Martin Eden
Jack London
Capitolo I
Uno dei due aprì la porta con una chiave ed entrò, seguito da un giovanotto che si tolse il berretto con gesto imbarazzato. Aveva rozzi vestiti che odoravano di mare ed era chiaramente fuori posto nell'ampio atrio in cui si trovò. Non sapeva che fare del berretto e stava cercando di ficcarselo nella tasca del giaccone quando l'altro glielo prese. Ciò fu fatto con tranquillità e naturalezza e il giovanotto imbarazzato gliene fu grato. "Lui mi capisce", pensava. "E mi darà una mano".
Camminava alle calcagna dell'altro facendo oscillare le spalle e tenendo le gambe involontariamente divaricate, come se il pavimento si alzasse e si abbassasse seguendo le fluttuazioni e gli sbalzi del mare. Le ampie sale parevano troppo strette per la sua andatura dondolante e fra sé e sé egli era terrorizzato al pensiero che le sue larghe spalle potessero urtare contro gli stipiti delle porte o far cadere i minuscoli soprammobili posati sugli scaffali più bassi. Si ritraeva ora dall'uno ora dall'altro dei diversi oggetti, moltiplicando timori che in realtà erano soltanto una creazione della sua mente. Fra un pianoforte a coda e un tavolo centrale con alte pile di libri c'era spazio sufficiente per il passaggio di sei persone affiancate, e tuttavia vi si avvicinò con trepidazione. Le robuste braccia gli cadevano lungo i fianchi in modo sgraziato. Non sapeva che farne, di quelle sue braccia e delle mani, e quando nella sua visione alterata un braccio parve pericolosamente sul punto di sfiorare i libri sul tavolo, se ne allontanò traballando come un cavallo impaurito e per poco non finì contro lo sgabello del pianoforte. Osservò l'armoniosa andatura dell'altro davanti a lui e per la prima volta si rese conto che il suo passo era diverso da quello degli altri uomini. Per un istante il fatto di camminare in modo così impacciato gli diede un acuto senso di vergogna. Il sudore gli usciva dalla pelle della fronte in minuscole perline e si arrestò per asciugarsi con un fazzoletto la faccia abbronzata.
"Fermati un po', Arthur, ragazzo mio", disse, cercando di mascherare l'ansietà con il tono scherzoso. "Tutto in una volta è un po' troppo per il sottoscritto. Sai che io non volevo venire, e neanche la tua famiglia muore dalla voglia di vedermi, penso".
"Non ti preoccupare", fu la rassicurante risposta. "Non devi avere paura di noi. Siamo gente alla buona. Guarda, c'è una lettera per me".
Fece un passo indietro verso il tavolo, strappò il margine della busta e cominciò a leggere, dando all'estraneo la possibilità di riprendersi. Questi lo capì e gliene fu grato. Aveva il dono di sapersi immedesimare negli altri, di capirli, e sotto al suo aspetto allarmato esso già si manifestava in lui. Si asciugò la fronte e si guardò intorno con un'espressione controllata, benché nei suoi occhi comparisse un balenio come quello che si scorge negli animali selvatici quando temono di essere presi in trappola. Si trovava in mezzo a un mondo ignoto, preoccupato di ciò che poteva accadere, ignaro di ciò che doveva fare, consapevole che la sua andatura e il suo portamento erano goffi, timoroso che ogni suo tratto e ogni sua dote ne fossero inevitabilmente segnati. Ne aveva l'acuta consapevolezza, la frustrante sensazione, e lo sguardo divertito che l'altro gli lanciò furtivamente al di sopra del bordo della lettera lo trapassò, bruciante come una pugnalata. Vide quello sguardo ma non ebbe alcuna reazione perché la disciplina era una delle cose che aveva imparato. Inoltre quel colpo di pugnale lo aveva ferito nell'orgoglio. Si maledì per essere venuto e contemporaneamente decise che, dal momento che era venuto, ce l'avrebbe fatta, in un modo o nell'altro. Gli si indurirono i lineamenti e negli occhi gli affiorò una luce aggressiva. Si guardò intorno in modo più noncurante soffermandosi con attenzione su ciò che vedeva e registrando nel cervello ogni particolare di quel grazioso ambiente. I suoi occhi erano spalancati: nulla sfuggiva alla loro percezione e a mano a mano che bevevano avidamente quella visione di bellezza, svaniva dal suo sguardo la luce aggressiva e subentrava un'espressione di calda simpatia. Egli era sensibile alla bellezza e lì la sua sensibilità aveva trovato di che risvegliarsi.
La sua attenzione fu richiamata da un quadro a olio, in cui un'onda possente si infrangeva su uno scoglio sporgente, mentre il cielo era coperto da nuvoloni minacciosi; al di là della linea dei frangenti una pilotina, che andava di bolina stretta e sbandando rivelava ogni particolare del ponte, stava beccheggiando sullo sfondo del tempestoso cielo al tramonto. Era una visione di bellezza che lo attrasse irresistibilmente. Dimenticando la sua andatura goffa egli si accostò al dipinto, finché gli fu vicinissimo. La tela perse tutta la sua bellezza e il suo viso assunse un'espressione perplessa. Guardò fissamente quello che gli parve un trascurabile scarabocchio e indietreggiò di un passo. Subito l'impressione di bellezza sembrò tornare nella tela. "Un quadro basato su un trucco", pensò rimuovendolo dalla mente, anche se tra tutte le numerose impressioni che percepiva trovò il modo di avvertire una punta di indignazione che tanta bellezza dovesse essere sacrificata a un trucco. Non si intendeva di pittura. Aveva dimestichezza solo con oleografie e litografie che erano sempre definite e nette, da vicino o da lontano. A dire il vero aveva visto quadri a olio esposti nelle vetrine di negozi, ma lo schermo del vetro aveva impedito al suo sguardo ansioso di andar loro troppo vicino.
Si girò a dare un'occhiata all'amico che leggeva la lettera e vide i libri sul tavolo. Subito nei suoi occhi balenò un lampo di acuto desiderio simile a quello che affiora nello sguardo di un affamato alla vista del cibo. Un irrefrenabile impulso lo portò, con un dondolio delle spalle prima a destra e poi a sinistra, al tavolo, dove cominciò a toccare i libri con dolcezza. Guardava i titoli e i nomi degli autori, leggeva brani dei testi accarezzando i volumi con gli occhi e con le mani e, in un caso, riconobbe un libro che aveva letto. Per il resto si trattava di libri e di autori a lui ignoti. Si imbatté in un volume di Swinburne che cominciò a leggere metodicamente, dimentico del posto in cui si trovava, con il viso rosso. Due volte chiuse il libro tenendo il segno con l'indice per guardare il nome dell'autore. Swinburne! Avrebbe ricordato questo nome. Aveva occhi acutissimi costui, e sapeva cogliere i colori e i balenii di luce. Ma chi era questo Swinburne? Era morto da cent'anni o pressappoco, come la maggior parte dei poeti? O era ancora vivo, impegnato a scrivere? Girò il frontespizio... sì, aveva scritto anche altri libri; bene, come prima cosa la mattina dopo sarebbe andato alla biblioteca con prestito gratuito e avrebbe cercato di prendere delle altre cose di Swinburne. Tornò al testo e si immerse nella lettura. Non notò che nella stanza era entrata una giovane donna. Se ne accorse solo quando sentì la voce di Arthur che diceva:
"Ruth, ti presento il signor Eden".
Chiuse il libro tenendo il segno con l'indice e prima di girarsi vibrava già a una sensazione del tutto nuova, che non era dovuta alla ragazza ma alle parole di suo fratello. Sotto quel suo corpo muscoloso palpitava una sensibilità acuta e nervosa. Al minimo impatto del mondo esterno sulla sua coscienza, i pensieri, le simpatie e le emozioni divampavano e guizzavano come fiamme. Era straordinariamente sensibile e reattivo, mentre la sua immaginazione, fortemente stimolata, lavorava incessantemente a stabilire relazioni di somiglianza e differenza. "Signor Eden" era ciò che lo aveva fatto vibrare - lui che per tutta la sua vita era stato chiamato "Eden" o "Martin Eden" o semplicemente "Martin". "Signore!". Era certo un bel progresso, disse fra sé. La sua mente parve trasformarsi, in un attimo, in una vasta camera oscura, in cui vide vorticare innumerevoli immagini della sua vita, di sale delle caldaie e di castelli di prua, di accampamenti e di spiagge, di prigioni e di taverne, di lazzaretti e di strade dei bassifondi, il cui filo conduttore era costituito dal modo in cui le persone si erano rivolte a lui in quelle varie situazioni.
E poi si girò e vide la ragazza. La fantasmagoria del suo cervello svanì alla vista di lei. Era una creatura pallida ed eterea, con occhi azzurri grandi e spirituali e una messe di capelli d'oro. Non capì come fosse vestita, se non che l'abito era meraviglioso come lei. La paragonò a un fiore di un colore oro tenuesu un esile stelo. No, era uno spirito, una divinità, una dea; una bellezza così sublime non era di questa terra. O forse i libri avevano ragione e ce n'erano molte come lei nelle alte sfere della vita. Avrebbe potuto essere cantata da quel Swinburne. Forse aveva avuto in mente qualcuno come lei quando aveva descritto quella ragazza, Isotta, nel libro che era lì sul tavolo. Tutte queste immagini, sensazioni e pensieri si intrecciarono in un attimo senza alcuna intromissione della realtà nella quale si muoveva. Vide la mano di lei tendersi verso la sua e lei guardarlo diritto negli occhi mentre si stringevano la mano con franchezza, come fra uomini. Le donne che aveva conosciuto non stringevano la mano in quel modo. Anzi, la maggior parte di loro non stringeva affatto la mano. Una miriade di associazioni mentali, di visioni dei vari modi in cui aveva fatto la conoscenza di donne, gli inondò la mente minacciando di sommergerla. Ma egli le allontanò e la guardò. Non aveva mai visto una fanciulla del genere. Le donne che aveva conosciuto! E subito pose accanto a lei le donne che aveva conosciuto. Per un attimo eterno si trovò nel mezzo di una galleria di ritratti di cui ella occupava il posto centrale, mentre intorno a lei erano le figure di molte donne, tutte soppesate e misurate con un rapido sguardo con riferimento a lei, unità di peso e di misura. Vide le facce smunte e malaticce delle ragazze di fabbrica e le ragazze smorfiose e sguaiate a sud di Market Street. C'erano le donne dei piccoli accampamenti e le donne olivastre del Vecchio Messico che fumavano sigarette. Queste a loro volta sparirono davanti all'avanzata delle donne giapponesi, che incedevano come bamboline leziose nei loro zoccoli di legno; delle eurasiatiche con i loro lineamenti delicati segnati dalla corruzione; delle prosperose donne delle isole dei Mari del Sud, con pelle scura e ghirlande in testa. Tutte queste furono cancellate da una razza grottesca uscita da un orribile incubo - creature sciatte che si trascinavano lungo i marciapiedi di Whitechapel, megere dei bordelli gonfie di gin, e tutto il seguito di arpie luride e oscene di quel vasto inferno, che presentandosi in mostruose forme femminili depredano i marinai, relitti dei porti, feccia e fango dell'umanità.
"Non vuole sedersi, signor Eden?", stava dicendo la ragazza. "Ero ansiosa di conoscerla fin da quando Arthur ci ha raccontato. E' stato molto coraggioso...".
Egli fece con la mano un gesto noncurante e borbottò che non aveva fatto proprio niente e che chiunque lo avrebbe fatto al suo posto. Ella notò che la mano che aveva agitato era coperta di abrasioni recenti in via di guarigione, e un'occhiata all'altra mano che gli pendeva al fianco le rivelò che doveva essere nelle stesse condizioni. Inoltre con uno guardo rapido e acuto notò una cicatrice sulla guancia di lui, un'altra che faceva capolino da sotto i capelli sulla fronte e una terza che scendeva verso il basso scomparendo sotto il colletto inamidato. Frenò un sorriso alla vista della riga rossa che segnava lo strofinio del colletto contro il collo abbronzato. Evidentemente non era abituato a portarlo. Analogamente il suo occhio femminile osservò gli abiti che indossava, il loro taglio dozzinale e privo di eleganza, le pieghe del giaccone sulle spalle e le arricciature delle maniche che denunciavano l'esistenza di braccia gonfie di muscoli.
Mentre agitava la mano e borbottava che non aveva fatto proprio niente, cercò di obbedire al suo invito e di prendere posto sulla sedia. Trovò il tempo di ammirare il modo armonioso con cui ella si sedette prima di precipitarsi verso la sedia di fronte a quella di lei, sopraffatto dalla consapevolezza della sua goffaggine. Questa era un'esperienza nuova per lui. Per tutta la vita fino ad allora non aveva avuto coscienza di essere aggraziato o goffo: pensieri di questo genere non gli avevano mai attraversato il cervello. Si sedette con circospezione sul bordo della sedia, preoccupatissimo di dove mettere quelle sue mani, così ingombranti dovunque le mettesse. Arthur stava uscendo dalla stanza e Martin Eden ne seguì l'uscita con uno sguardo voglioso. Si sentiva perduto, solo in quella stanza con quella donna pallida e spirituale. Non c'era alcun bettoliere da chiamare perché portasse da bere, nessun garzone da mandare al locale dietro l'angolo a prendere un boccale di birra con cui inaugurare un rapporto di cordiale amicizia.
"Che cicatrice ha sul collo, signor Eden", stava dicendo la ragazza. "Com'è successo? Sono sicura che deve essere stata una qualche avventura".
"Un messicano col coltello, signorina", rispose inumidendosi le labbra riarse e schiarendosi la gola. "E' stata solo una rissa. Dopo che gli ho portato via il coltello ha cercato di staccarmi il naso con un morso".
Per quanto l'avesse liquidata in quel modo, nei suoi occhi erano rimasti i ricchi particolari di quella calda notte stellata a Salina Cruz, la bianca striscia della spiaggia, le luci delle navi cariche di zucchero nel porto, le voci dei marinai ubriachi in lontananza, gli stivatori che si spingevano, la fiammeggiante rabbia sulla faccia del messicano, il brillio animalesco dei suoi occhi alla luce delle stelle, la puntura dell'acciaio sul collo e il fiotto di sangue, la folla e le grida, i due corpi, il suo e quello del messicano, avvinghiati, che si rotolavano più volte lasciando segni sulla sabbia, e in una vaga lontananza i dolci accordi di una chitarra. Questa era l'immagine, e lui rabbrividiva ancora a ricordarla, e si chiedeva se quello che aveva dipinto la pilotina nel quadro sul muro sarebbe stato in grado di raffigurarla. La spiaggia bianca, le stelle e le luci delle navi cariche di zucchero sarebbero state splendide, pensava, come sfondo per il gruppo di opache figure che sulla sabbia, nel mezzo del quadro, circondavano i due contendenti. Decise che il coltello avrebbe dovuto avere un posto preciso nel dipinto e che sarebbe stato ben visibile, con una specie di bagliore, alla luce delle stelle. Ma di tutto ciò nulla era entrato nelle sue parole. "Ha cercato di staccarmi il naso con un morso", concluse.
"Oh", disse la ragazza con una voce tenue e lontana, ed egli notò dal suo viso sensibile che ne era rimasta colpita.
Provò anch'egli una forte impressione e un rossore imbarazzato gli coprì leggermente le guance bruciate dal sole, benché il calore che sentiva fosse fortissimo, come quando il viso veniva esposto alle vampate che uscivano dal portello aperto della fornace nella sala macchine. Argomenti sordidi come le risse di coltello evidentemente non erano adatti per una conversazione con una signora. Negli ambienti che frequentava, nei libri che leggeva, la gente non parlava di quelle cose, forse non sapeva neppure che esistessero.
Ci fu una breve pausa nella conversazione che cercavano di avviare. Poi lei fece una cauta domanda sulla cicatrice della guancia. Mentre la formulava, egli si rese conto che la fanciulla stava facendo uno sforzo per parlare il linguaggio di lui, e decise di non seguirla e di parlare invece il linguaggio di lei.
"E' stato solo un incidente", rispose portandosi la mano alla guancia. "Una notte durante una bonaccia ma col mare grosso si spezzò il mantiglio del boma, e poi il paranco. Era di filo metallico e guizzava come una serpe. Tutti quelli di guardia cercavano di afferrarlo e mi sono buttato anch'io e sono stato beccato".
"Oh", esclamò lei, questa volta con un accento di comprensione, benché tutto quel discorso fosse stato greco per lei, che si chiedeva che cosa fosse un mantiglio e che cosa volesse dire beccato.
"Quest'uomo, Swineburne", cominciò, cercando di mettere in esecuzione il suo piano e pronunciando la i come ai.
"Chi?".
"Swineburne", ripeté, sempre con la stessa pronuncia. "Il poeta".
"Swinburne", corresse lei.
"Sì, quello lì", balbettò lui con le guance di nuovo infuocate. "Quanto tempo fa è morto?".
"Ma non mi risulta che sia morto". Lei lo guardò con curiosità. "Dove lo ha conosciuto?".
"Non l'ho mai visto in faccia", fu la risposta. "Ma ho letto qualcosa della sua poesia da quel libro lì sul tavolo proprio prima che lei venisse. Le piace la sua poesia?".
A quel punto la fanciulla cominciò a parlare rapidamente e fluentemente sull'argomento da lui suggerito. Egli si sentiva più a suo agio e si accomodò un po' meglio sulla poltrona tenendosi stretto ai braccioli con le mani, come se essa gli potesse essere sottratta facendolo cadere sul pavimento. Era riuscito a farla parlare con il proprio linguaggio, e mentre ella continuava si sforzò di seguirla, meravigliandosi di tutta la cultura immagazzinata in quella graziosa testolina e contemplando la pallida bellezza del viso di lei. Riusciva a seguirla, per quanto perplesso per le parole inconsuete che le uscivano scioltamente dalle labbra e per espressioni critiche e processi mentali che erano estranei alla sua mente, ma che ciò nonostante la stimolavano e la facevano fremere. Qui c'era vita intellettuale, pensò, e c'era anche bellezza, calda e splendida come non aveva mai pensato potesse esistere. Dimenticò se stesso e la fissò con occhi avidi. Ecco qualcosa per cui vivere, da cercare di conquistare, per cui combattere - sì, per cui si poteva persino morire. I libri erano veri. Al mondo c'erano donne così e lei era una di loro. Ella diede ali alla sua immaginazione, e tele grandi e luminose apparvero davanti a lui, nelle quali emergevano figure vaghe e gigantesche di amore e di avventura, e di imprese eroiche compiute per la donna - per una donna pallida, per un fiore d'oro. E attraverso la visione ondeggiante e palpitante fissava, come attraverso un miraggio incantato, la donna reale che era seduta lì e parlava di letteratura e di arte. Ascoltava anche, ma soprattutto guardava, inconsapevole della fissità del suo sguardo o del fatto che nei suoi occhi brillava tutto quello che nella sua natura era tipicamente mascolino. Ma lei, che poco conosceva il mondo degli uomini, essendo una donna, avvertiva chiaramente la presenza di quegli occhi ardenti. Non era mai stata vicino a uomini che la guardassero in quel modo, e ne era imbarazzata. Incespicò e tentennò nel suo discorso e perse il filo del ragionamento. Era intimorita, ma contemporaneamente avvertiva uno strano piacere nell'essere guardata in quel modo. La sua educazione l'avvertì della presenza del pericolo e di un allettamento insano, sottile e misterioso; mentre i suoi istinti urlavano a gran voce in tutto il suo essere, spingendola a superare d'un balzo casta e posizione per raggiungere questo viaggiatore di un altro mondo, questo rozzo giovanotto con le mani lacerate e una riga rossa causata dalla presenza intorno al collo di un indumento insolito, il quale, presumibilmente, era contaminato e segnato da un'esistenza ingrata. Lei era incontaminata, e la sua purezza si ritraeva; ma era anche donna e proprio allora cominciava a prendere coscienza delle contraddizioni dell'animo femminile.
"Come stavo dicendo... che cosa stavo dicendo?". Si interruppe di colpo e rise allegramente di ciò che le era capitato.
"Lei stava dicendo che questo qui, questo Swinburne, non è riuscito a essere un grande poeta perché... e poi lì si è bloccata, signorina", le rammentò lui, mentre gli parve all'improvviso di sentire fame e deliziosi brividi gli correvano su e giù per la spina dorsale al suono della risata di lei. Come argento, pensò, come il tintinnio di campane argentine e immediatamente, per un istante, fu trasportato a una terra lontana, dove sotto rosei fiori di ciliegio fumava una sigaretta e ascoltava i rintocchi della pagoda con il tetto aguzzo che invitavano alla preghiera devoti con calzari di paglia.
"Sì, grazie", ella disse. "Swinburne fallisce, alla fin fine, perché è, beh... indelicato. Molte delle sue poesie non dovrebbero mai essere lette. Ogni verso dei poeti veramente grandi è pieno di verità e bellezza ed evoca tutto ciò che è elevato e nobile nell'uomo. Nessun verso dei grandi poeti potrebbe essere eliminato senza con ciò provocare un impoverimento nel mondo".
"Io pensavo che era grande", disse egli esitante, "quel poco che ho letto, non avevo idea che era un... mascalzone così. Immagino che questo venga fuori dai suoi altri libri".
"Ci sono molti versi che potrebbero essere eliminati nel libro che lei stava leggendo", ella disse con voce misuratamente ferma e dogmatica.
"Mi devono essere sfuggiti", annunciò lui. "Quello che ho letto era roba buona. Era tutto pieno di luce e scintillava, e splendeva dentro di me e mi illuminava tutto, come il sole o come la luce di un faro. E' così che l'ho sentito, ma immagino di non essere un grande intenditore di poesia, signorina".
Si interruppe frustrato. Era confuso e dolorosamente consapevole della sua incapacità espressiva. Aveva avvertito la grandezza e il calore della vita in ciò che aveva letto, ma le sue parole erano inadeguate. Non riusciva a comunicare ciò che sentiva e fra sé si paragonò a un marinaio su una nave sconosciuta in una notte buia, che brancolava toccando attrezzature il cui funzionamento gli era ignoto. Bene, decise, stava a lui farsi conoscere in questo mondo nuovo. Non aveva mai visto nulla di cui non fosse riuscito a cogliere il senso se lo avesse voluto ed era giunto il momento in cui voleva parlare delle cose che sentiva dentro di sé in modo che ella capisse. Lei diventava sempre più grande al suo orizzonte.
"Ora Longfellow...", stava dicendo la ragazza.
"Sì, l'ho letto", interloquì impulsivamente, desideroso di mettersi in mostra e di sfoggiare quel po' di cultura letteraria che aveva, voglioso di farle vedere che non era proprio un bietolone. "Il Salmo della Vita, l'Excelsior e... be', ho letto solo questi".
Ella annuì e sorrise, ed egli sentì confusamente che era un sorriso di tolleranza e di pietà. Era stato uno stupido a tentare di bleffare a quel modo. Probabilmente quel Longfellow aveva scritto una grande quantità di libri di poesia.
"Mi scusi, signorina, di averla interrotta così; il fatto è che so proprio poco di queste cose. Non sono del mio giro; ma le farò entrare nel mio giro".
Pronunciò queste parole come una minaccia, con voce decisa, occhi fiammeggianti e un'espressione determinata sul viso. Alla ragazza parve che la linea della mascella si fosse modificata, assumendo un taglio sgradevolmente aggressivo. Contemporaneamente un'intensa vampata di virilità sembrò emanare da lui e investirla.
"Penso che lei abbia le capacità di... farle entrare nel suo giro", concluse con una risata. "E' un uomo forte".
Lo sguardo di lei si soffermò per un istante su quel collo muscoloso, nerboruto, quasi taurino, abbronzato dal sole, traboccante di sana rudezza e di possanza. E benché egli rimanesse seduto con il viso rosso e l'espressione umile, ella si sentì di nuovo attratta da lui. Fu sorpresa da un pensiero malizioso che le sorse nella mente. Le sembrava che se avesse potuto posare le mani su quel collo, tutta quella forza e tutto quel vigore sarebbero entrati in lei. Rimase traumatizzata da questo pensiero che pareva rivelare un'inattesa depravazione della sua natura. Inoltre per lei la forza era una cosa grossolana e volgare: il suo ideale maschile era l'uomo esile e aggraziato. Tuttavia quel pensiero persisteva. Quel desiderio di posare le mani sul collo bruciato dal sole la sbigottiva. In realtà lei era tutt'altro che robusta e aveva bisogno della forza altrui, per il corpo e per la mente. Ma non lo sapeva: sapeva solo che nessun uomo l'aveva mai colpita come questo, che la sconvolgeva continuamente con la sua orribile grammatica.
"Sì, ho una salute di ferro", diceva lui. "Se devo dire la verità digerisco anche i sassi. Ma proprio adesso mi è venuto un attacco di dispepsia. Buona parte di quello che lei ha detto non riesco a digerirlo. Non ho avuto una preparazione adatta, capisce. Mi piacciono i libri e la poesia, e il tempo libero che ho lo passo a leggere, ma non ci ho mai pensato come lei. Ecco perché non riesco a parlarne. Sono come un navigatore alla deriva senza carta e bussola in un mare sconosciuto. Ma ora voglio trovare l'orientamento e forse lei può aiutarmi. Come ha fatto a imparare tutte le cose che ha detto?".
"Andando a scuola, penso, e studiando", rispose.
"Io sono andato a scuola da bambino", protestò lui.
"Sì, ma io parlo del liceo, dei corsi superiori, dell'università".
"E' andata all'università?" chiese, francamente sorpreso. Ebbe l'impressione che ella si fosse allontanata da lui di milioni di miglia.
"Ci sto andando adesso. Seguo corsi speciali di inglese".
Egli non sapeva che cosa intendesse con quella denominazione, ma fece un'altra domanda dopo avere preso atto mentalmente di questa lacuna.
"Quanto dovrei studiare prima di poter andare all'università?".
La fanciulla accolse con un sorriso di incoraggiamento questo desiderio di cultura e disse: "Dipende da quanti anni ha già fatto. Lei non ha mai frequentato le superiori, vero? Ma ha finito la scuola media?".
"Quando ho lasciato perdere mi mancavano due anni", rispose. "Però a scuola sono sempre stato promosso con buoni voti".
Non appena ebbe pronunciato queste parole, si pentì di essersi fatto trascinare dalla vanità; fu invaso da una grande rabbia e strinse i braccioli della poltrona con tale forza che le punte delle dita gli fecero male. Contemporaneamente si accorse che una donna stava entrando nella stanza. Vide la ragazza alzarsi dalla sedia e dirigersi rapidamente verso la nuova venuta. Si baciarono e avanzarono verso di lui tenendosi allacciate per la vita. Martin pensò che la donna, alta, bionda, bella, maestosa pur nella sua snellezza, doveva essere la madre. Il vestito di lei era adeguato allo stile e all'eleganza di quella casa, ed egli ne contemplava con ammirazione le linee aggraziate. La donna e il vestito gli facevano venire in mente le attrici sul palcoscenico. Quindi ricordò di aver visto grandi dame e abbigliamenti eleganti anche all'entrata dei teatri di Londra, e di essere stato costretto dai poliziotti a uscire sotto la pioggia fine e insistente, abbandonando la tettoia sotto la quale aspettava insieme con altri curiosi. Poi la mente gli tornò al Grand Hotel di Yokohama dove, sempre stando fuori sul marciapiede, aveva visto altre grandi dame. E allora, come in un lampo, la città e il porto tornarono a passargli davanti agli occhi in miriadi di immagini. Tuttavia si affrettò a soffocare il caleidoscopio della memoria sotto la tormentosa ossessione dei problemi del presente. Capiva che doveva superare la prova della presentazione e con grande difficoltà si alzò, restando in piedi con i pantaloni che gli facevano le borse alle ginocchia, le braccia pendule e ridicole e la faccia tesa per l'imminente cimento.