amorose, chi una cosa, chi un'altra, secondo il voler di chi avea il pegno in mano, onde a me, ch'avevo posto suso un ricco diamante per pegno mi fu dato un quesito da esplicare, se io lo voleva riscuotere; il quale quesito fu questo, notatelo bene: "Non ho acqua e bevo acqua, e s'io avessi acqua berrei del vino". E io mai non lo potei indovinare, e mi sono lambiccato il cervello dietro, e quanto più ci vado pensando, tanto più mi avviluppo; e quel cavaliero che tiene il detto diamante non me lo vuol dare per fin ch'io non gli spiano il detto quesito. Ora il bisogno ch'io tengo di voi è questo, ch'io so che siete di sottile e acuto intelletto, che voi mi dicesti quello che vuol dire questo quesito, perché mi pare molto intricato da dichiararlo, dicendo che vi è uno che non si trova aver acqua, e pur beve dell'acqua, e che s'egli avesse dell'acqua ch'esso berrebbe del vino. Indovinala tu grillo. Sì che bisogna qui che strologate un poco per me, acciò io possa chiarire il detto enimma e riscuotere il mio pegno.
Marcolfa. Altro bisogno non v'è che questo per conto mio? O, questa è una cosa che la sanno tutti i nostri pecorari là su.
Regina. È possibil questo? Io la tengo per una cosa molto intricata.
Marcolfa. Orsù, io ve la voglio dizziferare or ora.
Regina. Ciò mi sarà di grandissimo contento, e vi restarò obligata.
Marcolfa., Il quesito dunque, che voi dite, è un monaio, il qual sta in un molino di quelli che non hanno mai acqua se non quando piove; onde, non avendo acqua da poter macinare, non può guadagnar tanto che si compri del vino, onde esso e la sua famiglia conviene bere dell'acqua, che s'egli avesse dell'acqua in abbondanza, da poter macinare, si potrebbe comprar del vino e non sarebbe necessitato a bere dell'acqua: e questa è la vera e reale interpretazione dell'enimma a voi proposto. Avetelo voi bene inteso?
Regina. Benissimo l'ho inteso, e veramente conosco che la sua interpretazione sta così giustamente; ma io mai non avrei saputo indovinarlo, e vi ringrazio infinitamente e con questo io voglio riscuotere il mio pegno. Ma, di grazia, andate dietro così ragionando di qualche cosa, che le vostre parole mi levaranno un poco l'umore.
Marcolfa. Mala cosa è quando il fiume esce fuora del suo letto, ma peggio assai quando viene l'umore all'uomo o alla donna potente.
Regina. Perché?
Marcolfa. Perché il fiume spaventa i campi a lui vicini solamente, ma l'uomo potente, quando si trova un fantastico umore nel capo, spaventa tutto il suo stato e i suoi sudditi insieme.
Regina. Sì, quando l'umore procedesse da qualche strano pensiero di ricevuto oltraggio, e aspirare alla vendetta o a qualche suo gran dissegno, e non lo poter essequire; ma l'umor mio non procede da nessuna di queste cose, anzi non vi saprei dire io stessa da che si vegna, basta ch'io sento che io ho l'umore.
Marcolfa. Chi ha umore non ha sapore.
Regina. Io non v'intendo.
Marcolfa. Dirò in modo che m'intenderete. L'acqua perché si chiama umida?
Regina. Perché ella è umore che bagna e rende umido e molle per tutto ov'ella passa.
Marcolfa. Voi dite benissimo, e quando la bevete di che sapore vi sa ella?
Regina. Di niente, anzi è insipida e di poco gusto.
Marcolfa. Eccovi, dunque, che chi è umorista non ha amore né sapore, e dà poco gusto a chi lo prattica, anzi viene a nausea a tutti. Ben è vero che vi sono degli umori di più sorte, perché ve ne sono degli allegri, de' malenconici, de' pazzi, de' bestiali, de' piacevoli, de' fastidiosi, degli umori falsi e deglì umori leggieri e semplici, anzi balordi affatto, come ora si trova essere questo mio bambocciaccio di figliuolo, il quale, per esser sempliciotto e goffo, tiene fra tutti gli altri il primo loco.
Regina. Non viene ch'egli sia pazzo, ma viene ch'egli è alquanto ottuso di cervello. Ma come può essere che di Bertoldo e voi, che siete stati l'istessa accortezza, sia uscito un figliuolo di così poco giudicio?
Marcolfa. Io vi dirò, Signora. Voi sapete che, quando noi donne siamo gravide, ci viene volontà di cose stravaganti, e ve ne sono state di quelle che gli è venuto voglia fin di sterco di bue, di milze, di teste di lepre, di magoni, e insomma chi d'una cosa, chi d'un'altra, secondo ch'elle avranno veduto o imaginato. Onde a me, mentre ero gravida di costui, venne voglia d'un cervello d'oca, e mi toccai il capo, e per questo costui è nasciuto con un cervello d'oca, la qual è un animale il più balordo che si trovi; e che sia la verità, l'oca è tanto priva d'intelletto, che mai la sera non sa trovar la stanza ov'ella suol dormire, e si dura più fatica a guidar un'oca la sera al pollaio, che non si fa tutto l'altro bestiame. E questa è la causa che costui è così simpliciaccio e balordo.
Regina. Orsù, madonna Marcolfa, bisogna aver pazienza. Ve ne sono degli altri che sono peggio di lui. Per questo, egli non fa cose che non si possino tolerare, ma tutte sono cose burlevoli e da spasso. Or voi menatela un poco a merenda.
Marcolfa. Io non voglio far nulla, ma me ne voglio tornare a casa, perché io mi stimo di trovare qualche cosa di nuovo, secondo il solito. Il Cielo da male vi guardi.
Regina. Andate in pace, e tomate spesso da me, che sempre vi vedrò volontieri.
Bertoldino viene portato in aria dalle grue e tratto nella peschiera.
Mentre la Marcolfa stava a ragionare con la Regina, Bertoldino, il quale era restato a casa, stando egli nel cortile vidde volare sopra la detta casa più volte un gran stormo di grue, e subito s'imaginò di volerle prendere; e perché elle tal volta calavano a terra lì d'intorno, venendo a bere a un albuolo fatto a uso di dare da bere ai porci, si pensò di volerle imbriacare, e subito andò in cantina dov'era un barillo di luiatico della buona fatta, il quale gli aveva mandato a donare il Re, e pigliato il detto barillo in spalla lo portò di sopra e roversò tutto quel luiatico nel detto albuolo, poi si ritirò in un canto della casa per vedere quello che facevano quelle grue. Le quali non così tosto sentirono l'odore di quel buonissimo liquore, che calarono attorno al detto albuolo e incominciarono a cacciarvi dentro il becco, e gustando quella delicata bevanda ne bevettero tanta la gran quantità, che Alfine s'embriacarono tutte, né potendo elle sostenersi in piedi per il gran fumo che gli andò al capo, caderono chi qua chi là, a tale che parea che fossero morte. La qual cosa vedendo Bertoldino, corse con grande allegrezza e le prese tutte, e ponendosele con le teste sotto la centura si mosse per venire a incontrare la madre con le dette grue così attaccate attorno attorno, che pareva una cosa stravagante da vedere. Or mentre con allegrezza così caminava, ecco le grue, le quali avevano già digerito il vino, si vennero a risentire e, trovandosi con il capo stretto a quella foggia, che a pena poteano respirare, subito per uscire di quel laccio cominciarono a dibattere l'ali di maniera tale che, levandosi in alto, portarono seco in aria il povero Bertoldino e lo levarono tanto in su, che la Marcolfa, la qual tornava dalla città, lo vidde, né sapendo la causa di tal cosa, tutta tremando e piena d'affanno incominciò a gridar dicendo:
Marcolfa. O poverina me, che cosa veggio io? O Bertoldino, che cosa vuol dir questo? Ohimè, dove vai?
Bertoldino. Io vado a cena con le grue; state cheta, che ben io tornerò presto a casa.
Marcolfa. Tu tornerai presto, eh? Oh misera me! Bertoldino, o Bertoldino!
Bertoldino. Io non son più Bertoldino, ch'io sono una grue.
Marcolfa. O povera Marcolfa, le grue mi portano via costui. Ohimè, Dio sa che non lo portino in qualche parte che io non lo veda mai più. Or che debb'io più fare in questo mondo? Deh, morte, levami di tanti guai, ti prego.
Le grue portano Bertoldino sopra la peschiera, e vi casca dentro.
In tanto che la Marcolfa si lamenta di simil cosa, le grue, che avevano portato Bertoldino un pezzo discosto, rivoltarono il volo verso la casa dove elle aveano bevuto e, passando a caso sopra la peschiera, volse la mala disgrazia che la centura dov'elle avevano fitto il capo si ruppe; dove che il meschino, a guisa del misero Icaro, col capo in giù e i piedi in alto, venne a basso e diede tanto la gran percossa nella peschiera, che, per il peso del gran tuono che fece nell'acqua, tutto il pesce che vi era dentro saltò sulla riva; e perché la fortuna ha cura de' pazzi, ecco, dopo essersi tuffato due o tre volte sotto l'acqua, Alfine uscì fuora senza male alcuno, e intanto giunse la Marcolfa e, vedendolo tutto molle, gli addimandò come era stata questa cosa dicendo:
Marcolfa. Dimmi un poco, poveraccio, come ti hanno portato queste grue così in aria.
Bertoldino. Io le ho embriacate con quel barillo di luiatico che n'ha mandato a donare il Re.
Marcolfa. O poveretta me, e come hai tu fatto, traditore?
Bertoldino. Io l'ho messo tutto nell'albuolo de' porci, e quelle grue sono calate all'odore di quello e l'hanno bevuto tutto, e così ebrie sono cascate come morte in terra, e io me le son poste con la testa sotto la centura per portarle a casa, e quando io sono stato vicino alla porta elle si sono risentite e hanno incominciato a battere l'ali, di maniera ch'elle m'hanno portato un pezzo in su e, se la centura non si rompeva, io volevo ch'elle mi portassero a casa della luna e, come io ero stato là su, io volevo ch'elle mi portassero in Calecut, che dicono che vi è un paese dove tutte le donne sono femine.
Marcolfa. No, le saranno maschie. O povero pane, a chi ti lasci tu mangiare? Orsù andiamo a casa, ch'io ti leva quei panni molli che hai attorno, e ch'io te ne metta degli asciutti. Insomma, un pazzo non piglia fastidio alcuno al mondo, se ben cascassero le stelle. Mira costui, il qual è stato in un pericolo sì grande, e si prende ogni cosa per gioco. Ma che debbo far io con questo pazzo umore, il quale ogni dì più va facendo delle balorderie? Orsù, va' là in casa.
Bertoldino. Io non voglio venire ancora, perché io mi asciugarò al sole. Andate pur voi a portarmi un cesto, ch'io voglio andar a cogliere un cesto di quel pesce, qual è saltato fuora della peschiera quando vi sono caduto dentro, ch'io voglio farne un presente al Re, ch'io so ch'egli l'averà molto caro, e tanto più quando egli intenderà la maniera ch'io ho tenuta in prenderlo. Oh, quanto ha egli da ridere di questo nuovo modo di pescare.
Marcolfa. Sì certo, ch'ell'è da ridere, o goffo che sei. Non t'accorgi tu che non hai punto di cervello, e che tu sei balordo affatto?
Bertoldino. N'avesti così voi e tutte l'altre persone del mondo, che le cose passariano molto meglio ch'elle non fanno. Ma ditemi, di grazia, quando voi mi faceste vi ero io presente?
Marcolfa. E non mi stare più a rompere il capo con queste goffarie, e va' là in casa una volta, ti dico.
Bertoldino. Io dico ch'io voglio andare a cogliere quel pesce, e che m'andate a portare una cesta, altramente io me lo porrò nelle braghesse e lo portarò al Re. M'avete voi inteso?
Marcolfa. Ohimè, costui farà pur troppo quanto egli dice, perché in esso non è dritto né roverso. Orsù aspettami, ch'io vado a prendere la cesta e i panni, e sarò quivi adesso adesso.
Bertoldino fa una gran battaglia con le mosche.
Intanto che la Marcolfa va a pigliare la cesta e i panni, come ho detto, Bertoldino si spoglia nudo e mette i panni a sciugare al sole; e perché era sul mezzogiorno, nel più estremo caldo che sia il mese di luglio, le mosche incominciarono a dargli beccate di libra, ora su una spalla ora sull'altra, ora su un braccio ora sul collo, ora da un lato ora dall'altro, dandogli un aspro e crudele assalto attorno; per la qual cosa egli, montato in colera da dovero, tolse alquanti rami di salice e, fattone due manelle a guisa d'uno scoppatore, incominciò a sfidare quelle mosche alla battaglia; e, secondo ch'esso menava da un lato, elle volavano dall'altro, e così ei s'andava scopando da sua posta, né potendosi insomma difendere da tanta noia, incominciò a chiamare sua madre, che lo venisse ad aiutare, dicendo alle dette mosche: "Aspettate, aspettate, che adesso mia madre vi chiarirà. Correte, correte, mia madre, che le mosche mi vogliono mangiare!" A questa voce la Marcolfa saltò fuora di casa, temendo di qualche gran cosa che gli fosse intravenuta, e vede questo poveraccio con quelle manelle di stroppe in mano che si flagellava, e, toltogliele dalle mani, subito gli pose indosso una camiscia asciutta e lo fece entrare in letto. E perché la caduta della peschiera e lo star così nudo nell'occhio del sole parea che alquanto l'avesse travagliato, e che gli facesse doler la vita, la Marcolfa s'inviò verso la città per gire a pigliar conseglio da un medico di quanto se gli dovea fare in simile occasione. E giunta innanzi alla Regina riverentemente la salutò, ed ella rendendogli cortesemente il saluto la incominciò a interrogare di quello ch'ella era andata a fare da quell'ora (ch'era un caldo eccessivo) alla città, dicendo:
Regina. Che buona ventura vi guida da quest'ora, che è così gran caldo, a venire alla città?
Marcolfa. Buona ventura non è, ma sì bene mala ventura mi ci ha guidata.
Regina. Ohimè, che cosa v'è incontrato? È morto forse Bertoldino, che voi parete così angustiata?
Marcolfa. Buona ventura sarebbe per me, la mia Signora, s'egli fosse morto.
Regina. Perché? Che cosa v'ha egli fatto, che vi dia tanto travaglio?
La Marcolfa narra alla Regina tutto quello il qual è successo a Bertoldino; la quale, dopo aver riso un pezzo, così dice:
Regina. Veramente, madonna Marcolfa, io vi do gran ragione e mi dispiace dei vostri affanni. Ma dove l'avete lasciato quando vi partisti di casa?
Marcolfa. Io lo lasciai in letto alquanto pesto e, per quanto posso comprendere, con un poco di febre, perché, volendosi difendere dalle mosche, si è dato una frustata della mal fatta.
Regina. Bisognarebbe dunque mandarglì il medico, il quale gli ordinasse quanto bisogna, perché, essendo egli nello stato che dite, bisognarebbe che gli fossero poste le ventose o cavato sangue, o fatto altro rimedio secondo il male. Su, che si vadi a chiamare il medico di corte, il quale or ora monti sulla mula e vadi a vedere quel tanto che si conviene di fare per la salute di Bertoldino. Andate innanzi voi, madonna Marcolfa, che fra poco d'ora il medico sarà da voi, e tutto quello che occorrerà vi si manderà; né vi state a mettere affanno di questo, ch'elle sono tutte burle, e quando il Re lo saprà n'averà grandissimo piacere.
Marcolfa. Io so che i pazzi danno piacere e spasso a tutti, eccetto a quelli di casa. Orsù, io vado; ma dubito ch'egli non voglia che il medico gli vadi intorno, perché egli è un cervello così balordo, che pensarà ch'esso gli voglia fare qualche dispiacere. Nondimeno egli non manchi di venire, perché, quando egli avrà visto quanto occorre, ordinarà a me quel tanto che si deve fare, e io poi con destrezza vederò di eseguire quel tanto che mi si ordinarà. Restate alla buon'ora.
Regina. Andate in pace.
Il medico va a vedere Bertoldino e vi è assai da fare fra di loro.
Partita la Marcolfa dalla città e arrivata a casa, entrò nella stanza ov'era Bertoldino e trovò ch'egli dormiva, e aprendo i balconi andò al letto di lui e lo chiamò più volte; ma esso era tanto soffocato nel sonno, che non rispondeva, né poteva aprire gli occhi. Intanto arrivò il medico e, apressatosi al letto, lo scoperse un poco per vedere come stava, e trovandolo assai pesto per la caduta, e ancora per essersi dato quelle stroppacciate, disse alla Marcolfa:
Medico. Guardate, madonna, se lo potete far svegliare, acciò che io lo possi ben vedere per tutto, che poi vi ordinarò quel tanto che voi avrete a fare.
Marcolfa. Bertoldino, o Bertoldino, non odi? Svégliati!
Bertoldino. Io non mi posso svegliare.
Marcolfa. Perché non puoi?
Bertoldino. Non vedete s'io dormo?
Marcolfa. E svégliati in tua buon'ora; se no, ch'io ti tirerò giù del letto.
Bertoldino. E andate un poco a filare, e non mi date impaccio. O questa sarà bella: se io dormo quant'io posso, volete che io mi desti?
Medico. Ah, ah, ah! O questa è ben da ridere. Ei parla e dice che dorme. O questo sì, che è un cervel bislacco.
Bertoldino. Chi è questo barbone ch'è qui con voi? È egli un castratore? Affé, me non castrarete, messere. Andate pure a fare i fatti vostri e ringraziate il Cielo ch'io dormo, ché s'io non dormessi mi levarei su e vi darei tante bastonate che io vi fiaccherei; ma buon per voi che io non son svegliato.
Medico. Questo sarebbe a punto quello ch'io vado cercando. Fratello, orsù, attendi pur dunque a dormire come tu fai, che buon per me che tu non sei svegliato. Orsù, madonna, io ho visto tutto quello che occorre, così di grosso; e però io vi mandarò cinque pillole, che gli scarichino la testa, e perché non gli potresti fare un serviziale gli porrete una cura e gli darete un poco di cassia in bocconi per tre mattine, e tutte le dette cose saranno qui fra mez'ora; né dubitate, che non avrà male. Restate in pace, a Dio.
Marcolfa. Andate, che il Cielo v'accompagni, e vi ringrazio per infinite volte e direi di darvi da bere, ma le grue ci hanno bevuto il vino.
Medico. Non ho bisogno di nulla. Restate sana e lasciatelo dormire come fa.
Così il medico si partì, ridendo della gran semplicità di costui, che ragionava tuttavia e diceva che dormiva; e, giunto alla Regina, gli narrò questa babionata: la quale rise tanto, che vi mancò poco che non se gli aprisse il petto, e così fece il Re. Poi ordinarono che gli fusse mandate le dette robbe e così fu fatto, e tosto che la Marcolfa ebbe in mano le dette medicine andò al letto da Bertoldino, dicendo:
Marcolfa. Dormi tu più, barbagianni?
Bertoldino. E s'io non dormessi, che vorresti voi da me?
Marcolfa. Io ti voglio dare una medicina che ha ordinato il medico che io ti dia, che subito guarirai.
Bertoldino. Io dormo, io dormo. Pigliatela voi per me.
Marcolfa. Orsù lèvati a sedere, ché bisogna che tu pigli un poco di cassia, e poi t'ungerò le spalle con un poco di unto di dialtea, e non averai mal nessuno.
Bertoldino. Ch'io mangi una cassa? O che la mangi lui, s'egli ha fame.
Marcolfa. Dico della cassia in bocconi, o pure la vorrai pigliare così in canna, che nell'uno o nell'altro modo ti farà giovamento.
Bertoldino. Come vuol egli ch'io tranguggi delle casse e delle canne, quell'animalaccio? Perché non ha ordinato che mi fate una decina di castagnacci? Oh, egli deve esser il bello ignorante.
Marcolfa. Io ti farò poi i castagnacci, quando tu avrai tolti questi rimedi; e, se non vuoi questa cassia, piglia queste quattro pillole; poi ti metterò questa cura, ché queste ti scaricaranno di sopra e quest'altra di sotto, e non avrai più male.
Bertoldino. Orsù, io mi contento di far quello che voi volete, ma fatemi poi i castagnacci.
Marcolfa. Non ti dubitar di questo, lascia pur fare a me. Orsù, ecco qua le pillole, e questa è la cura. Tranguggia queste pallottine prima, e poi io ti metterò la cura.
Bertoldino. Datemi ogni cosa in mano a me.
Marcolfa. Piglia, e sfòrzati di mandarle giù. Su, fa' buon animo.
Bertoldino si caccia la cura in gola e le pillole per dissotto, e la Marcolfa dice:
Marcolfa. Ohimè, che fai tu, bestia? Férmati, che elle non vanno tolte a quella foggia. O meschina me! Quello che va di sotto, tu lo metti al contrario.
Bertoldino. E lasciate fare a chi sa. Credete voi ch'io sia pazzo? Siete voi, che non avete ben inteso il medico. Volete ch'io mi cacci di dietro questa cosa qual è tutta coperta di mèle? O, io sarei il bel balordo. Ella va tolta per bocca, e queste pallotte giù a basso; ho ben cervello ancor io.
Così la Marcolfa ben puote gridare a sua posta, che il sempliciotto tranguggiò quella cura e si pose le pillole nel taffanario; ma quasi se ne pentì, perché quella cura così melata gli s'impastò nella gola, né voleva andar né su né giù, onde fu quasi per affogarsi, e voltava gli occhi come uno spiritato; onde la Marcolfa, vedendolo a tal partito, subito mandò a chiamare il medico, il quale, venuto per commandamento della Regina, gli diede non so che a bere, che gli fece saltar fuora della gola quella cosa con tanta furia, che il povero medico non potendosi schivare a tempo, ella gli venne a dare in un occhio un colpo tale che fu per cavarglielo, e gli impiastrò tutta la barba con altra robba che gli venne dietro; a tale che il meschino durò fatica a nettarsi, con tutto ciò che si lavasse assai volte, e se ne tornò a casa tutto colerico, maledicendo i pazzi e ancora chi gli aveva inviato quella bestia.
La Marcolfa domanda a Bertoldino come sta, ed esso dice voler de' castagnacci.
Marcolfa. E bene, come ti senti, Bertoldino?
Bertoldino. Benissimo, e starò molto meglio quando voi m'averete fatto i castagnacci ch'io vi domandai.
Marcolfa. Sì, affé, che te gli sei guadagnati con le tue belle virtù. Tu hai pure quasi accecato quel povero medico con quella cura, che tu t'eri cacciata nella gola.
Bertoldino. Suo danno. Io non l'avea chiamato qua.
Marcolfa. So che non ve l'hai chiamato, perché ti era chiusa la strada al parlare.
Bertoldino. Anzi, mentre che io avevo quel boccone nella gola non vi era pericolo ch'io moressi di fame, come faccio ora; però, se mi volete vivo, fatemi venticinque castagnacci, ché io sento che sono tanto debole, ch'io (non) posso a pena star in piedi.
Marcolfa. Adesso adesso vado a servirti, poiché così vuole la mia buona fortuna.
Bertoldino. Andate ben via presto, e ispeditevi.
La Marcolfa fa venticinque castagnacci a Bertoldino ed esso gli mangia tutti;
poi va a corcarsi sotto un olmo e vi dorme tutto un giorno, e il Re lo manda a
torre in carroccia e, come l'ha innanzi, gli dice:
Re. Come stai, Bertoldino?
Bertoldino. Io sto qui ritto.
Re. Io lo veggio, ma voglio dire: come ti senti?
Bertoldino. Io sento sonar le campane.
Re. Dico se ti senti male, o bene.
Bertoldino. Se io sento sonar le campane, non sento io bene?
Re. Dove stai, Bernardo? Io vado alla fiera. O che gentil umore è questo! Pare a te ch'egli risponda a coppe? Orsù, conducetelo un poco dalla Regina.
Bertoldino. Conducetela qui lei da me.
Re. No, no; va' pur con costoro, e non temere di nulla.
Così lo condussero dalla Regina, la quale, tosto ch'ella lo vidde, ridendo disse:
Regina. O, ecco qua messer Bertoldino nostro. Che si fa, messer Bertoldino?
Bertoldino. Le vacche che sono pregne fanno elle, e non io, signora madonna maestra Regina.
Regina. Voglio dire se ti senti più aggravato dal male, ch'io intendo che sei stato infermo un poco.
Bertoldino. Io non mi sono mai partito da casa se non ora: guardate voi se io sono stato a Fermo, né manco so dove si sia, e che cosa è questo Fermo? un pagliaro, o pur una colombara?
Regina. Sì, sì, è una colombara. Orsù, dimmi ch'è di tua madre.
Bertoldino. Quand'io la lasciai ella dava da bere ai figliuoli della nostra chioccia, che n'haffatto fin a trenta.
Regina. La tua chioccia ha dunque fatto figliuoli?
Bertoldino. Del certo, che ne fa. E perché non ne fate ancor voi? Non avete forse buon gallo?
Regina. Son io una gallina, balordo, ch'abbia bisogno di gallo?
Bertoldino. Ma mia madre dice che se le nostre galline non avessero buon gallo, ch'elle non fariano mai figliuoli, e le galline non sono esse ancor femine come voi? Però, se volete dei figliuoli, cercate avere buon gallo, e noi vi prestaremo il nostro se lo vorrete, e io ve lo portarò.
Regina. Non mi occorre gallo, no, io ti ringrazio. Orsù, menatelo un poco a merenda.
Bertoldino. Fatemi pur un poco prima menare a fare i miei bisogni, che questo m'importa più.
Regina. Tu hai molto ben ragione. Dove sei, Filandro?
Filandro. Son qui, serenissima Signora.
Regina. Conduci costui dove ti dirà, e andate via quanto prima.
Filandro. Dove vuoi ch'io ti meni?
Bertoldino. A fare i miei servizi.
Filandro. Costui si vuol vuotare innanzi ch'ei vada a empirsi. Orsù, vieni via. O che nuovo pesce è questo? Io non so che gusto si abbiano i prìncipi di questi buffoni e di queste zucche mal salate, che più li apprezzano che non fanno ogni gran letterato, e ogni giorno gli donano vestimenti d'oro e di seta e danari in quantità grande, e all'incontro poi hanno mille virtuosi e uomini sapienti nella corte invecchiati ne' suoi servigi, né hanno mai avuto da essi un minimo guiderdone delle fatiche loro, e i miseri si vanno pascendo di fumo e d'ombra e di speranza vana, fra i quali vengo a essere io uno di quelli, il quale ho servito in questa corte tanti e tanti anni, con tanta fedeltà, con tanto amore a questi signori, né mai ho scorto in essi un minimo segno di recognizione, anzi, per più mio scorno, son ridotto ora a menare un villano a cacare.
Or mira se questa è una degna mercede, e se io sono nel fine di mia vita ridotto a fare un nobile officio. O povero Filandro! Orsù vien via, che possi tu caccare le budelle, porco che sei.
Bertoldino. Dove mi vuoi tu menare?
Filandro. Io ti voglio menare al cantaro.
Bertoldino. Io non voglio cantare adesso. Non t'ho io detto quello ch'io voglio fare? Menami in un campo, e poi lascia fare a me.
Filandro. Orsù vieni, che io ti condurrò dove tu vuoi, poiché mia buona ventura vuol così; ma per questa volta mi ci trappolerai.
Così Filandro lo condusse in capo al giardino, ov'era un fosso, e ivi fece quanto gli occorse; poi lo menò nella salvarobba delle cose mangiative e gli diede del pane, del buon salamo e del buon vino da bere; e finito di merenda tornò dalla Regina, la quale vedendolo disse:
Regina. Hai tu merendato bene?
Bertoldino. Signora madonna sì.
Regina. Che t'hanno essi dato di buono?
Bertoldino in cinque volte non sa dir salamo.
Bertoldino. Del lassamo, e del pane.
Regina. Di che?
Bertoldino. Del samallo.
Regina. Io non t'intendo.
Bertoldino. Del malasso.
Regina. Peggio che peggio.
Bertoldino. Dico ch'io ho mangiato del lamasso, io parlo pur ancora schietto, e torno a dire che io ho mangiato del massallo: voi m'avete pur inteso a questa volta.
Regina. Che nomi sono questi di lassamo, samallo, malasso, lamasso e massallo? Io non capisco quello che si voglia dir costui, né credo che l'intendesse il bene intendi.
Filandro. Esso vuol dire del salamo, serenissima Signora. Miri vostra Maestà se questo è un zuccon da friggere della buona fatta, a non poter dire in cinque volte salamo. Se la Regina rise di simil fatto, lo lascio pensare; e intanto giunse il Re e, inteso la causa di ciò, si diede a rider di tal sorte, che alle risa di lui rideva tutta la corte, e durò tal ridere tutto quel giorno, e talmente gli entrò in bocca quelle parole di lassamo, di samallo, di malasso, di lamasso e massallo, che quando volevano del salamo essi ancora, pareva che non sapessero più dire se non lassamo e samallo e malasso, lamasso e massallo, e durò parecchi giorni simil cosa. Fece poi il Re condurre Bertoldino a casa in carroccia; dove arrivato, la Marcolfa disse:
Marcolfa. Che cosa hai veduto nella città, Bertoldino, che più ti piaccia?
Bertoldino. La pentola della cucina del Re.
Marcolfa. Perché la pentola della cucina del Re?
Bertoldino. Perché ella deve tenere più di cento minestre, tanto ha ella larga la pancia.
Marcolfa. Sempre tu pensi al mangiare.
Bertoldino. Chi non pensa al mangiare non pensa a vivere, e io so, se non mangiassi, che io morirei.
Marcolfa. Orsù, tu dici la verità; ma, dimmi un poco, che hai imparato di bello in corte?
Bertoldino. Io ho imparato di andare su e giù per le scale del palazzo del Re da mia posta.
Marcolfa. Sei stato un grand'uomo certo, e mostri avere un gran cervello.
Bertoldino. Ditemi, mia madre, le anitre sono elle oche?
Marcolfa. Sì, sì. Orsù, va' pur, dormi un sonno, che a punto tu dài alle oche con questa tua pecoraggine.
Bertoldino. Io vi volevo domandare una cosa ancora, e me l'era quasi scordata.
Marcolfa. Che cosa è questa, che mi vuoi dimandare? Di' su.
Bertoldino. Quando voi mi facesti, ci eravate voi?
Marcolfa. Ohimè, non mi rompere più il capo, ch'io son tanto fastidita del fatto tuo, che io non posso sentirti.
Bertoldino. O state a sentire se questa è bella. Mentre che io stava in camera della Regina, io mi son accorto ch'ella non ha più che due gambe, e la nostra vacca ne ha quattro. Or che ne dite voi?
Marcolfa. Che vuoi tu ch'io dica? Io dico che quando ti feci avrei fatto meglio a fare una buona torta.
Bertoldino. Fuss'egli pure stato vero, che n'avresti dato un pezzo a me ancora.
Così con questi ragionamenti venne la sera, e se n'andarono a letto; poi la mattina si levarono, e la Marcolfa disse voler andare alla città a comperar del sale e altre cose necessarie per la casa, e sopra il tutto raccomandò i pulcini a Bertoldino, che ne avesse cura accioché il nibbio non gli furasse. Partita la Marcolfa, Bertoldino prese tutti i detti polli e gli legò per un piede ciascheduno di loro, e fattone una lunga filza ne pose un bianco in capo di tutti, poi gli mise in mezzo l'ara, ed esso ritiratosi sotto il portico stava poi a veder quello che ne doveva succedere. Ed ecco il nibbio, che comincia a girare attorno alla casa e a fare il varco, calando a poco a poco sopra i detti pulcini, e vedendo quel bianco, che faceva più bella vista delli altri, si calò adosso a quello e, dandogli di becco, lo levò in aria con tutti gli altri che vi erano attaccati; e Bertoldino ridendo forte gridava: "Tira il bianco, tira il bianco, che tu averai quelli altri ancora!" Così il nibbio si portò via tutti i pulcini, e, tornata che fu la Marcolfa dalla città, Bertoldino gli andò incontro ridendo, ed ella disse:
Marcolfa. Che cosa hai, che tu ridi? Vi è qualche cosa di nuovo?
Bertoldino. O mia madre, io ho pur avuto il bel piacere, e quando voi saperete il perché, riderete ancor voi.
Marcolfa. Orsù, questa sarà stata una delle tue. E che piacere è stato questo tuo?
Bertoldino. O il bel piacere, o il bel piacere! Mia madre, di grazia, cominciate a ridere.
Marcolfa. Di che vuoi ch'io rida, di', buffalo, se io non so quello che tu dica?
Bertoldino. Sapete i nostri polli?
Marcolfa. Sì, ch'io lo so.
Bertoldino. Io ho fatto una burla al nibbio.
Marcolfa. Oh, il Cielo mi aiuti! E che burla è stata questa?
Bertoldino. Io li ho legati l'uno con l'altro in una lunga filza, ed è venuto il nibbio, e gli ha portati via tutti in una botta, che ha durato una fatica la maggior del mondo, e io tenevo gridato: "Tira il bianco, tira il bianco, che tu averai tutti gli altri ancora!" perché io avevo messo quel bianco in capo della filza, e se voi gli avesti veduti saresti creppata dalle risa, a vedere quell'uccellaccio, che a pena poteva portar via tanta brigata in una volta. Or che ne dite voi? Non ci ho fatto io stare quell'uccellaccio?
Marcolfa. Uccellaccio sei tu, bestia, balordo. Dunque tu hai lasciato portar via i polli al nibbio? Io non so che mi tenghi ch'io non ti pigli pel collo e ch'io non t'affochi. O re Alboino, tu mostri bene di essere balordo affatto, a compiacerti d'un pazzo com'è questo. Or qui chiaramente si vede che non giova aver virtù, né creanza, ma sorte sola. Mira, di grazia, quanta stima fa questo pazzo di re (che pur dirò così) di questo cavallaccio da pistrino. Insomma, ognuno ha qualche ramo di pazzia, e io son più che sicura che quando il Re saprà questa castronaggine, che in iscambio di fargli qualche riprensione, e anco di farlo bastonare, ch'esso ne averà grandissimo piacere e gli manderà a donare qualche bel presente. O vatti mo' consuma sui libri, povero filosofo, che ne trarrai una bella mercede, poiché si vede che in questa corte più vien stimato e premiato un sciocco e balordo montanaro, che cento uomini dotti e sapienti. Orsù, il mondo va così adesso. Ma dimmi dov'è la chioccia?
Bertoldino. Ella è serrata nel pollaio, perché non impedisca il nibbio che possa portar via i pulcini, com'haffatto. Credete voi ch'io sia balordo?
Marcolfa. Orsù (pur pazienza) va' là in casa, che in vero tu sei un astuto giovine; ma se questa cosa va all'orecchie del Re, che pensi tu che egli dirà, balordo mentecato che tu sei?
Bertoldino. E chi volete voi che glielo dica?
Marcolfa. Forse che non sono qui intorno delle orecchie che ci odono?
Bertoldino. Io non veggio altro che l'asino dell'ortolano, io; il quale appunto pare che ci stia ascoltare. Vedete come egli tiene l'orecchie tese? Ma gli provederò ben io adesso adesso.
Bertoldino taglia l'orecchie all'asino dell'ortolano.
Marcolfa. Fèrmati, o là, che cosa vuoi tu fare?
Bertoldino. Io voglio tagliar l'orecchie a questo asinaccio che ci sta ascoltare.
Marcolfa. O meschina me! Egli ha tagliato l'orecchie all'asino dell'ortolano. Or che dirà egli? Oh, questa è ben la volta che il Re ci manda a far i fatti nostri; e avrà ragione, o ribaldo, o traditore!
Bertoldino. Ribaldo e traditore è quest'asino, che vuol udire i fatti nostri. Ma tu non gli udirai già più, che tu non hai l'orecchie.
Marcolfa. Or ecco l'ortolano che viene in qua. Tu l'udirai bene dire il fatto suo, e avrà gran ragione, e converrà che tu gli paghi il suo asino, che gliel'hai abbertonato.
Ortolano. Chi ha tagliato l'orecchie al mio asino?
Bertoldino. Son stato io.
Ortolano. Per che causa?
Bertoldino. Perché egli stava a udire tutti i fatti nostri.
Ortolano. Orsù, qui non v'è bisogno di buffoni. Io voglio che tu mi paghi il mio asino, e adesso adesso vado a darti una querela innanzi al Re.
Marcolfa. Udite, ortolano, non state a dare altramente querela, che io vi sodisfarò. State cheto, e lasciate far a me.
Ortolano. No, no. Io voglio che il Re sappia ogni cosa, perché costui l'altro giorno ancora si misse attorno a mia moglie, e vi fu da fare a levargliela dalle mani; e non vorrei che un giorno gli saltasse l'umore e che me ne facesse una che mi pelasse più che alcuna di queste. Alla città, alla città!
L'ortolano va a dare la querela a Bertoldino innanzi al Re, e il Re manda per lui, ed esso comparisce con le orecchie dell'asino in seno, e il Re dice:
Re. Vien qui, Bertoldino.
Bertoldino. Son qui, maestrissimo Signore.
Re. Fàtti innanzi tu ancora, ortolano.
Ortolano. Eccomi, serenissimo Re.
Re. Che contesa è la vostra?
Ortolano. Costui mi ha abbertonato il mio asino, e io dimando giustizia.
Re. È vero questo, Bertoldino?
Bertoldino. È vero; ma l'asino, messere...
Re. L'asino pur sei tu. Orsù, va' dietro.
Bertoldino. Ei stava con l'orecchie tese ad ascoltare quello che io dicevo con mia madre; e io, perché esso non stia più a udire i fatti altrui, gli ho tagliato tutte dua l'orecchie. Ma, perch'ei non si pensasse ch'io volessi mangiarmi l'orecchie del suo asino, eccole qua, ch'io le ho portate meco. Pigliale, e fagliele attaccar di nuovo, che mia madre pagherà il magnano che le appunterà.
A queste parole il Re si pose a ridere di maniera che a pena poteva respirare, e, ritornato in sé, disse:
Re. Orsù, ortolano, tu vedi che Bertoldino è galant'uomo, e, se ti ha abbertonato il tuo asino, non però vuole nulla del tuo: ecco che esso ti rende l'orecchie di quello. E però la sentenza mia è questa: che mi pare che, per condegno castigo di tal delitto, esso debbia montare sul tuo asino, e che tu lo conduca a casa sopra di quello. Ti piace questa sentenza?
Ortolano. Questo è un castigo che viene sopra l'asino e io, e non a lui. Signore, io domando che mi sia pagato il mio asino, e poi cavalchilo chi vuole.
Re. Orsù, quanto vuoi tu ch'egli ti dia del tuo somaro?
Ortolano. Ei mi costò otto ducati l'anno passato, e faccio conto di non volere perdervi nulla.
Re. Orsù tu hai ragione. Vien qua, Erminio; dove sei?
Erminio. Eccomi, serenissimo Signore.
Re. Da' un poco otto ducati qui all'ortolano; e tu, Bertoldino, piglia quell'asino, che io te lo dono, montavi suso, e andate a casa insieme, e siate buoni vicini.
Ortolano. Tanto faremo, Signore. Orsù, monta su, Bertoldino, e andiamo. Arri, tà sta'! Che diavolo fai tu! Tu sei caduto dall'altra banda.
Bertoldino. E' mi pesa più la testa che non fa il taffanario, e per questo sono traboccato dall'altro lato. Ma tienlo saldo. Tà sta', trù trù, Arri là! O lassami mo' la cavezza a me. Arri, va' là! Addio, messere.
L'asino tra' giù Bertoldino e gli ammacca una costola, e la Marcolfa va alla città e,
con una bella comparazione fatta al Re e alla Regina, ottiene grazia di
tornare alla sua abitazione di dove era venuta.
Giunta la Marcolfa alla città, andò dov'era il Re e la Regina in una stanza, i quali ancora ridevano delle solenni simplicità di Bertoldino, e, fatto lor la debita riverenza, disse a lei il Re:
Re. Che buone nuove ci apportate voi, madonna Marcolfa?
Marcolfa. Non ho nuova, Signore, che buona sia.
Re. Perché? Che v'è incontrato?
Marcolfa. Bertoldino è caduto giù dell'asino e s'è tutto amaccato da un lato, e io son venuta a pigliare un poco d'unguento da ungerlo e ancora per narrarvi una novella, la quale torna a proposito mio, pur che da voi mi sia dato udienza.
Re. Dite pur su, madonna Marcolfa, che molto ci sarà grato d'udirla, sì come ci sono grate tutte l'altre cose vostre.
Marcolfa. Nel tempo che i formiconi di sorbo andavano a cacciare le cimici gravide, trovavasi nella città delle penne di struzzo una mosca vedova, alla quale era stato ucciso il marito, pochi giorni erano, da un lombriccio, con un partegianone di quelli che portarono già in Italia i parpaglioni dall'ali dorate, quali passarono all'impresa della mostarda cremonese, quell'anno che si viddero tanti cremonesi in Cremona. Onde avvenne che, passando dritto la casa della detta uno di quei ragnacci dalle zampe lunghe, egli la vidde affacciata al balcone, e perché era sabato ella s'avea lavato il capo quel giorno, di modo che lei pareva molto più bella del solito, onde costui, dato una balestrata d'occhi alla finestra ov'ella stava, subito restò preso d'amore per le bellezze di quella gentil signora, né così tosto fu tocco dalle saette di messer Cupido, ch'esso incominciò a passeggiare innanzi e indietro, e levandosi sulle punte dei piedi caminava molto gentilmente; onde la vezzosetta vedovella, accortasi di ciò, tirandosi alquanto dentro dalla finestra, come fanno le vedove modeste, ora affacciandosi un poco, facendo anch'essa alquanto dell'occhietto e tal ora un poco di ghignetto per burlarlo, fece sì che il poveraccio restò cotto del tutto, né potendosi astenere dal gran calore che sentiva nel petto gli venne volontà di rampegarsi su per la muraglia, e andare dentro per la finestra, pensandosi ch'ella fusse di quelle ch'io voglio dire. E così incominciò a grapparsi con le ungie e a caminar in su verso il detto balcone, avendo fatto disegno, dopo il piacere ch'egli sperava di avere con lei, tornare poi giù attaccato al suo filo. Così andando su allegramente, ella, che vidde questa sfacciataggine, parendogli un amante un poco troppo presontuoso, tosto corse a pigliare una caldaia di lesciva, ch'ella aveva al fuoco, la quale voleva oprare a fare una bollita a un par di brache d'un pidocchio opilato il quale ella teneva in casa a camera locanda; né così tosto costui trasse le zatte al balcone per saltar dentro, che ella gli roversò quella lesciva adosso per pelarlo. Ma egli, ch'era destrissimo, accorgendosi presto di quell'atto, avendo in capo un guscio di lupino per zucchetto, tosto che sentì pioversi adosso quella lesciva, abbandonato la muraglia si lasciò cadere giù all'indietro, e, benché gli cogliesse un poco sulla testa, non però l'offese molto, per il zucchetto che ho detto, il quale lo difese da quella.
Ma il peggio fu che, cadendo giù, il zucchetto andò a spasso, ed egli venne a percuotere con il capo suso un osso di persico, e tutto il cervello ch'egli avea gli corse nel podice, e da quell'ora fin al tempo d'adesso i ragni hanno portato sempre il lor cervello di dietro, e sempre cercano far vendetta con le mosche per tale oltraggio, tendendogli le reti per tutto, come gli uccellatori, e tosto che ne hanno preso una te gli spiccano la testa, e poi la lasciano andare. Così credo intravenisse a questo mio fantoccio di stucco, il quale una volta, seguendo una capra dietro un'alta rupe, nel salire su per quell'erta cadde addietro e venendo giù percosse con il capo sopra un tronco d'un sambuco, e così tutto il cervello gli corse nelle natiche, e gli restò leggiera la testa come il sambuco, e sempre uccella a mosche, a grilli, a farfalle e parpaglioni, e non restò, come si suol dire, né rana né barbastrello, né mai è per aver più senno di quello ch'ei s'abbia avuto fin ad ora; e però vostre Maestà farebbono un'opera lodatissima a lasciarci tornare alle nostre briccole, perché, se ben ho inteso le sentenze di Bertoldo mio marito, buona memoria, ei disse che chi è uso alla zappa non pigli la lancia, e chi è uso alle cipolle non vada ai pastizzi; e tutto questo cade a proposito nostro, ch'essendo nati, in luochi ermi e selvaggi, non siamo genti da praticare nelle città.
Re. Molto bene avete detto, madonna Marcolfa; ma chi ha bevuto il mare può ancora bevere il Po. Però, se fin ad ora abbiamo compatito le simplicità di Bertoldino, anzi ne abbiamo avuto sommo piacere, tanto faremo per l'avvenire, e forse che con la lunga conversazione di questa corte egli potrebbe pigliar più ingegno che non ha; per questo la cura non è in tutto disperata.
Marcolfa. Chi nasce pazzo non guarisce mai.
Re. Chi mal balla, ben solazza.
Marcolfa. Chi ha un vizio per natura, fin alla fossa dura.
Re. Chi non ha cervello abbi gambe.
Marcolfa. Al mal mortale né medico né medicina non vale.
Re. Meglio è aver un passerino in seno, che dieci nella siepe.
Marcolfa. Meglio è essere uccello di campagna, che di gabbia.
Re. Ogni dritto ha il suo roverso.
Marcolfa. Ogni testa ha il suo capello, ma non il suo cervello.
Re. Ogni cosa si sa comportare, eccetto il buon tempo.
Marcolfa. Ognuno dà pane, ma non come mama.
Re. Che volete voi inferire per questo?
Marcolfa. Io voglio inferire che non si fece mai bucato, che non piovesse.
Re. Un'ora di buon sole asciuga mille bugate.
Marcolfa. Chi ben non torce i panni, non si asciugano in tre giorni.
Re. Parlate un poco più chiaro, ch'io non intendo bene queste vostre ziffere.
Marcolfa. Non è il peggior sordo di quello che non vuol intendere.
Re. Orsù, ecco ch'io v'ascolto: ingegnatevi, con un'altra bella comparazione a proposito vostro, di persuadermi a lasciarvi andare, ch'io do la parola, da quello ch'io sono, di non farvi resistenza alcuna, benché di ciò io ne senta doglia al cuore, ma di lasciarvi gire a voglia vostra, e ancora farvi tai presenti, che sarete gentiluomini là su.
La Marcolfa narra un'altra bella favola.
Marcolfa. Orsù, le vostre Maestà ascoltino dunque. Quando le lucciole faceano mercanzia di lanterne, fu un lumacotto di quelli da quattro corna, il quale prese per moglie una di quelle lumachine vergate di giallo e di rosso molto galante, che vengono fuora delle siepi quando cadono quelle belle ruggiadine il mese d'aprile. E quella sera che esso la menò a casa, si fece un sontuosissimo banchetto, al quale invitò tutti gli suoi parenti e amici, e vi furono un gran numero di virtuosi, fra i quali v'erano quattro gambari di canale che sonavano eccellentissimamente di viole da gamba e un calabrone, che sonava di arpicordo gentilissimamente; e così, finito che fu la cena, una parpaglia cantò nel chitarrone alcune belle aere, ma per essere un poco affreddata non poté dar quella sodisfazione ch'era suo desiderio; onde si fecero levare le tavole e sgombrare la sala, accioché si potesse ballare commodamente, e poi si diede in un tratto negli stromenti e s'incominciò a fare chiaranzane e balletti, dove che un calabrone e una farfalla ferono una barriera insieme molto galante, e un grillo bianco e una zenzala, ballarono un spagnuoletto con tanta leggiadria, che fu un gran stupore. Poi, quando furono stanchi di ballare, si posero a fare dei giuochi e dierono quell'assunto a un pulice, qual era assai burlevole, che fusse il maestro del giuoco; il quale senza farsi troppo pregare accettò l'impresa e fece molti bei giuochi da mettere suso dei pegni, e ivi s'udirono di bei motti e di nobilissime sentenze e sottilissimi quesiti, con risposte argutissime, e insomma la veglia passò molto galante, ma l'imperfezione della cosa fu che il giuoco andò tanto alla lunga, che ognuno si stufò e molti s'addormentarono per il tedio che ne sentivano. E così siamo ancora noi, serenissimi Signori, che fino a questa ora pare che la nostra veglia sia passata assai bene, ma il giuoco va un poco troppo in lungo, e sempre stiamo su l'istesso tenore; però parmi che sia ben fatto a mutare alquanto aria. Forse che quella di là su lo farà alquanto più svegliato, benché io non lo posso credere; pure, perché ogni uccello canta meglio nel suo nido che in quelli degli altri, bramo di tornar ancor io costui al suo nido natìo, e poi faccia che verso egli vuole; sicché vi prego, serenissimi Signori, a darci buona licenza, poiché in ogni modo da alcun di noi non siete per trarre construtto alcuno che profittevole sia per voi.
Re. Orsù, madonna Marcolfa, noi vi vogliamo contentare, perché con tante nobili comparazioni ci siete venuta innanzi, e veramente voi non siete donna selvaggia e alpestre, ma un oracolo, e meritamente fosti accoppiata con un uomo di valore come era Bertoldo, le quali sentenze ho fatto scolpire in oro sopra la porta del mio studio a perpetua memoria di un tanto elevato ingegno, e me ne vado servendo secondo l'occasione. Ora chiamisi un poco Erminio. Ma eccolo qua. O Erminio, va' in camera mia e piglia quel coffanetto di velluto nero, dove sono duemila scudi d'oro, e portalo qua a madonna Marcolfa. Poi va' al mio mercatante da panno e fàtti dare quattro pezze di panno fino e ducento braccia di tela da lenzuoli e da camicie, e fa' mettere all'ordine la lettiga (mira che personaggi da lettiga) e che essi siano condotti all'albergo loro, e che se gli mandino sino a dieci sacchi di farina e dieci botti di vino, e insomma tutto quello che gli fa bisogno tanto per il viaggio come per vivere a casa sua. Orsù, madonna Marcolfa, la grazia vi è concessa di poter andare e tornare a vostro beneplacito, ancorché, come ho già detto, io e la Regina sentiamo molto dolore di questa vostra partita; pure noi non vogliamo se non quello che volete voi.
La Marcolfa ringrazia il Re e la Regina de' benefici ricevuti da essi.
Marcolfa. Non ho lingua, né petto, né cuore a bastanza, o serenissime Maestà, da potervi rendere le debite grazie dei tanti benefici, grazie e favori ch'indegnamente ho ricevuti da quelle; ma, dove mancherò io, supplirà Quello che regge il tutto, il quale mai non cesserò di pregarlo a rendervi il guiderdone per me, e che vi conceda grazia di conservare il vostro regno in pace e felicità, dandovi forze e valore contra i nemici vostri, e vi guardi da insidie e tradimenti, e insomma ch'ei vi conceda ogni vostro desiderio e diavi ogni contento; e all'una e all'altra Corona qui genuflessa chiedo perdono se per sorte fussi trascorsa in qualche errore, o con parole o con fatti o con altro, o in qualunque modo io avessi usato poco rispetto e riverenza, domando nuovamente perdono; e con buona grazia delle loro serenissime Maestà io anderò a preparare le mie poche masserizie, e in questa partita me gli raccordo umilissima serva.
Alle parole della Marcolfa il Re e la Regina non poterono contenersi dalle lagrime e dandogli buona licenza si ritirarono nelle camere loro, dove stettero alquanti giorni con gran malenconia per la partita di lei. E così la detta Marcolfa si partì con il suo Bertoldino, carica di scudi e altri doni, e furono condotti in lettiga fin al tugurio loro; dove a tal arrivo corsero tutti i vicini a rallegrarsi con essi loro, e si fecero feste e bagordi rusticali per alquanti giorni per quei monti, e abbrucciarono due o tre boschi per allegrezza. E ivi si goderono il resto della loro vita lieta e tranquilla, e Bertoldino faceva poi colà su il dottore, e fece di belle burle, ma perché non vi era là su chi sapesse scrivere, non se ne fa menzione. Ben vi fu un montanaro che di lì a poco tempo venne al piano e disse che, quando costui giunse all'età di trent'anni, che egli divenne savio e accorto; ma in quanto a me duro fatica a crederlo. Pur ogni cosa può essere, ma so bene che vi sono tre cose che sono difficilissime da guarirsi, le quali sono queste: la pazzia, i debiti e il cancaro. E con questo vi lascio, addio.
Novella di Cacasenno figlio del semplice Bertoldino
Divisa in discorsi e ragionamenti
Opera onesta e di piacevole trattenimento, copiosa di motti, sentenze, proverbi ed argute risposte, aggiunta al Bertoldino di G. C. Croce da Camillo Scaligeri dalla Fratta [Adriano Banchieri]
Interlocutori
Il Re Alboino
Ipsicratea Regina sua Moglie
Erminio Gentiluomo di Corte
Andronico Maggiordomo di Corte
Attilio Servo famigliare di Corte
Marcolfa Nonna di Cacasenno
Bertoldino Padre di Cacasenno
Menghina Madre di Cacasenno
Palafrenier di Corte
Servitor di Erminio
Un Viandante contadino
Un Lettighiere di Corte
INTRODUZIONE
Erminio, Gentiluomo favorito Cortigiano del Re Alboino, avendo con un suo Servitore scorso molti giorni la campagna, passò sotto la montagna sopra la quale abitava la Marcolfa con il gustosissimo umore di suo figlio Bertoldino. Ed immaginandosi far cosa grata al Re e la Regina suoi Signori, portandogliene qualche novella, si pose a salire la montagna, e giunto alla casa vidde, stante la qualità del paese, una assai buona fabrica, e quivi picchiando alla porta, si affacciò la Marcolfa alla finestra, la quale scendendo a basso, e riconoscendo Erminio, con molta allegrezza lo condusse in casa, facendogli liete accoglienza; e, discorrendo, gli raccontò di suo figlio Bertoldino, che avea preso moglie, e che con li danari e robe donategli dal Re e dalla Regina, quando già furono in Corte, avevano comperati alcuni poderi e accomodatisi di molti mobili e suppellettili per loro proprio comodo, soggiungendo di più che Bertoldino suo figlio, all'uscire di fanciullezza, era divenuto accorto, onde ne vivevano con molto loro contento e tranquillità d'animo. Una sol cosa gli era molesta, che avendo preso Bertoldino moglie, ed avendone sinora avuto un solo figlio, che ora è età di sette anni, è riuscito più semplice, che già non fu suo Padre, e più grosso dell'acqua dei maccheroni. Di questo discorso ne prese Erminio non picciolo contento, determinando in sé stesso voler a tutto suo potere condurre questo novello parto al Re e Regina, così disse:
ERMINIO E MARCOLFA
Erminio. Ditemi Marcolfa, dove è Bertoldino, con questo suo figlio, che detto mi avete?
Marcolfa Sono andati qui vicino, alla capanna d'un nostro pecoraro, né molto può tardare il loro ritorno, essendo ormai vicina l'ora di desinare.
Erminio. E come ha nome il figlio che dite?
Marcolfa. Il suo nome proprio fu Arsenio, ma perché i Contadini e Montanari sempre giungono o scemano li propri nomi, come sarìa il dire, se uno tra noi ha nome Antonio, essendo di alta statura li dicono Tognone, s'è corpacciuto, Tognazzo, s'è di giusta statura, Togno, s'è di statura scarsa, Tognetto, essendo piccolo e grasso, Tognolo, s'è piccolo, Tognino; di modo che riducono il nome di Antonio in molti nomi, e li dicono Tognone, Tognazzo, Togno, Tognetto e Tognino; e quivi tornando in carreggiata, avendo il nostro fanciullo nome Arsenio, per essere alquanto turlurù gli diciamo Cacasenno.
Erminio udendo questo nome ridicoloso di Cacasenno ne prese grandissimo gusto, e maggiormente gli accese il pensiero di volerlo condurre in Corte; e mentre stava in questo desiderio udì la Menghina, moglie di Bertoldino, in strada cantare questo
STRAMBOTTO
Ciascun mi dice, ch'io son tanto bella,
Che sembro esser la figlia d'un Signore,
Chi mi assomiglia alla Diana stella,
Chi mi assomiglia al faretrato Amore.
Tutta la Villa ogn'or di me favella,
Che di bellezza porto in fronte il fiore.
Mi disse l'altro giorno un giovinetto:
Perché non ho tal pulce nel mio letto?
Comparvero intanto Bertoldino, Menghina e Cacasenno, con alcuni mazzi di asparagi, fragole, articiocchi e ricottine, portate da lor podere. Qui furono grandi e lieti i complimenti, di dove Erminio così disse:
ERMINIO, MENGHINA, MARCOLFA E BERTOLDINO
Erminio. Eravate voi quella giovine, che ho udito cantare?
Menghina. Signor no, era una nostra pecorara qui vicina.
Marcolfa. Ah bugiarda, sta così bene dir le bugie? Lasciatevi dire, Signor Erminio, era lei, e sapete se ne canta di belle?
Erminio Di grazia, bella giovine, favoritemi cantar un'altra volta quella, ovvero un'altra a gusto vostro.
Menghina Adesso non posso cantare; sono arrochita.
Bertoldino. Deh cantane una; che hai, paura?
Menghina. Adesso non me ne ricordo nessuna in vero.
Marcolfa. Orsù fatti ben pregare; vuoi far restare in vergogna questo Gentiluomo?
Bertoldino. Così fanno le buone cantarine, farsi pregare un pezzo; canta Menghina.
Menghina. Ora, perché mi date la baia, non voglio più cantare, m'avete inteso?
Erminio. Non andate in collera Menghina; vostro marito burla così con voi.
Marcolfa, Orsù canta mo', Nuora mia cara, non è bene farsi tanto pregare.
Menghina. Orsù son contenta, ma non voglio cantar qui, anderò in cucina.
Erminio. Andate dove vi pare, pur che cantìate.
STRAMBOTTO
Se vuoi venir con meco cuor mio bello,
Ti metterò sull'asino a cavallo.
Vedrai la casa mia com'è un giojello,
Di masserizie piena, sino al gallo.
Ancor udrai cantar un filunguello,
Qual'ha le penne verde, bianche, e giallo
Darotti ancor piacer, spasso e diletto,
Pigliando tordi e merli al mio boschetto.
Intanto che Menghina cantava, Marcolfa e Bertoldino pigliarono licenza da Erminio, per andare a porre in ordine il desinare; in questo arriva Cacasenno, che aveva fatto colazione; Erminio, con suo grandissimo gusto, lo piglia per la mano, e finito la Menghina il canto, Erminio interroga Cacasenno.
ERMINIO E CACASENNO
Erminio. Che fai, il mio bel fanciullino?
Cacasenno, Ho fatto colazione adesso adesso.
Erminio. Buon principio (dove vai tu? sto con altri); dimmi, come hai tu nome?
Cacasenno, Messer no, che non sono un uomo, sono un ragazzo.
Erminio. Non ti addimando se sei un uomo, dico il tuo nome: come ti chiami?
Cacasenno, Quando uno mi chiama, ed io gli rispondo.
Erminio. Volendoti io chiamare, come ho da dire?
Cacasenno. Dite come vi pare, ma tenete le mani a voi; perché mi volete cavar gli occhi, sì ch'io vi darò sul capo con questo bastone? non mi conoscete bene.
Erminio, facendo de' gesti con le dita mentre ragionava con Cacasenno, questi pensò che gli volesse cavar gli occhi, onde alzò un bastone che aveva in mano e gli voleva dar sulla testa; quivi la Marcolfa corse, e per correzione gli dette uno schiaffo. Cacasenno cominciò così dirottamente a piangere e gridare, che pareva un porchetto quando lo vogliono scannare. A questo rumore, corse la Menghina con un castagnazzo caldo per quietarlo, così dicendo:
Menghina Che hai che gridi, il mio Cacasennino?
Cacasenno. Uh uh, la Nonna, uh uh, mi ha dato, perché mi son difeso, uh uh, da questo uomo che mi voleva cavar gli occhi con le dita, uh uh.
Menghina. Orsù taci, il mio Cacasennino, che stasera manderemo la Nonna scalza in letto.
Erminio. Non è vero, il mio Cacasenno, che io ti volessi cavar gli occhi: orsù vieni, e piglia il quattrino, su, facciamo pace; oh che bel quattrino!
Cacasenno vedendo il quattrino si rappacificò, e nel pigliarlo Menghina gli disse: baciati il ditino e di' nonna; il che fece Cacasenno.
Erminio intanto, mirandolo, non poteva contenersi dal riso, e sentiva gusto del piacere che ne avrebbero preso il Re e la Regina. Questo Cacasenno era grosso di cintura, aveva la fronte bassissima, gli occhi grossi, le ciglia irsute, il naso e la bocca aguzza, che certo assomigliavasi ad un gatto mammone, ovvero ad uno scimiotto; ed essendo ora di mangiare, lavaronsi le mani, andarono a tavola, e finito il desinare, Erminio così disse:
ERMINIO, MENGHINA, MARCOLFA E BERTOLDINO
Erminio. Sappiate, che il nostro Spenditore di Corte l'altra mattina in mercato comprando alcuni capretti da un Montanaro della vostra montagna, intese ancora da quello l'esser vostro e gli diede contezza di questo vostro bel Cacasennino: il che divulgatosi per la Corte è ancora pervenuto all'orecchio del Re e della Regina, miei Signori, per lo che mi hanno mandato in persona, desiderosi di vederlo, dove tutti voi, per termine di creanza, dovete compiacergli.
Menghina. Non sarà egli mai vero, perché questo nostro figliuolino è così semplice, che son certa gli interverrebbe qualche sinistro incontro.
Marcolfa. Non vi è pericolo, Nuora mia cara, perché andrò io in sua compagnia; li Principi hanno lunghe le mani, ed i lor cenni bisogna riconoscerli per comandamenti, ed obedirgli.
Bertoldino. E tanto più al re Alboino, che ne ha dato tutto quello che noi abbiamo; però Menghina mia cara contentatevi, che questa è nostra nuova ventura.
Alle parole di Marcolfa e Bertoldino, si quietò Menghina, e vestito coi panni delle feste il suo Cacasenno, lo consegnò alla Marcolfa, e quindi, facendo i complimenti, restarono Bertoldino con Menghina alla cura di casa, ed Erminio con il suo servitore, Marcolfa e Cacasenno (con un bel collaretto dalle belle lattughe), scendendo la montagna, s'inviarono verso la Città, e giunti alla prima Osteria Erminio fece scendere da cavallo il suo Servitore, e presone un altro lo spinse in posta alla Corte, per dar contezza al Re e alla Regina di questo fatto, dove il Servitore galoppando si licenziò; ed essendo il cavallo della briglia che aveva in mano, così forte la tirava che il cavallo, inarborandosi, si drizzò in piedi, onde dirottissimamente Cacasenno gridava: Ohimè, ohimè, aiutatemi,che questo animalaccio mi vuol portar per aria e farmi romper la testa.
A questo gridare volgendosi Erminio, gridava che lasciasse la briglia, ma il povero Cacasenno, lasciandola andare affatto, fe' sì che il cavallo vi inciampò dentro e fecelo cadere in terra, ma per esservi la polvere alta, non si fece alcun male. Marcolfa, dubitando che si fosse fatto gran male, correndo, disse:
MARCOLFA, ERMINIO E CACASENNO
Marcolfa. Ohimè, poveretto, scendete signor Erminio, che costui senz'altro si è storpiato.
Erminio. Eccomi sceso; che fai Cacasenno? ti sei fatto male?
Cacasenno. O male o bene, voglio tornarmene a casa.
Erminio. Orsù rimonta a cavallo, e nel modo ch'io ti pongo la briglia in mano, così lascia venire il cavallo.
Cacasenno. Se volete ch'io monti, voglio che mi lasciate montare nel modo che ho visto far voi.
Erminio. Son contento: monta ch'io tengo il cavallo, e poiché non arrivi alle staffe, monta su questo sasso.
Erminio montò a cavallo e lasciò che la Marcolfa li tenesse il cavallo. Intanto Cacasenno, pigliando il vantaggio, pose il piè mancino nella staffa dritta, e salito che fu si trovò con la faccia volta verso le natiche del cavallo; quivi Erminio crepava dal ridere, e volendo ch'ei smontasse, mai fu possibile a persuaderlo.
ERMINIO E CACASENNO
Erminio. Bisogna scendere, se vuoi cavalcare.
Cacasenno. Io non potrei star meglio. Non avete voi detto che il Re e la Regina v'hanno mandato a casa nostra acciò mi conduceste a casa loro?
Erminio. L'ho detto, è vero, che vuoi dir per questo?
Cacasenno. Pigliate dunque voi la briglia del mio cavallo e conducetemi, ché in questo modo ubbidirete i padroni, ed io non vedrò i pericoli che devo passare.
Erminio. Oh, questa sì vale il resto del carlino! Invero, ho preso a menar l'Orso a Modena!
Accidentalmente passando un Contadino, che veniva anch'egli alla Città Regale, Erminio fece condurre il cavallo di Cacasenno così a mano, e cavalcando in tal guisa, giunsero alla Porta della Città. Erminio ordinò al Contadino, che così lo conducesse sino alla porta del Palazzo, ed ivi lo aspettasse; poi diede alcuni di quei soldati che stavano alla Porta, acciò lo accompagnassero per guardia, temendo che i ragazzi non lapidassero per la Città Cacasenno con pomi e torsi; intanto Erminio, dato de' sproni al suo cavallo, giunse in Palazzo, e trovò il Re e la Regina ch'erano ad un balcone per veder la venuta di questo bell'umore (già descrìttoli dal servitore di Erminio), e qui raccontando detto Erminio frettolosamente quanto gli era successo per istrada, un'ora parevagli mille anni, che comparisse. Intanto giunse, e vedendo le Regie Corone venire la Marcolfa filando, con quel Contadino che conduceva Cacasenno a rovescio sopra il cavallo, accompagnato con gridi e fischiate da moltitudine di ragazzi, il Re e la Regina di tale vista ne presero grandissimo piacere, e giunti in Palazzo fecero introdurre a loro questo ridicoloso spettacolo. Entrando pertanto la Marcolfa dinanzi le Regie Corone con ripetuti inchini, fu prevenuta dal Re.
RE, MARCOLFA E REGINA
Re. Ben venuta, Marcolfa; godo vedervi viva.
Marcolfa. Ed io vivendo per veder le Maestà loro, ne ringrazio il cielo di tanto dono.
Regina. Mi riconoscete, o Marcolfa?
Marcolfa. Tali sono gli obblighi ch'io le devo, mercé le grazie e doni e favori ricevuti già alcuni anni sono, mentre fui in questa Regia Corte con mio figlio Bertoldino, che ho sempre avanti gli occhi impresse l'effigie d'amendue, e questo sia detto senza alcuna adulazione; e quantunque io sia una povera montanara, sempre la verità e realtà, mi è piaciuta, perché sanno bene loro quanto il mio marito, mentre visse, fosse accorto, pronto ed arguto nelle belle sentenze, proverbi e salutifere moralità, dal quale più volte sentii uscirgli di bocca queste due belle sentenze:
Il Povero superbo
È come un frutto acerbo,
Ma il Povero benigno
È come l'or del scrigno. Il Povero bugiardo
Fa come il topo al lardo,
Ma il Povero reale
Tant'oro a peso vale.
Re. Sentenze veramente da imprimersi a lettere d'oro; ma lasciamo i complimenti: dov'è Cacasenno?
Marcolfa. Eccolo qui meco; vieni avanti Cacasenno. Ohimè, dov'è restato? era pure in mia presenza; dove sei?
A questo chiamare, i Palafrenieri di Corte, alzando la portiera, fecero entrare Cacasenno, il quale sopra le spalle si trascinava un uscio di legno.
Il Re e la Regina, a questa gustosa entratura ebbero a smascellarsi dalle risa, intendendo tal stravaganza; ma più stupita restò la Marcolfa di tal cosa; e quivi il Maggiordomo di Corte, che si trovò presente, appena potendosi contenere dalle risa, così disse alle Regie Corone:
MAGGIORDOMO, E DETTI
Maggiordomo. S appia no, le Regie Corone loro, che nel salir le scale del Palazzo, mentre Marcolfa entrava in sala, questo bamboccio disse a un Palafreniere che si sentia volontà di orinare. Fu egli intanto condotto al luogo di necessità, con sopportazione parlando, ed uscitone fuori non serrò l'uscio della bussola, onde io trovandomi, così gli dissi: Fanciullo, tirati dietro l'uscio, per non sentire il fetore; ed egli, levando l'uscio della bussola dai gangheri, se lo trascina dietro, onde così l'abbiamo introdotto qui a Loro.
Re. Dimmi Cacasenno, perché ti trascini dietro quell'uscio?
Cacasenno. Che importa a voi di saperlo?
Re. M'importa perché sono il padrone di casa.
Cacasenno. Se siete il padron di casa, quest'uscio adunque è vostro; ditemi che ne ho da fare.
Re. Lascialo andare.
Cacasenno. Uscio vattene, che il padrone ti dà licenza; vattene, dico, tu pesi troppo, né ti posso più tenere in ispalla; che sì, uscio, se tu non obbedisci, il padrone di casa ti farà qualche scherzo.
A quella semplicità corse la Marcolfa, e levatogli l'uscio di spalla, ordinò a Cacasenno che facesse un inchino al Re ed al la Regina, ed inchinatosi fino a terra, ad ambedue baciasse la mano; allora Cacasenno, quasi un nuovo Cabalao, con bella grazia si pose trabocconi per terra, così dicendo:
CACASENNO E MARCOLFA
Cacasenno. Oh! messeri, eccomi qui chinato in terra, siccome m'ha detto mia Nonna; mettetemi la mano in bocca, ch'io ve la voglio baciare; venite, vi aspetto.
Marcolfa. Che cosa fai pecora, così traboccante in terra?
Cacasenno. Non avete voi detto, ch'io m'inchini in terra, e baci la mano del Re e Regina? Eccomi chinato, diteli che vengano, che mi sento volontà di merendare.
Le Regie Corone risero tanto, che li dolevano le gote e la testa; dopo il riso lo fecero levar da terra, e da Attilio servo familiare di Corte condurre a merenda, restando quivi la Marcolfa a complire ed iscusare Cacasenno.
MARCOLFA, RE E REGINA
Marcolfa. Serenissime Corone, sappiano che questo Cacasenno non è meno semplice di quello che già fu in questa Corte Bertoldino suo Padre; tal fu l'albero, tal'è il frutto: però non prendano meraviglia delle sue inezie; io volentieri l'ho condotto qui in Corte per obedire, desiderosa però quanto prima esser di ritorno alla mia casa per molte fatiche che vi ho.
Re. Bertoldino vostro figlio che fa, è egli vivo?
Marcolfa. È sano vivo, e all'uscir di fanciullezza è divenuto accorto, ed ha preso moglie, dalla quale è nato il nostro Cacasenno; mercé i donativi che ne furon fatti in questa Corte, siamo assai comodi in beni di fortuna.
Re. Ed è vero quanto mi dite di Bertoldino?
Marcolfa. Verissimo; io non direi bugia a lei, mio Signore, e quando non le fosse di tedio le vorrei raccontare un caso seguìto di quelli che raccontava Bertoldo mio marito in proposito di uno che, dicendo una bugia al suo Prencipe, si perse mille fiorini.
Re. Ditelo pure, che ne sarà di sommo gusto.
Marcolfa. Fu già un Prencipe, che aveva in Corte un Servo molto familiare. Occorse che un Cittadino, vedendo la gran familiarità che il Servo teneva con il suo Signore, ricercò per suo mezzo una grazia, offerendogli, se l'otteneva, un donativo di mille fiorini; al suono dei quali li fu promesso operar il possibile acciò la grazia si ottenesse. Stando in questo, il Servo familiare ricorse al Prencipe e li chiese la grazia, e per effettuarla più facilmente vi annesse una bugia, con dire che la grazia da lui ricercata era in persona di un suo fratello. Il Prencipe disse che vi penserebbe un poco sopra e poi risolverebbe sì o no; ma poiché le bugie hanno corte le gambe ed al bugiardo ricercasi buona memoria, il Prencipe si ricordò che il suo familiare, già una volta ragionando, dissegli non aver fratelli; onde, per scapricciarsi segretamente fece chiamare il Cittadino che desiderava la grazia, e quando gli fu davanti, dissegli il Prencipe: O dimmi la verità, o tu resti privo della grazia mia. Risposeli il Cittadino di sì. Soggiunse il Prencipe: Il tale è tuo fratello? Rispose il Cittadino di no. Replicò il Prencipe: Perché ti ha egli impromesso farti avere la grazia che tu desideri? Rispose il Cittadino: Avendogli impromesso, subito ottenuta, un donativo di mille fiorini. Disse di nuovo il Prencipe: Or dà a me li mille fiorini, e siati fatta la grazia; e comandolli che di ciò non facesse alcun motto all'amico. Il familiare intanto, non sapendo il negozio fra il Prencipe ed il Cittadino, trovandolo un giorno di vena, gli ricordò la grazia di quel suo fratello; allora il Prencipe argutamente gli rispose: Vatti pur trova un altro fratello, perché quello che tu pensavi dovesse esser tuo è diventato mio.
Re Onde applicando, il fratello erano i mille fiorini. Arguta risposta, e gioiosa invenzione certo; ma torniamo un poco al nostro primo ragionamento; per che cagione non ci avete dato contezza di voi, che ogn'anno v'averessimo mandato qualche cosa.
Marcolfa. Indiscreto è quello che non si contenta dell'onesto; fu invero grandissima la magnanimità loro quando alla nostra partenza ne furono donati in quel cofanetto li mille scudi, quattro pezze di panno, duecento braccia di tela, dieci soma di grano, ed altre tante botti di vino, le quali cose da noi furono vendute, e compratone tanti beni, onde possiamo campare più che da pari nostri.
Re. E perché non vi vestiste di quel panno e tela, non mangiaste quel grano, e beveste quel vino?
Marcolfa. Perché il nostro felice paese di montagna ricerca vestimenti rozzi, pane mesturato e bere acqua continuamente, li cui cibi e vestiti conferiscono grandemente alla sanità.
Re Quello che si contenta gode; potendo mangiare buon pane e bever buon vino, mi pare gran semplicità il cibarsi di mestura ed acqua.
Marcolfa. Tra l'altre male cose, il bever vino a quelli che non sono avvezzi si è la peggiore per la sanità, sì come sortisce agli avvezzi bevendone di soverchio; ed in tal proposito, se alle Maestà loro non porto tedio, voglio narrargli una favola raccontatami da mio marito in proposito di chi beve soverchio.
Re. Eccoci attenti per ascoltarvi, ditela pure.
Marcolfa. Un Gentiluomo principale Todesco, volendosi partire dalla patria per trasferirsi a vedere la maravigliosa Città di Roma, ed insiememente scorrere il delizioso Regno di Napoli, si pose in cammino con un Servitore suo fidato e pratico di tali paesi; e gionti che furono a Bologna, ordinò pertanto il gentiluomo al Servo che andasse avanti, e in tutte le Città, Castelli, Ville e Borghi che sono per la strada maestra, ed in tutte le Osterie si fermasse, e gustasse se ivi era buon vino; e quando l'aveva gustato ivi si fermasse o ponesse sopra la porta dell'Osteria una lettera maiuscola in lingua latina, che dicesse EST, cioè: Quivi è buon vino. Il Servo obedì; e mentre il Gentiluomo trovava un'Osteria, né vi vedeva la maiuscola EST, diceva tra sé: Nitte, ed andava avanti; e quando trovava la maiuscola EST, ivi si fermava un giorno, sì per veder quel luogo, sì anco per gustare così buona bevanda. Così camminando verso Roma, giunse il Servo a una Terra del Serenissimo Gran Duca di Toscana, situata a mezza strada tra Firenze e Siena, nominata Poggibonsi (che fu patria del famosissimo Cecco Bembo) e fermatosi all'Osteria delle Chiavi, trovò ivi tre variate sorti di vini esquisiti, Vernaccia, Moscatello e Trebbiano. A questa trovata fece il Servo un Epitaffio, replicando tre volte la maiuscola così EST, EST, EST. Giunto il padrone, e gustati tali Vini, concluse ivi trattenersi tre giorni, né saziandosi di berne, tanto vi soverchiò, che fu miserabilmente assalito da un improviso soffocamento, dove in poche ore se ne morì. Il Servitore mal contento, ritornatosene al suo paese con così trista novella, a tutti li parenti ed amici che li dimandavano del suo Padrone, loro rispondeva con questi due versi latini:
Propter EST, EST, EST,
Dominus meus mortuus est
Sì che applicando dico, che il vino per lo più genera infiniti disordini, onde ne derivano diverse infermità, ed a noi là su in montagna non gusta, ma più ne piace quelle nostre acque freschissime, lucide come specchi e chiare come cristallo, che in dolce mormorio scaturiscono da certe pendici in concave fontane, le quali acque si rendono non solo delicate al gusto, ma ne liberano dalle indigestioni.
Regina. Graziosa novella invero è stata quella di quell'infelice Todesco, sì come pur troppo è vero quello che ne avete significato.
Re. Intanto imaginandomi, o Marcolfa, che siate stanca dal lungo e faticoso viaggio, andate a reficiarvi e riposarvi insieme; poi ritornateci a vedere con il vostro Cacasenno.
Chiamò il Re il Maggiordomo, ed ordinò che alla Marcolfa ed a Cacasenno fossero assegnate stanze, come fu eseguito, e giunta che fu la Marcolfa all'appartamento, vide Cacasenno disteso in terra che gridava, con la pancia in giù: Ohimè, ohimè! né potendolo Attilio Servo quietare, la Marcolfa dimandolli il perché, e così disse:
MARCOLFA,SERVO E CACASENNO
Marcolfa. Povera me tapina, che spettacolo è questo?
Servo. Sappiate Madonna Marcolfa, che questo vostro zucca senza sale, dopo avere merendato disse che voleva dormire, onde io non lo giudicando così semplice, gli dissi: Se vuoi dormire monta sul letto, ed egli a guisa di quei fanciulli che sogliono pigliar l'Oca, invece di montare sul letto (come dissi) s'aggrappò con le braccia e le gambe ad una colonna della trabacca e giunto alla staggia dove sono li anelli del coltrinaggio, essendo essa staggia fragile, si è scavezzata per il peso ed è qui caduto come vedete.
Marcolfa. Di questo non vi meravigliate, il mio uomo da bene, perché nella nostra montagna non si usano ai letti queste trabacche, ond'egli si è imaginato, che il coperto sia il letto, e volendovi salire come fosse un Castagno, cagionò questo disordine; ma poverina me, costui non parla; olà Cacasenno che fai?
Cacasenno. Ho tanto sonno ch'io dormo; di grazia Nonna non mi svegliate.
La Marcolfa, levandolo da terra tutto sonnacchioso lo pose sopra il letto, e chiudendo le finestre lasciollo acciò potesse dormire; intanto il Servo con suo gran gusto corse dal Re e Regina, i quali erano insieme e si stupivano della memoria di Marcolfa, avendo alla mente tante belle cose udite già raccontare dall'astuto Bertoldo, ed ancora non si saziavano di ridere della positura di Cacasenno mentre stava traboccone in terra, aspettando li ponessero la mano in bocca per baciarla. Quivi entrando Attilio ansioso li raccontò la caduta di Cacasenno da sopra il coperto della trabacca; or quivi si raddoppiò il riso, e tanto godevano di questa simplicità che se la fecero raccontare un'altra volta, sempre crescendogli maggior piacere.
Il Re ordinò di nuovo al Servo che tornasse all'appartamento di Cacasenno e sapesse di mano in mano dar minuto racconto di quanto succedeva, siccome da Attilio fu effettuato. Ora, mentre Cacasenno dormiva, la Marcolfa intanto stanca dal viaggio si ristorò e reficiò di mangiare, bere, e dormire; e mentre ella saporitamente dormiva fu risvegliata da uno stramazzone che diede Cacasenno giù dal letto gridando:
CACASENNO E MARCOLFA
Cacasenno. Ohimè, o infelice me, dove sono?
Marcolfa. Che hai il mio Cacasenno? Che rumore è stato questo?
Cacasenno. Son caduto, né so di dove, e mi sono cavati gli occhi.
Marcolfa. Oh sventurata me, che dirà Bertoldino mio figlio e Menghina mia Nuora, quando sapranno che tu sei cieco? dove sei?
Cacasenno. Se son cieco, come volete che vegga ove sono?
Marcolfa. Aspetta che aprirò le finestre.
Cacasenno. Allegrezza, allegrezza, mia Nonna, che mi sono tornati gli occhi come prima.
Marcolfa. Deh animale, eri cieco perché erano chiuse le finestre; levati su, dimmi, ti sei fatto male?
Cacasenno. Mi sento doler le natiche, ma non me ne curo, per l' allegrezza d' aver trovato gli occhi.
Stando la Marcolfa e Cacasenno in quelle loro inezie, il Servo che di commissione del suo Signore stavasi appiattato dietro una bussola dell'anticamera, lesto come un gatto non poté contenersi di non correre a dar ragguaglio della perdita degli occhi, che aveva fatto Cacasenno. Quanto per ciò si ridesse, ciascuno se lo può immaginare, tanto più che il Servo scaltrito minutamente raccontava il tutto. Intanto la Regina disse al detto Servo che facesse ambasciata alla Marcolfa in suo nome, che desiderava ragionar con lei per certo suo negozio particolare, ma desiderava venisse sola, lasciando Cacasenno alle stanze. Attilio, al comandamento della Regina, fece l'ambasciata alla Marcolfa; così intanto disse lei a Cacasenno:
MARCOLFA E CACASENNO
Marcolfa. Cacasenno, mi conviene andare dalla Regina, la quale mi ha fatto intendere che vadi sola, però restati fino al mio ritorno.
Cacasenno. Voglio venir anch'io perché ho paura, restando qui solo, di non perder gli occhi un'altra volta.
Marcolfa. E di che hai paura? Non v'è pericolo; resta e trattienti fino al mio ritorno, che sarà breve.
Marcolfa con prestezza chiuse la porta, acciò che Cacasenno non le corresse dietro, onde egli si pose dirottamente a gridare, ed infine trovando trattenimento si quietò. Intanto la Marcolfa, giunta dalla Regina salutolla dicendo:
MARCOLFA E LA REGINA
Marcolfa. Serenissima Regina, eccomi prontissima alli suoi comandi.
Regina. Marcolfa mia cara, mi sovviene quando già fosti nella nostra Corte con Bertoldino vostro figlio, che mi dichiarasti certi dubbi enigmatici occorsi in un gioco di Cavalieri e Dame; e perché domani a sera devesi fare un ridotto simile, vorrei che m'insegnaste qualche gran galanteria, toccando a me ordinare il trattenimento; so che siete Donna sagace e per conseguenza credo che ne sappiate di belle.
Marcolfa. Pianta silvestre non produce frutto domestico; io che abito la montagna non posso dirle cosa degna, che una Regina la proponga.
Regina. Ditela pure, e poi lasciate la cura a me.
Marcolfa. Devo compiacerla in ogni modo; sibbene li dirò cosa di basso rilievo, in bocca sua valerà assai, attesoché i Grandi sebbene talvolta dicono qualche castroneria, uscendo dalla bocca loro viene interpretata per dotta sentenza; vi vorrìa però tempo a pensarvi sopra.
Regina. Come, una pari vostra ricerca tempo di pensarvi sopra? Dubito vogliate darmi la burla.
Marcolfa. Io burlare a una sua pari? Non sia mai vero, le sono troppo obbligata, siccome poco fa dissi alla presenza del Re suo marito, che di povera, ch'io ero, coi suoi doni sono ascesa in grandezza, stante la qualità del mio paese e della persona mia.
Regina. Questi sono frutti che produce il mondo, che un povero diventi ricco, siccome un ricco povero: non sapete quel proverbio che dice:
Questo mondo è fatto a scale,
Chi lo scende, e chi lo sale?
Marcolfa. E mio marito Bertoldo soleva dire:
Il mondo è fatto a scarpette,
Chi se le cava, e chi se le mette.
Ed anco soleva dire in questo modo più breve:
Chi sù, e chi giù.
E siccome sono in questo proposito, mi sovviene una bella moralità d'una Volpe e d'un Orso.
Regina. Questa sì voglio che me la raccontiate, poi torneremo al nostro primo ragionamento.
Marcolfa. Passando un giorno accidentalmente l'astuta Volpe per un cortile di certi Signori, montò sopra una Cisterna, nella quale era mancata l'acqua per una gran siccità; guardando pertanto la Volpe nel fondo non solo vide esservi poca acqua ma scoperse gran quantità di Pesci, onde lasciandosi vincere dalla gola all'improvviso pensò una sua astuzia. Vidde che alla Cisterna vi era una catena con due secchie, e si slanciò in una di esse, che per la gravezza sua si calò al basso, dove mangiò tanto Pesce, che si empì la pancia fino al canarozzolo. Quando fu sazia, per l'improvisa risoluzione fatta nello scendere senza prima pensare la maniera di salire dopo, si disperava; onde trovandosi così in miseria cominciò a dolersi dicendo: O infelice me, che ho fatto? Ho pensato far bene e mi riesce male; misera, che farò, chi mi libererà da tal cattività? Se i Padroni per caso tornano, e quaggiù mi trovano, senza altro, se avrò mangiato le candele, mi faranno cacare li stoppini, e similmente se viene qualche Contadino per attingere acqua, e qua giù mi scorge, con un'archibugiata, mi dà l'ultimo vale. Intanto che la Volpe stava in questi lamenti, passò per costì il suo parente Orso, il quale, conoscendola alla voce, affacciossi sopra la Cisterna, e mirando a basso disse: O parente Volpe, che fai colà giù? Perché ti lamenti? Ci sei forse caduta, né ti dà l'animo tornar di sopra? Dimmi, come sta questo negozio? Allora la maliziosa Volpe subito fu pronta all'astuzia e disse: Il mio caro parente Orso, sai perché mi lamento? Del brodo troppo grasso; son venuta quaggiù, ed ho mangiato tanto Pesce, che son piena sino agli occhi. Rispose l'Orso: E per questo ti lamenti? Soggiunse la Volpe: Non mi lamento di quel che ho trangugiato, mi duole di quello che vi lascio. Replicò l'Orso: Dimmi, ve n'è assai? Rispose la Volpe: Se ne caricano dieci soma. L'Orso sentendo questo, disse: Voglio venire anch'io a cavarmi il corpo di grinze; dimmi come hai fatto a scender colà giù. La Volpe gli insegnò, dicendo: Fa come ho fatto io, lanciati con le zampe a quel secchio, che verrai a basso. L'Orso, per esser goffo e destro, senza pensare il suo fine, prese il consiglio della Volpe. Ella intanto entrò nell'altro secchio e per esser l'Orso più grave, tirò su la Volpe, la quale quando fu passata disse all'Orso: A rivederci parente: Chi su, e chi giù. Il che applicando alla moralità talvolta una persona trovasi in miseria ed ascende alla felicità, come la Volpe, sazia e contenta, e talvolta anco interviene come all'Orso, che lasciandosi ingannare finì la sua vita in estrema necessità.
Regina. Buonissima moralità e degna di considerazione, ma torniamo un poco (come dice il proverbio) l'acqua al nostro molino. Desidero per domani a sera che tu m'insegnassi un gioco di quelli che quando si erra si depone un pegno, e nel volerlo riscuotere si risolve qualche dubbio, il quale venendo risoluto giudiziosamente, se ne fa giubilo ed applauso.
Marcolfa. Uno voglio insegnargliene, che, venendo proposto dalla Regia persona sua le farà onore, per esser un gioco, che molti anni sono Bertoldo mio marito vide fare in casa di certi Signori. Il gioco si chiama della Musica Stromentale.
DICHIARAZIONE
Li giocatori e giocatrici non devono essere in numero maggior di dodici o minore di otto, che dove è maggior numero ivi è confusione, ed essendo meno non riesce; ciascuno devesi pigliare uno degl'infrascritti Stromenti, e quello imitare con la bocca e con le mani, poi pigliarne uno dei compagni, come segue:
GIOCO DELLA MUSICA STROMENTALE
Dodici Stromenti in tre sillabe l'uno
1. Spinetta 7. Trombetta
2. Liuto 8. Tamburo
3. Chitarra 9. Cornetto
4. Violino 10. Flauto
5. Biabò 11. Viola
6. Pivetta 12. Trombone
Quello che propone il gioco dica per esempio: Dirin dirin din, la tua Spinetta. Quello della Spinetta replichi, poi ne dica un altro, così seguitando: Dirin dirin din, la mia Spinetta. Tra pa ta pa ta, il tuo Tamburo. E quello del Tamburo risponda subito.
1. Dirin dirin din, la mia, o tua Spinetta.
2. Tronc tronc tronc, il tuo, o mio Liuto.
3. Trinc trinc ti ri trinc, la tua, o mia Chitarra.
4. Si ri si ri si, il mio, o tuo Violino.
5. Bi ri bi, il mio, o tuo Biabò.
6. Tu tu tu tu tu, la mia, o tua Pivetta.
7. Ta ran ta ran ta, la tua, o mia Trombetta.
8. Tra pa ta pa ta, il tuo, o mio Tamburo.
9. Ci ri ci, il mio, o tuo Cornetto.
10. Fis fis fis fis, il tuo, o mio Flautino.
11. Vion vion vi, la tua, o mia Viola.
12. Fu fu fu fu fu, il mio, o tuo Trombone.
Gli errori che possono scorrere, per li quali si depone un pegno, saranno: Quando non risponde presto lo stromento chiamato. Quando si fallasse nel cantar giusto il versetto. Quando si dicesse mio in cambio di tuo. Quando non s'imiti con le mani l'istromento suo, e quello del compagno. Avvertendo che se gli istromenti sono di voce acuta, si deve pigliar voce sottile, e se quelli sono di voce grave si piglia la voce grossa, siccome chi errasse in questo depone un pegno.
E perché dice il proverbio che ogni bel cantar rincresce, e come ogni corto gioco è bello, di mano in mano che uno depone il pegno esca di gioco, e quando li giocatori sono dodici, giunti alli sei li pegni, si diano uno per ciascuno, cioè quello del perditore al vincitore, per fargli riscuotere; e quando uno è uscito di gioco, ed un altro inavertentemente lo chiamasse, questo torna in gioco e ricupera il pegno, e quello che ha errato depone il pegno ed esce.
Regina. Marcolfa mia cara credo senz'altro avervi capita: quello che propone il gioco, deve cantare colla bocca ed imitare con le mani uno degli istromenti che sono in gioco, e quello che vien pronunziato subito rispondere con quel suo stromento, e pronunziarne un altro, e così seguitare con le condizioni dettemi nel deporre i pegni, le quali cose tutte tengo benissimo alla memoria. Ora, se io nel gioco fossi tra li sei, ovvero quattro vincitori, voglio m'insegniate qualche dubbio, ovvero enigma da proporre al Cavaliere o Dama che vorrà riscuoter il suo pegno.
Marcolfa Eccolo. Come farìa la Regia Corona Vostra a partire venti in cinque parti, e tutte cinque le dette parti fossero in numero dispari?
Regina. Io professo per mio diporto un poco d'Aritmetica: aspettate ch'io faccia il computo: uno e tre fan quattro, e cinque fa nove, e sette sedici, avanza quattro, non riesce. Tre via quattro dodici, avanza otto; manco. Tre e cinque otto, e sette quindici, e tre disdotto, avanza due, peggio. Quattro via cinque venti, ma sono pari; non è possibile, Marcolfa, spartire venti in cinque parti come dite, e siano dispari.
Marcolfa. Or vedete con che facilità voglio ponervi in chiaro: volendo partire venti in cinque parti, e tutte siano in numero dispari, si deve spartire la lettera
V E N T I
1 2 3 4 5
Ecco il dubbio risoluto, e riesce giudizioso.
Regina. Piacemi grandemente, ed è un bello enigma; io l'intendevo aritmeticamente, ed è litteralmente; pertanto del gioco e dell'enigma resto sodisfatta, e ve ne ringrazio; ora, dovendo io attendere a certi miei affari, voi Marcolfa andatevene a trovare Cacasenno, che aspettar vi deve.
Qui la Marcolfa fece le debite cerimonie nel licenziarsi dalla Regina; ora torniamo al nostro Cacasenno lasciato di sopra, che sua Nonna, partendosi, li disse che si trattenesse sino al di lei ritorno; onde Attilio, che per comandamento del Re stavasi appiattato dietro la bussola dell'anticamera per osservare tutto quello che Cacasenno operava, vedendogliene far una corse subito a raccontarla al Re, ond'egli, che intese che Cacasenno era solo, ordinò che lo conducessero a lui; il Servo, volando, tornò a Cacasenno, e sotto pretesto di menarlo a bere lo condusse avanti al Re, ond'egli, vedendogli il viso tutto impiastricciato, interrogandone Attilio, così disse:
IL RE, SERVO E CACASENNO
Re. Che cosa vuol dire che il nostro Cacasenno ha così impiastricciato il viso?
Servo Sappi, mio Signore, che avendo il Sottocredenziere ordinato al Guattero, che facesse un catino di colla per far l'impennata al gioco della Racchetta, costui si è tirato detta colla tra le gambe e, servendosi delle mani per mescola, tutta se l'ha trangugiata, e gli è restato il volto così impiastricciato.
Re. Dimmi, il mio caro Cacasenno, hai mangiato la colla?
Cacasenno Signor sì, mia Nonna quando si partì per andare da vostra Moglie, disse che mi trattenessi fino al suo ritorno, ed io, non avendo altro, mi son trattenuto con quella scodella di polenta, e questa ciera di matto se ne ride, e di più m'ha uccellato, perché, in cambio di menarmi a bere, m'ha menato qui da voi.
Il Re, udendo tali parole, e vedendogli il viso così impiastricciato, rise molto sconciamente, ed avrìa pagato ogni gran cosa che vi fosse stata la Regina, onde disse al Servo che menasse Cacasenno a bere, secondo la promessa, e perché desiderava che la Regina fosse partecipe di tal simplicità, li fece cenno che a lei lo conducesse; il Servo, che intese il tutto, eseguì: e, giunti alla Regina, così diss'ella:
REGINA E CACASENNO
Regina. Perché sei così impiastricciato, il mio Cacasenno?
Cacasenno. Perché ho merendato; vorrei mo' che facesti dare venticinque bastonate a costui, perché il Re gli ha ordinato mi facci dar da bere, ed egli non l'ha obedito; di grazia, fatemi insegnare la fontana, che sono gonfio come una vescica di porco.
Regina. Invero ti sei bene rassomigliato, ed appunto non hai altra ciera adesso, che quella che tu hai detto.
E facendosi la Regina raccontar il successo da Attilio, rise assai, poi ordinò che lo conducesse a bere, e poi dalla Marcolfa. Era di già giunta la Marcolfa alle sue stanze, né ritrovando Cacasenno tutta si rammaricava; e mentre stava in tal disgusto ecco Attilio con Cacasenno; onde inteso la Marcolfa il successo della colla disse: Povera me, questa pecora balorda mi ha svergognata per la Corte; e volendogli lavar il grugno, era così tenace la colla e talmente se gli era attaccata sul viso e sulle mani, che bisognò far bollire dell'acqua per lavargliela. Prese intanto risoluzione la Marcolfa andare dal Re e Regina a chiedergli licenza per tornare con il suo Cacasenno in montagna, siccome fece; e avendo lasciato Cacasenno in custodia al Servo, trovò ambedue le Corone insieme, e giunta che fu, con fargli un bell'inchino, così disse:
MARCOLFA, RE E REGINA
Marcolfa. Serenissime Corone, ritrovando qui ambedue loro, m'è intervenuto come a quell'uccellatore, il quale, tendendo una pania, prese due uccelli. Eccomi, o Regie Corone, a chieder loro licenza per tornarmene con Cacasenno a casa, poiché il dimorar quivi porta molto incomodo alla famiglia nostra; sono quattro giorni che siamo fuori e perciò, con loro buona grazia, desidero il loro compatimento.
Re. Volendo voi tornare a casa per le ragioni addotte, me ne contento, sebbene il vostro restar quivi qualche giorno ne sarìa gustoso.
Marcolfa. In tutte le azioni moderne piace la brevità e poi il suddito non deve domesticarsi con il Prencipe alla lunga, perché talvolta non è di vena, e gl'interviene quello che successe del gatto col topo, che scherzando un pezzo, infine al topo viene strucato il capo. Mio marito usava dire che l'aver amicizia col Prencipe, è come un fuoco d'inverno: non accostarvisi tanto che ti scotti, né star tanto lontano che non ti scaldi, ma tenersi così alla mezzana.
Re. Questi accidenti mai scorreriano nella persona vostra, conoscendovi noi per donna sincera; perciò, volendo andar, di nuovo me ne contento, ogni volta che la Regina se ne compiaccia..
Regina. Mi contento, con patto che in capo d'un anno torniate a rivederci con Cacasenno. Dico bene, che se non fosse gl'interessi della famiglia che dite, vorrei veniste ad abitar con noi.
Marcolfa. Credami certo, Serenissima Regina, che se lasciassi quella nostra buon'aria scoperta di montagna, bere di quelle nostre acque, e mangiar cibi grossi, per venire ad abitare in questi luoghi serrati, ber vino e mangiar cibi delicati, in breve cadrei in qualche indisposizione; sì come, s'io abitassi in Corte, io che son donna che procedo con ogni schiettezza d'animo, non potrei compatire tanti Cortigiani interessati ed adulatori, che sogliono praticar la Corte.
Regina. E come conoscereste questi tali?
Marcolfa. Ben avendoli dipinti al naturale in alcuni terzetti, osservati da mio marito, mentre conversò in Corte: e me li son tenuti a memoria.
Regina. Questi terzetti voglio da voi sentire.
Re. Senz'altro, perché devono esser molto belli.
Marcolfa. Sono contenta di recitarli, ma vorrei vi fossero di continuo alla memoria.
Regina Diteli pure.
CAPITOLO DEL CORTIGIANO VIRTUOSO E DELL AMBIZIOSO
Scrive un Poeta, che volea dir Morte
Chi disse Corte; ed io tengo opinione
Ch'ei scrisse Corte, e si servì di Corte.
A questa Morte dunque due persone
Corrono volontarie, il Virtuoso
Cingendosi di Corte il pelliccione;
A par di questo viene l'Ambizioso,
Con quattro cerimonie da Simone,
S'affibbia, corre al piede baldanzoso.
Quel che lo dice, o ha detto, è un bel babbione
Già non lo dica più, si deve usare,
Invece di Simone, dir Simmione,
Al Virtuoso suol significare
Quel Corte, brevi son le tue speranze,
Studia se sai, che sempre hai da stentare.
All'Ambizioso poi quelle creanze,
Che sono tutte finte adulazioni,
Quel correr gli fa aver buone sostanze.
Corre alle risa, corre alle finzioni,
Col riso al labbro dir e poi ridire,
Corre il vigliacco alle sollevazioni.
Uno di questi, stiano un poco a udire:
Se il Padron dice: ho fame, ed egli appunto,
Egli è passata l'ora, or fo amanire.
Se l'altro giorno, nell'istesso punto,
Dice il Padron: non ho fame sì presto:
Il tempo del mangiar non è ancor giunto.
Se il padron dice: olà! eccolo lesto
Con la berretta in man, che sia frustato,
Che 'l veste la mattina, e vada il resto.
Un tiro in questo tal assai notato,
Sputando il suo padron sul pavimento,
Col piè (appena sputò) che fu scazzato.
S'è detto assai, mutiam ragionamento.
Un utile pensiero a dir mi vaglia:
Il Prencipe che viver vuol contento,
Si levi dall'orecchio tal canaglia.
Marcolfa Questo è il Capitolo promeso, e tanto basti.
Re. Veramente è degno di considerazione. Intanto la vostra conversazione mai non porterebbe tedio.
Regina. Non mi avete dato risposta a quello che vi ho detto di tornarci a vedere in capo dell'anno.
Marcolfa. Se mi sarà concesso tanto spazio di vita, glielo prometto senz'altro.
Re. Orsù, intendo che gl'interessi vostri non comportano stiate fuori di casa e dei monti: vi diamo quindi buona licenza di andare e stare a vostro beneplacito; Erminio, va, piglia dal nostro Banchiere duecento fiorini, e dalli qui alla Marcolfa, che gliene faccio un presente, e per dimattina fa porre all'ordine la Lettiga per farli condurre in montagna.
MAGGIORDOMO, SOLO
O gran cecità d'alcuni Signori, i quali dànno così largamente a' Buffoni; vedete trascuraggine grande di questo mio Signore: donare duecento fiorini a questo scimiotto per quattro scioccherie, e talvolta un Letterato, un Poeta, un Musico, o altro virtuoso, gli dedicherà un corso di sue laboriose fatiche in Stampa, e ne sarà appena ringraziato con una lettera piena di vento per fabbricarsi vari castelli in aria, che altro non gli portano in borsa che volontà e speranze, tutte monete da laggio, che manco sono sufficienti per comperarsi una soma di legna da scaldarsi la vernata nei loro faticosi studi.
Mentre detto Maggiordomo sen va dal Cassiere per farsi numerare li fiorini, e poi dar ordine al Lettighiero che la mattina per tempo sia in procinto per condurre a casa loro questi due personaggi, intanto la Marcolfa fece i complementi.
MARCOLFA, RE E REGINA
Marcolfa. Or qui conosco apertamente che le Regie Corone loro, non solo sono nostri Signori, e Patroni, ma certi amici sicuri benemeriti.
Re. Voi dite che ne riconoscete per certi amici; e come intendete questa parola certi, e non dite veri?
Marcolfa. Perché vi sono amici ancora incerti.
Re. Di grazia, dichiarateci questa differenza.
Marcolfa, Sentitela in questa ottava.
Tanto è il ben (disse un Dotto) che non giova,
Quant'è il mal che non noce; ognun stia all'erta.
Amico di proferta ben si trova,
Qual sempre stassi con la borsa aperta;
Ma se tu vieni all'atto della prova,
Chiacchiere e barzellette alla scoperta,
Il vero amico è quel, quand'è in grandezza,
Sovvenir e onorar quel che è in bassezza.
Re. E come si dovria fare a procacciarsi veri amici?
Marcolfa. Le vere amicizie sono quelle che sono fondate nelle azioni virtuose; ma quelle che sono fondate nelle viziose durano poco, e da amici si diventa perfidi nemici; le amicizie che si conoscono di mala pratica si devono fuggire, atteso che se un uomo pratica con un cattivo acquista anch'egli lo stesso cattivo nome, e spesso, dice il proverbio, le male amicizie fanno rompere il collo; queste tali amicizie sogliono cagionare, di un gran amore, un intensivo odio, e venendo alla pace, non si deve più seguitare intrinsichezza; perché talvolta i viziosi di mala natura perdonano, ma non si scordano; il meglio è che ognuno faccia i fatti suoi, senza intrinsicarsi; e se alle Corone loro non porto tedio, racconterolli una moralità.
Re. Di grazia, raccontatela, intanto che il Maggiordomo verrà con i duecento fiorini.
Marcolfa. Quell'anno appunto che Berta filò le braghe al gallo, riferiscono Esopo, Tansillo, Doni ed altri scrittori, che tutte le bestie sapeano parlare, e tra di loro faceano amicizie e disamicizie, insomma negoziavano di quanto era loro necessario. Nell'istesso anno trovavasi la Volpe odiata da tutti per aver ingannato con le astute malizie e ladronecci ormai tutto il mondo. Ritrovandosi priva d'amici e perseguitata a morte, s'incontrò nel Cane di razza mastina, il quale volendosi avventare addosso di essa per ucciderla, lei trovò una buca e dentro vi si nascose, nella quale entrare non poteva il Cane; tuttavia, vedendosi assediata, pensò nuova astuzia, e con le sue belle parole disse: Dimmi, il mio bel Cane galante, perché mi vuoi uccidere? Venivo per conferir teco un mio pensiero, il quale è per sortire in tuo favore; però desidero che tu deponga lo sdegno e mi ascolti. Allora il Cane, sentendosi lodare e dire che desidera trattar seco un negozio il quale risulta in suo favore, diss'egli che volentieri era per ascoltarla. La Volpe soggiunse: So, il mio Cane galante, che ti sono note tutte le furfanterie che sino al giorno d'oggi ho commesse; però ti prometto, da quella che sono, esserne pentita, e da qui avanti vivere senza offesa d'alcuno. Io ora venivo a trovarti perché so che tra tutte le bestie tu tieni il nome di fedeltà, ond'io, sperando di trovare in te fedeltà, o pietà, ti dico che io sempre ho compatito il tuo stato, poiché giorno e notte bisogna che tu sii vigilante al la casa del tuo Padrone, se vuoi vivere, e quando hai bene travagliato tutto il giorno, alla notte, in cambio di riposare, ti bisogna vegliare e invigilare; poverello, certo del tuo stato crepami il cuore di compassione. Ora, come ti ho detto, pentita di tutte le mie scelleraggini, vorrei pigliar teco amicizia, e che tu mi introducessi in tua compagnia alla guardia della casa del tuo Padrone. Tu di giorno farai la guardia, ed io la sentinella di notte. Desidero intanto ne facci motto col tuo Padrone, e mettergli in pensiero l'utile della sua casa mentre avrà due guardie amiche e confederate. Allora il buon Cane, non considerando che la pratica di così maliziosa bestia gli sarebbe tornata in danno fin della vita stessa, le disse: Esci dalla buca, che ti do la zampa da bestia onorata di non offenderti, e di parlare al mio Padrone, e far che t'accetti in mia compagnia per guardia delle sue sostanze. Allora la Volpe uscì fuori dalla buca sotto la sua parola; e intanto, questi due nuovi amici si inviorno alla casa del Cane, e giuntivi, il Contadino, che vide la Volpe, subito prese una falce e corse alla sua volta per ucciderla; la Volpe, tutta mansueta, non fuggì, non si appiattò dopo il Cane, il quale, quietata l'ira del suo Padrone, tanto li seppe ben dire, che il buon Contadino gli promise tenerli ambidue in casa per guardia, con provisione di quattro pani al giorno ed una catinella d'acqua per ciascuno, con le ossa della carne, ed altre incerte regalie che correranno alla giornata. Fatto il patto, il negozio s'incamminò per due o tre giorni con molta soddisfazione del Contadino, del Cane, e della Volpe. Questa maliziosa bestia, essendo avvezza a mangiar galline, capponi, pollastri, da lei rubati nei gallinari, non si poteva assuefare a quel pan nero pieno di mistura, onde con bella destrezza un giorno, trovandosi a ragionamento con il Cane, così cominciò a dire: Cane mio fido compagno ed amico, poiché quivi siamo insieme a ragionare, vorrei dirti quattro parole, con patto che tu mi dia la zampa di non ne far motto ad alcuno, le quali parole ritornano in nostro utile. Allora il Cane le disse: Dotti parola da vero amico d'ascoltarti, ed anco di non manifestare a niuno quello che sei per dirmi, sicché scopri pur l'animo tuo liberamente. Soggiunse la Volpe: Tu vedi, il mio Cane, il nostro misero stato; non dico che il nostro Padrone non ne osservi quanto ne ha promesso, tuttavia, per mangiar comunemente pane di mistura, siamo diventati magri come due lanterne; tu sei un bel Cane, ma la magrezza ti guasta; se tu ti vedessi, poveretto, ti si conterebbero tutte le costole; però, vorrei che pigliassi il mio consiglio. Io so benissimo che sei pratico di questa Villa, e, quando vai fuori il giorno col Padrone, hai la pratica delle case e dei Contadini; io pertanto la notte quando il padrone sta a dormire vorrei che andassimo quando ad una casa e quando ad un'altra a buscarsi un paio di galline; tu m'insegnerai i gallinari e mi farai la guardia ed io destramente anderò a far l'effetto; e poi dopo al nostro pagliaro le mangeremo. Qui nella Villa vi sono assai case, ogni notte muteremo, e così molti giorni staremo bene, e nissuno se ne potrà accorgere; tu, che non sei di sospetto, il giorno anderai a far la scoperta, poi la notte in compagnia anderemo a far l'effetto. Il Cane, a queste belle paroline, ed anco lasciandosi tirar dalla gola, calò al consentimento, ponendolo ad effetto. Poche notti stettero bene alle spese di tutta la Villa; intanto le Donne di detta Villa, discorrendo tra loro, una disse: Non sapete le mie Donne? questa notte mi è stato rubato un paio di galline. Disse un'altra: Ed io la notte passata; e così tutte lamentandosi, dissero voler tender trappole e far la guardia per vedere se potessero venire in cognizione dei malfattori. Mentre ciò ragionavano tra loro, il Cane, che andava in ronda per ispiar questi motivi, vide le preparazioni che si ordinavano contro loro, onde n'avvisò la Volpe, la quale disse: Noi non ci torneremo più; intanto ci siamo un poco ingrassati, torniamo pure al nostro pane misturato. Il Cane si mise al vivere primiero; ma la Volpe maliziosa, che non poteva stare alla vita di quel pane, essendo avvezza a scialacquare, trovò una nuova astuzia: la notte andava al gallinaro del Padrone, e mangiava una gallina. Fatto il simile per quattro notti, disse: Qui non è tempo di starsi con la mano alla cintola; se il Padrone fa rassegna delle galline a me dà la colpa, onde il Padrone, ovvero il Cane mi ammazzano senz'altra remissione. Pertanto se ne andò in casa, e trovato il Padrone, dissegli che voleva dirgli quattro parole in secreto, ed avuta parola di secretezza così disse: Veramente, Padrone, resto molto soddisfatta della virtù mia, e vengo trattata molto più che non comportano i meriti miei; tuttavia, poiché mi prometti secretezza, sono per scoprirti un furto che ogni notte si fa nel tuo gallinaro. Disse il Contadino: E che furto è questo? Rispose la Volpe: Il Cane del quale tanto ti fidi ogni notte si busca una gallina, e dove la porti e che ne faccia io non lo so. Replicò il Contadino: Ed è vero quello che dici? Verissimo, disse la Volpe, e volendoti chiarire, non far alcun motto di sospetto, vattene al gallinaro, e fa la rassegna, che vedrai la mancanza e questa sera ti farò vedere il Cane con il furto addosso. Il Contadino intanto, irato con il Cane, restò in appuntamento con la Volpe di volersene chiarire. Licenziatasi pertanto la Volpe, che non le pareva tempo di dormire, ritrovò il Cane, e tirandolo in disparte così gli disse: Il mio Cane da bene, io ti ho preso tanto amore, che un'ora non posso stare senza vederti; il nostro andare ai gallinari più non è bene, se non vogliamo lasciarci la pelle; io per me mi muoio di volontà che noi mangiamo un paio di galline. Rispose il Cane: E di quali? Replicò la Volpe: Di quelle del nostro Padrone, che per così poco numero non se ne accorgerà, ed avvedendosi negheremo, e con chiacchiere gli daremo ad intendere il bianco per nero; io questa sera le ammazzerò e le porterò sotto il pagliaro; tu colà vattene, e portale nel fosso qui sotto la nostra casa, ed io verrò e le godremo. Il Cane si mostrò ritroso un pezzo; ma l'astuta Volpe tanto l'imbrogliò che restarono d'accordo. Venuta la sera la Volpe fece vedere al Contadino il passaggio del Cane con una gallina in bocca, del che ne prese tanto sdegno che il dì seguente, dormendo il Cane sull'aia, fu miserabilmente ammazzato dal Contadino con un'archibugiata. Quando la Volpe vide così tragica risoluzione, disse: Non è più tempo di star in questo paese, perché in breve interverrebbe a me il simile, conoscendo la mia mala natura; e perché non sapeva in qual maniera uscir di quella Villa per il pericolo di perder la vita, di nuovo trovò il Contadino, e dissegli: Ora che ti sei levato davanti il Cane, che non contento del pane, ancora ti rubava le galline, pertanto, avendo tu conosciuta la mia fedeltà, desidero servirti per Cane; voglio che tu scortichi il Cane ed acconciata la sua pelle la notte me la ponghi intorno, che i ladri, credendomi il Cane avranno paura, sebbene non abbaierò, e sarà meglio, perché dicesi per proverbio: Cane che abbaia non morde, onde avranno più paura; così tu avanzerai il pane e la tua casa sarà guardata come prima. Al Contadino gli parve buon partito, e pose la pelle del Cane indosso alla Volpe, e lei maliziosamente la notte che seguitò gli mangiò un paio di galline, e con quella pelle di Cane se ne fuggì in altro paese a tramare nuove astuzie. La mattina levatosi il Contadino, e non trovando la Volpe, e vedendosi mancar le galline, di quivi scoperse quanto era successo, esserne stata cagione la maliziosa Volpe; onde disse tra sé: Mi sta molto bene; così interviene a chi piglia pratica di gente viziosa, la quale fa precipitare chiunque con loro conversa, e son sicuro che il mio povero Cane è morto per malizia di detta Volpe, che l'avrà con qualche trappola ingannato. Onde il Contadino si prese tanto disgusto di aver ucciso il suo Cane, che per molti anni gli era stato fedelissimo custode, che anch'egli in pochi giorni finì la sua vita. E questo è il fine della Favola del Contadino, Cane e Volpe, promessa di raccontare alle Regie Corone loro.
Re. Veramente, Marcolfa, la favola non solo è gustosa da sentire raccontare, ma di grandissimo utile a quelli che si lasciano sviare da pratiche viziose e di mala nominanza, le quali fanno verificare quella sentenza che disse: Le male pratiche conducono l'Uomo al macello; intanto il nostro Maggiordomo è venuto con i fiorini, godeteli per amore nostro, e ritornateci a vedere, secondo la promessa; questa notte dormirete in Palazzo e dimattina ve n'andrete in Lettiga per più comodità a casa vostra, dove Bertoldino e sua moglie vi devono con desiderio stare aspettando.
Regina. O che graziosa favola, degna di gran considerazione! alla gioventù in particolare; una sol cosa desidero saper da voi, Marcolfa: da che procede che i Prencipi hanno tanti amici.
Marcolfa Alle persone grandi tutti si mostrano amici, sì, ma sono amici d'interesse, chi per adulazione, e chi per timore. Notate queste quattro belle sentenze e ciò vi basti:
Tal in presenza ti unge, che in assenza ti punge.
Tal ti loda in presenza, che ti risloda in assenza.
Nelli stati felici, ritrovi tutti amici.
Ma se fortuna volta, ognun suona a raccolta.
Giunto il Maggiordomo sborsò a Marcolfa i duecento fiorini, e la Regina levossi dal dito uno smeraldo legato in oro e glielo consegnò acciò in nome suo lo presenti alla moglie di Bertoldino; onde Marcolfa, il tutto ricevuto, così disse:
MARCOLFA
Serenissime Corone, tra le belle cose che raccontava mio marito, questa in tal proposito parmi bellissima. Diceva che Alessandro Magno un giorno donò a Senocrate Filosofo una quantità d'Oro, ed egli lo rifiutò. Quest'azione da molti fu lodata; ma non da Alessandro, anzi sommamente biasimata, poiché le ricchezze non si devono desiderare per cupidigia, ma servirsene ne' suoi bisogni necessari, e dell'avanzo praticar la virtù della Liberalità. Onde il Filosofo ricusando il dono ingiuriò Alessandro e pose sé stesso in miseria, né giovò ad alcuno. Io intanto delli fiorini, con il smeraldo da portare a mia Nuora, ne ringrazio le Regie Corone loro, e piglio l'ultimo congedo augurandole sanità, felicità, vita lunga e prosperità, con tutti quei beni che umanamente si possono desiderare.
Restarono grandemente meravigliati il Re e la Regina dell'eloquenza di Marcolfa, né la giudicorno Donna montanara, ma sì bene abitatrice della montagna, la quale ben dava saggio che fu moglie dell'astuto Bertoldo, tanto celebre al mondo. Intanto la mattina per tempo, Marcolfa e Cacasenno furono condotti in Lettiga alla Casa loro in montagna, ed al ritorno il Lettighiero diede minuto conto alle Regie Corone dell'allegrezza che fecero al loro arrivo Bertoldino, Menghina, i Cani, i Gatti, le Galline, le Pecore, i Porci, con tutti i Montanari e bestie di quel luogo; ma molto più fu allegro Bertoldino quando sentì il suono delli fiorini d'Oro, e Menghina in ricevere il bel smeraldo, onde vinta da soverchia allegrezza non si poteva saziare di abbracciare e far mille carezze e vezzi al suo bel Cacasenno. E perché la Marcolfa, sebbene Donna abitatrice della montagna, sapeva nondimeno leggere e scrivere, alla partenza del Lettighiero gli diede un piego per presentare in nome suo al Re e alla Regina; il che fu eseguito; e giunto che fu il detto Lettighiero in Corte, presentò il piego al Re, ed appena che lo ricevé se ne andò dalla Regina, dove con grandissimo loro gusto e diletto lessero il contenuto:
Serenissime Corone, salute.
Al ritorno che fa il Lettighiero alla Corte, a me par termine di creanza dar contezza alle Regie Corone loro del nostro felice arrivo, ed insieme l'allegrezza che hanno sentito il mio Figlivol Bertoldino e Menghina mia Nuora de' donativi a noi fatti, delli quali le ne rendiamo grazie infinite. Di Cacasenno non ne scrivo, stante che il Lettighiero essendosi partito questa mattina a buonissima ora, ed egli stava in letto che dormiva. E questa servirà per picciola ricognizione, con che do fine: e con tutta la nostra famiglia le preghiamo felicità, ecc.
Fine.