L'arte di prender Marito
di Paolo Mantegazza
"Alle troppo impazienti,
Alle troppo esigenti,
Alle troppo positive, che credono bastare
alla felicità del matrimonio molti
quattrini e una corona,
Alle troppo poetiche, che credono bastare
al matrimonio l'amore,
Dedico questo nuovo libro,
Perchè tutte imparino, che se il matrimonio
può darci la massima felicità, è
anche la più instabile delle combinazioni
chimiche; il più delicato, il più intricato,
il più fragile di tutti i meccanismi."
Dicembre 1893.
PARTE PRIMA.
IL RACCONTO.
CAPITOLO PRIMO.
_La bambina diventa donna._
Era un mattino di marzo, e un sole impaziente s'era alzato
troppo presto, spargendo per l'aria azzurra e già calda l'oro
della sua luce, il tepore del suo fiato.
La stazione era molto vicina alla casa di Emma, e a piedi era
andata coi suoi ad augurare il buon viaggio ad un cugino
ingegnere, che sposo da solo un mese doveva fare per l'ufficio
suo un lungo viaggio e lasciar sola la sposa per qualche
settimana.
Cugini e cugine e zii erano arrivati un po' tardi e si dovette
far economia di parole e di abbracciamenti. Un furia furia per
prendere i biglietti, consegnare i bagagli, coll'accompagnamento
di un grido monotono dei conduttori:
--Facciano presto, signori, il treno parte.
E davanti ad un vagone di prima classe i parenti erano
affollati, guardando il cugino ingegnere, che non poteva
parlare; perchè sentiva che le parole gli sarebbero venute
fuori, strozzate e singhiozzanti.
Tutti si accontentavano di sorridere al viaggiatore, con un'aria
che voleva essere un saluto e un augurio, ma era invece una
mestizia mal dissimulata.
Chi non poteva sorridere, neppur dissimulando, era la sposa, che
era entrata in vagone per dar l'ultimo bacio al viaggiatore.
Cugini e cugine non guardavano se non per terra, con gesti
impacciati; mentre la voce del conduttore ripeteva per la
ventesima volta il suo monotono:
--Presto, signori, presto, si parte.
La sposa dovette scendere, lo sportello fu chiuso brutalmente e
in furia, ma essa si arrampicò di nuovo sul predellino del
vagone.
--Addio, addio Paolo, ritorna presto.... ricordati di scrivermi
ogni giorno.
Una testa si abbassò, si incontrò coll'altra, e per non so
quanti minuti secondi, quattro labbra si strinsero, si fusero in
un labbro solo, in un singhiozzo supremo.
Emma alzò gli occhi e guardò attonita, curiosa, con una
prurigine nuova, con un fremito della persona, quei due che si
baciavano a quel modo. Non potè neppur pronunziare la parola
_addio_....
E un fischio acuto, uno strider di ruote, distaccò quei due
innamorati e fece partire il treno, che sparì dall'orizzonte in
pochi minuti.
Tutti ritornarono alle loro case, ma Emma riportò con lei il
bacio dei due cugini, come se l'avessero stampato sulle sue
labbra, con un suggello di fuoco; e lo ebbe nella bocca, nel
cuore, negli occhi, tutto quel giorno, e la notte appresso.
Lo vedeva, lo sentiva; ne ricordava il suono....
Eppure essa aveva veduto chi sa quante volte il babbo che
baciava la mamma, e mariti baciar mogli; ed essa stessa aveva
baciato tante e tante volte, fanciulli e fratelli e amiche e non
ne aveva mai provato turbamento alcuno.
Perchè ora quel bacio l'aveva scossa tanto, l'aveva tanto
turbata?--
Non era il bacio, che fosse diverso dagli altri veduti, e
sentiti. Era lei, che era un'altra.
Emma da bambina era divenuta una donna.
Nella notte dormì poco e male. Nel sonno agitato, febbrile,
sognò che anch'essa partiva per un lungo viaggio, e un giovane
bello e innamorato la baciava sul predellino e così lungamente,
che il bacio non si distaccava più dalle sue labbra.
E il treno partiva rapido, rumoroso, fulmineo, mentre il
giovane, non avendo avuto tempo di scendere, l'accompagnava.
nella corsa, senza distaccare mai le labbra dalle sue.
Essa ne era sgomenta, temeva un disastro e gridava:
--Scendi, scendi....
Ma il giovane non poteva scendere e via via il treno correva
sempre più impetuoso; e i baci seguivano ai baci e le grida dì
spavento non li interrompevano, facendo coro al fremito delle
labbra.
Emma allora si svegliò con un grido così angoscioso e alto che
fece svegliare la mamma, che accorse al suo letto.
Emma era seduta, coi capelli disciolti, sulle spalle, cogli
occhi spalancati, tutta coperta di sudore.
--Che cosa hai, che cosa ti è accaduto mia figliuola, mio
tesoro?
--Nulla, mamma mia, non lo so....
E piangeva e rideva in una volta sola.
Acceso il lume, la mamma la guardò curiosa, trepidante, e Emma a
quello sguardo arrossì, come se avesse commesso un peccato,
vergognosa di una emozione nuova di voluttà e di strazio, che
avea provato nel suo primo sogno d'amore.
Nascose il capo sulle spalle della mamma, ridendo,
singhiozzando, tremando tutta; mentre gli ultimi brividi di un
amore senza peccato le facevano vibrar la pelle, come se fosse
scossa da una corrente elettrica.
--Mamma, perdonami, se ti ho spaventata.... sognavo non so che
cosa....
Per la prima volta taceva qualcosa a sua madre; anzi mentiva.
Quel bacio sognato o ricordato era per lei una colpa.
Emma era da bambina divenuta una donna....
CAPITOLO SECONDO.
_Libri e fantasmi.--Sogni e realtà._
Quella notte era passata e dopo quella molte e molte altre, ma
Emma non era più la fanciulla lieta, spensierata, vagabonda di
prima.
Non giuocava più al cerchio in giardino, non saltava più per le
camere, non cantava, nè canterellava più.
Il pianoforte non era più aperto che all'ora della lezione, e
rarissime volte l'apriva di tarda sera, quando era sola e per
suonare le cose più tristi del Chopin.
Compariva a un tratto davanti alla mamma dopo essersi rinchiusa
per ore nella sua camera e aveva gli occhi rossi....
E la mamma:
--Ma che hai, figliuccia mia? Tu hai pianto.
--No, mamma, ma perchè piangere? Io son felice...--e poi, quasi
spaventata di queste parole, rideva piangendo e si asciugava gli
occhi, girando sopra sè stessa e agitandosi:
--Sono i nervi, sono i nervi.... Ho sempre canzonato le mie
amiche maggiori di me di qualche anno, quando mi dicevano di
averli, ed ora, ora li ho anch'io.... Mamma, perdonami....
--Ma non ho nulla, mia cara, mio tesoro, da perdonarti,--e
l'attirava a sè collo sguardo, colle braccia e se la stringeva
al cuore.
E allora piangevano ridendo tutte e due e la burrasca era
finita; ma la mamma confidava al babbo (che era uno dei medici
più sapienti e più celebri della città) le ansie che le davano i
nuovi turbamenti di Emma.
Il medico babbo alzava le spalle e crollava il capo ridendo:
--Sono gli _isterismi della pubertà_.
Due brutte parole, che sanno di clinica e di anatomia in una
volta sola, con cui noi altri medici giudichiamo brutalmente
tutta una rivoluzione fisica, morale, intellettuale, che
trasforma una fanciulla in una donna; tutto un poema di virtù
nuove e di nuovi vizi; di impeti passionati e di languori
ineffabili, di desiderii senza forma, e di amori senza amanti;
tutto un caos incomposto, titanico, che domanda al cielo un
creatore, agli angeli una voce che dica: tu sarai una madre; o
all'inferno un grido, che esclami; tu sarai un demonio.
*
Emma leggeva molto, leggeva sempre, ma dal giorno in cui aveva
veduto baciarsi quei due alla stazione, i libri prediletti non
eran più quelli di prima o in questi cercava altre pagine.
Leggeva e rileggeva il Petrarca, e di questi soprattutto i
sonetti d'amore. Nel Tasso gustava gli amori di Tancredi e di
Clorinda. Adorava Paolo e Virginia, ma avrebbe voluto un Paolo
ancor più innamorato e una Virginia più eroica.
Del Dante non leggeva più che il Canto V. L'aveva tanto letto,
che lo sapeva tutto a memoria, ma preferiva rileggerlo,
parendole allora di assistere alla scena del grande peccato.
Ed essa stessa credeva di peccare, leggendo quelle pagine
immortali; e al verso "La bocca mi baciò tutta tremante" si sentiva scorrere per le vene un fuoco, vibrare su tutta la
pelle un brivido, e più d'una volta chiudeva il libro e lo
gettava lontano da sè.
Una volta invece aveva a un tratto con furore baciato quel
bacio, e su quelle pagine galeotte aveva lasciato l'impronta
delle sue labbra.
Il bacio di Paolo le faceva sentire l'eco di quell'altro dato
dalla cugina al cugino alla ferrovia; quel bacio, che era
divenuto per lei l'incubo di tutte le ore, il sogno di tutte le
notti.
Dopo una di queste scene solitarie, di questi duelli misteriosi
fra un libro e una fanciulla, essa si adirava con sè stessa,
giurava di non rilegger più il Canto V dell'Inferno e per una
settimana al più, manteneva il giuramento... con grande stento
però, con immenso sagrifizio.
Quel libro, quelle pagine erano per lei un frutto proibito, che
diveniva più saporoso, più desiderato, quanto più lungo era il
digiuno che ella si imponeva; e quando, vinta alfine, ripigliava
il libro che pareva aprirsi da sè sempre allo stesso posto, vi
si gettava, anima e corpo, guardandosi intorno, per assicurarsi
che era proprio sola; sola col proprio peccato, colla propria
passione, a cui si abbandonava coll'impeto di un amore infinito,
colle lascivie di un vizio.
* *
Ma per Emma non era solo l'Inferno di Dante, che fosse un libro
galeotto. Lo erano tutti quanti, o per essere più precisi, vi
era in tutti una pagina galeotta; quella cercata, quella letta e
riletta con crescente fascino, con insaziata curiosità.
In quella pagina galeotta vi era sempre un bacio o una carezza,
un innamorato o uno sposo. Vicina o lontana era l'eco sempiterna
del bacio della ferrovia.
I personaggi dei romanzi, delle commedie, dei drammi si facevan
vivi e palpitanti agli occhi di lei, quando erano uomini e
giovani e belli; ed essa li vestiva cogli occhi del desiderio e
della simpatia. Di giorno le tenevan compagnia gioconda nelle
lunghe ore, che voleva solitarie, e di notte le popolavano di
lieti fantasmi i sogni d'amore.
Era vergine, era pura come l'ignoranza; ignorava il sesso.
Eppure aveva dieci, cento, mille amanti, che amava ad uno ad uno
e poi raccolti tutti in un esercito, che metteva l'uno contro
l'altro, l'uno accanto all'altro; facendone dei rivali o degli
avversari. Era infida ora all'uno ed ora all'altro, e colla
fantasia commetteva tradimenti e adulterii; santa e odalisca;
pura come una vergine, libertina come un'eteria.
* *
Nella nostra educazione mistica, ipocrita, tutta quanta fondata
sulla tradizione teologica dell'uomo, abbiamo sempre fatto
dell'ignoranza e dell'innocenza una stessa cosa; e pur troppo
sono invece due cose molto diverse; avendo noi moltissime donne
ignoranti, che non son punto innocenti, e parecchie innocenti
senza ignoranza.
Emma era innocente e ignorante; non per colpa sua, ma per quella
dei suoi genitori.
Il babbo lasciava fare queste cose alla mamma e giustamente; ma la
mamma, che era tra quelle, che dell'ignoranza e dell'innocenza fanno
due sinonimi, non aveva mai detto nulla alla figliuola sul gran
mistero d'amore, sull'augusta e terribile funzione dei sessi.
Aspettava per farlo, che Emma fosse divenuta una donna, e intanto essa
lo era divenuta inconsciamente, e i solitarii martirii la tormentavano
orribilmente, senza che la parola e la carezza materna l'aiutassero
alla grande iniziazione.
Essa era divenuta donna nell'anima prima che nel corpo, e nessun
segno esteriore aveva annunciato l'alba nuova.
Ma un giorno a un tratto anche nel corpo vergine e delicato la
natura brutale le inflisse quella ferita misteriosa e crudele,
che nessuna ragione di darvinismo può giustificare e che sembra
consacrare l'amore della donna al martirio.
Emma arrossì e si sgomentò, e trepida e paurosa corse dalla
mamma, narrandole colle lagrime agli occhi il caso strano.
La mamma dovette parlare.
Con lunghe meditazioni si era preparata ad affrontare quella
rivelazione, che aspettava da un giorno all'altro dalla sua
figliuola. Essa aveva preparato tutto un discorso fatto di mezze
bugie e di mezze verità, con cui ella confidava di poter far
andare a braccetto l'ignoranza e l'innocenza; ma lì per lì
dimenticò il discorso preparato da tanto tempo e le accadde ciò
che suole avvenire al deputato poco eloquente, che dopo aver
imparato una lunga orazione da recitarsi al primo pranzo
politico dei suoi elettori, la dimentica nel momento più
opportuno ed è costretto a improvvisare per davvero, ma molto
malamente, un altro discorso.
---Sai, figliuola mia, non è nulla, proprio nulla....
--Ma....
--No, no; è una cosa che hanno tutte le donne e che....
--Ma dunque non è una malattia....
--No, no, tutt'altro; anzi è un segno di salute.... Calmati, non
ti inquietare; sta allegra....
E non seppe dir altro e cambiò discorso....
Alla sera però la mamma confidava al babbo il grande
avvenimento, chiedendo consigli.
Il medico andò in collera colla mamma, perchè non aveva già
detto tutto alla figliuola, e lanciò una filippica lunga,
eloquente, persuasiva contro il mal vezzo di tener le fanciulle
nella più oscura ignoranza, mostrando tutti i danni, che ne
vengono alla salute del corpo e a quella dell'anima....
La buona signora rimase convinta più che persuasa e:
--Dunque devo dirle tutto?
--Tutto.
--Ma proprio tutto, anche ciò che verrà poi....
--Sicuramente; tutto deve sapere.
--E perchè non glie lo dici tu?
--Io no: tocca a te il farlo. è dal labbro della mamma, che la
fanciulla deve imparare a conoscere i terribili misteri del
sesso, coi suoi pericoli e il suo fascino. Tu devi dirle tutto
semplicemente, senza emozione alcuna, senza nasconderle nulla,
proprio nulla; come se si trattasse della cosa più naturale di
questo mondo. Nella religione è un rappresentante di Dio, è un
sacerdote, che dà il battesimo. Nel mondo dell'amore è la mamma,
che deve essere il sacerdote della nuova religione. Nell'anima
tenerella e vergine della fanciulla, è un'impronta che non si
cancella più. è ben diverso il nascere in una culla foderata di
seta e d'amor materno o nel povero letticciuolo d'un ospizio. E
così è dell'amore: deve nascere in un nido intrecciato dalle
mani della mamma. Povera colei, il cui nido fu fatto da mani
straniere!
Povera colei, che impara a conoscere i misteri del sesso dalla
lasciva cameriera o dal vecchio libertino! Essa entra nel tempio
d'amore per una fogna, mentre dovrebbe entrarvi per una porta di
marmo inghirlandata di fiori.
CAPITOLO TERZO.
_Il primo amore._
Emma da qualche tempo, e soprattutto dopo aver saputo dalla mamma il
nuovo Verbo, era sempre triste o dirò meglio malinconica.
La primavera della vita è come quella dell'anno.
Non si giunge ai tiepidi soli dell'aprile, nè alle inebbrianti
rose di maggio, che attraverso le nebbie e i venti rabbiosi del
marzo.
E non si entra nel tempio d'amore, nel paradiso terrestre dei
caldi desiderii che attraverso le lagrime e gli isterismi della
pubertà.
Può sembrare crudeltà della natura, ma non ne è che una
ingegnosa leccornia, un'ingegnosità di alto epicureismo.
Sulla soglia, che separa l'inverno dalla primavera, nasce la
mammola, e là dove la bambina, muovendo il passo, diventa donna,
nasce e fiorisce la malinconia, la mammola del sentimento.
Emma era appunto su quella soglia.
Quando essa non studiava o non era al piano, era sempre alla
finestra.
Tutte le fanciulle adorano le finestre.... aperte o chiuse, non
importa; purchè possano guardare fuori, nel mondo di sopra, nel
mondo infinito che è il cielo; nel mondo di sotto, in quello
piccino dove formicolano gli uomini.
Tutti credono di sapere il perchè di questo gusto particolare di
tutte le fanciulle e darebbero dell'imbecille a chi dicesse di
ignorarlo. Ma molte di queste certezze non sono che ignoranze
foderate di superbia.
Io, per conto mio, ci ho pensato sempre a quel perchè, e non
sono ancora sicuro di saperlo.
D'una cosa sola sono sicuro ed è che il perchè non è uno solo,
ma sono molti; molti come i sogni che attraversano il cielo
notturno delle fanciulle.
Esse guardano in basso per curiosità, per distrarre l'occhio col
viavai della gente, che per le vie cerca il pane o l'amore, la
vendetta o il contravveleno della noia.
Esse guardano a mezz'aria per spiare la vita delle cose vicine.
Esse soprattutto e più spesso guardano le nuvole, perchè esse
van navigando nel gran mare dell'ignoto e dell'infinito e i loro
pensieri mutan forma con esse, e i volti umani si trasformano in
mostri marini e le pecorelle si fanno draghi e i fiori diventan
serpenti; proprio come quaggiù nei viottoli del mondo, dove le
speranze si trasformano in disperazioni e dal seme della gioia
nascono l'assenzio e l'aloe.
In basso, a mezz'aria o in alto poi, le fanciulle cercan sempre
una stessa cosa, una cosa sola: l'_uomo_.
* *
E anche Emma guardava dalla finestra della sua cameretta, che dava
sulla via. E le ore filavano filavano senza noia e senza gioia, in una
fantasticheria piena di ombre e di poesia. Quanti poemi scriveva fra
le nuvole, quante commedie e drammi immaginava sulla terra!
La via dove abitava era larga, ma non tanto da non poter
distinguere chi abitasse la casa di faccia.
Ma questa era da un pezzo muta d'ogni voce. Il primo piano era
abitato da una ricca famiglia, che stava quasi sempre in
campagna. E il secondo era sfittato da un pezzo.
Un giorno però si videro spalancarsi tutte le finestre di quel
piano e comparvero figure di uomini, di donne, di bambini; tutta
la colonia d'una famiglia numerosa.
Emma però non vide che un giovanetto, che non doveva aver ancora
vent'anni, dacchè il primo onor del mento non poteva esser
veduto che molto da vicino o con forti cannocchiali. Del resto
una faccia come ve ne son cento. Nè brutto nè bello, ma con quel
pallore, quella magrezza, quell'andar dinoccolato e incerto che
ti mostrano lo sforzo grande, che fa la natura per trasformare
un fanciullo in un uomo.
Non eran passati che pochi giorni e anche il giovinetto vide
Emma, e da quel giorno, bench'egli fosse un Enrico e non una
Enrichetta, passò anch'egli lunghe ore alla finestra. Se non
che, se per caso egli affacciandosi, vedeva Emma, questa si
allontanava subito dal suo posto d'osservazione.
Passarono parecchie settimane senza che fra quei due accadesse
altro, che un guardarsi, un arrossire di entrambi, ma più di lei
che di lui; un cercarsi e un fuggirsi.
Emma non aveva mai osato domandare alla cameriera chi fosse
quella famiglia venuta a star di faccia; ma a tavola senza
volerlo aveva saputo che era gente onesta e agiata. Un avvocato
carico di famiglia, che mandava innanzi la casa coi travagli
quotidiani della toga e che tra gli altri molti figliuoli aveva
un giovanetto, che studiava medicina all'Università. Quel
giovanetto era Enrico.
E su Enrico si appoggiarono tutti gli incerti desiri, tutti i
sogni di Emma; e in lui, senza avergli mai parlato, senza averne
neppure di lontano udito la voce, cercò l'uomo.
E l'uomo Enrico cercò la donna Emma e l'amò, poeticamente,
ingenuamente; con tutte le sublimi puerilità d'un primo amore.
Chi dei due fosse più timido, non saprei dire; perchè lo erano
entrambi fino all'impossibile.
Egli scriveva dei versi, che voleva gettarle nella finestra
aperta; ma i versi si accumulavano e rimanevano nel cassetto.
Essa voleva fermarsi, quando egli fosse apparso, e voleva
rispondere con un sorriso al suo sguardo; ma continuava invece a
fuggire e il sorriso rimaneva sempre inedito.
S'erano incontrati più d'una volta anche per via e una volta
anche in teatro in due palchi vicini. E allora si erano guardati
più a lungo del solito, cercando di arrossire il meno possibile.
* *
Passarono sei mesi e le cose erano in questo stato:
Lui sapeva di essere amato, lei era sicura di essere adorata, e
naturalmente ognuno di loro sapeva di amare. Dove però dovesse
finire questo amore nessuno dei due sapeva, e non facevano un
passo innanzi per avvicinarsi l'uno all'altra.
L'unica corrispondenza consisteva in ciò, che quando Emma
vestiva per più giorni di un dato colore, Enrico compariva alla
finestra con una cravatta della stessa tinta.
Un giorno però Enrico si alzò pieno di coraggio. Si sentiva un
eroe e voleva approfittare subito di quell'eroismo, che poteva
esser fuggitivo.
Escì di casa, comperò un mazzolino di mammole doppie, e dopo
averlo circondato di una foglia di stagnuola vi chiuse una
pietruzza e un bigliettino con queste sole parole: _Enrico alla
sua adorata Emma_.
Poi, dopo aver veduto che la finestra di lei era aperta, e che
nessuno guardava da altre finestre, slanciò con quanta forza
aveva il mazzolino nella camera di lei.
Se non che egli tremava tanto e le forze eran tanto pochine, che
il mazzetto cadde sul marciapiedi e un monello che passava di là
in quel momento, lo raccolse e lo portò via.
* *
Fu tale lo spavento del povero Enrico di aver compromesso la sua
Emma con quell'atto temerario, che per più giorni non si
affacciò più alla finestra, con grande sorpresa e grande dolore
di lei, che ignorava i motivi di quell'assenza insolita.
Intanto lei si innamorava ogni giorno più.
Non solo amava lui, perchè lo trovava più bello, più simpatico,
più intelligente di tutti gli altri uomini; ma amava gli
studenti di medicina e i medici, perche avevan dei rapporti con
lui.
A tavola, nelle conversazioni della sera, trovava sempre modo di
condurre il discorso su argomenti di medicina e voleva sapere
quanti anni durassero gli studii universitarii per conseguire il
diploma di dottore e si informava dei medici, più celebri della
città e voleva sapere i nomi di tutti i professori della Facoltà
medica.
Questa sua insistenza dava negli occhi alla famiglia, e nessuno
poteva darsene ragione, non avendo il menomo sospetto sulla
presenza dello studentino di faccia. Un giorno a tavola il babbo
ridendo ebbe a dirle:
--Ma vorresti forse studiar medicina? Bada che sei troppo
vecchia per incominciare gli studii universitarii.
Quando Emma esciva a passeggio colla mamma o con qualche amica
si fermava sempre davanti alle botteghe di strumenti chirurgici
e li guardava con affettuosa curiosità, pensando che Enrico li
avrebbe maneggiati e chi sa con quale perizia, salvando la vita
a chi sa quanti infelici.
Nella vetrina dei librai cercava i volumi che trattavano di
medicina, e benchè non ne capisse neppure il titolo, li guardava
e li riguardava con affetto.
Erano anche quelli cose del suo Enrico e già sognava di vederli
sul suo tavolo, quando sarebbero vissuti insieme e lei si
sarebbe messa accanto a lui col lavoro fra le mani, mentre egli
allo scrittoio stava studiando.
Sì, egli studiava, ma ad ogni tratto levava gli occhi dal suo
libro e la guardava teneramente negli occhi e le sorrideva e poi
e poi le dava un bacio; un bacio come quello famoso, che aveva
veduto dare dal cugino alla cugina, là sullo sportello del
vagone.
* *
Oh perchè mai non si possono conservare per l'autunno dell'età
adulta, per l'inverno della vecchiaia, tutti quei fiori, che ci
sorridono sul capo, fra i piedi, che ci accarezzano il volto da
ogni parte, quando attraversiamo la primavera della giovinezza?
Almeno di quelli che fioriscono nei giardini e nei campi i
profumieri sanno distillarci essenze, che si chiudono in
barattoli, e che di lontano ci richiamano il prato e il
giardino; ma di quelli altri fiori, che si chiamano l'innocenza,
l'amore, la spensieratezza, che sorridono e imbalsamano l'aria,
chi ci serba l'essenza? Di quei pianti senza dolore, di quelle
lagrime senza amarezza, che brillan nell'alba della vita, come
gocciole adamantine di rugiada e che così facilmente si
alternano colle sonore e squillanti risate, qual fonografo ci
serba le delizie e gli incanti?
Non rimpiangiamo l'impotenza del profumiere e del
fonografo!--Nulla muore di ciò che nasce, e solo gli atomi
nell'eterna ridda d'una vita che non posa mai, mutano forme e
armonie. I fiori della primavera si dissolvono nella terra, che
alimenta gli uomini, e nuove giovinezze succhiano gli umori dei
nostri petali avvizziti; mentre lentamente matura il frutto sul
nostro ramo invecchiato.
* *
Quanti di quei fiori s'aprivano e s'avvizzivano l'un dopo l'altro,
alternandosi in una continua festa nell'anima giovinetta di Emma!
Essa non li numerava, perchè eran troppi, e mentre ne coglieva
uno, cento e cento altri sbocciavano e se ne empiva le mani e il
grembo e se ne incoronava il capo e vi cacciava dentro la
testolina innamorata, nascondendo nel seno i più preziosi e i
più cari.
Non aveva mai parlato a Enrico, non ne aveva neppur udito la
voce,--e l'amava. Enrico era giovane ed era un uomo!
Non ne conosceva il carattere nè il pensiero. Avrebbe potuto
essere un farabutto o un imbecille; e l'amava; ma Enrico era
giovane ed era un uomo!
Sapeva lei, se Enrico avrebbe compreso le astruserie isteriche
del suo cuore, sapeva lei se egli intendeva i palpiti della
gloria, le tenerezze della pietà, le sante fratellanze del
dolore?
No, davvero; ma Enrico era un giovane ed era un uomo.
Come non poteva, come non doveva essere buono e intelligente e
caldo dì tutti gli entusiasmi, se essa lo amava? Se essa
sentiva, che quell'uomo era cosa sua, era carne della sua carne?
Se essa lo indorava tutto quanto, irradiandolo con un'aureola di
tutti i suoi sogni, di tutti i suoi desiderii, che per tanto
tempo avevano sognato e desiderato invano!
Anche la rondine, dopo i lunghi suoi voli, dopo aver saettato
l'aria per ore ed ore, posa un istante sopra un filo, dove
adagia voluttuosamente la sua lunga stanchezza.
E così Emma posava i suoi voli affaticati lungamente nel vuoto
del desiderio sopra un filo. Quel filo era Enrico.
Pensa forse la rondine, se il filo su cui posa è sicuro o sarà
travolto? bada forse se è di canape o di ferro, d'oro o di
stoppa?
E così è il primo amante, su cui la fanciulla posa la stanchezza
dei suoi lunghi desiderii.
* *
Emma soprattutto avrebbe voluto soffrire per lui.
L'uomo, nella donna che ama, vede e sogna e cerca sempre la
voluttà.
La donna vede e sogna e cerca il sagrifizio, la dedizione tutta
e intera di sè a lui.
Quante volte sognava di vederlo cadere per la via travolto da un
cavallo o da una carrozza! O lo vedeva assalito da un assassino,
sull'orlo di un precipizio....
Ed ella allora, rotto ogni rispetto umano, avrebbe avuto il
diritto di correre a lui, di sollevarlo caduto o ferito, di
asciugargli il sangue, di posare la sua testa adorata nel
proprio grembo, dì curarlo e di guarirlo.
Ma anche il fargli da infermiera gli pareva troppo poco e
avrebbe desiderato un accidente impossibile, in cui ella potesse
col proprio pericolo, anche col sagrifizio di sè stessa salvar
lui; e morendo per lui, sentirsi ringraziare e potergli dire:
--Vedi, anima mia, io muoio per te. Dammi un bacio, il primo e
l'ultimo....
E morire sotto quel bacio, esalando la vita per lui e
disciogliersi nell'infinito colla certezza di rivedersi in
cielo.
* *
Invece di tutti questi sogni, un mattino dalla finestra aperta
entrò un involtino pesante, che cadde sul tappeto.
Prima di raccoglierlo, Emma corse alla finestra, sperando di
vedere di faccia chi, aveva gettato quel proiettile innocente.
Invece egli era già scomparso.
Allora essa si gettò sull'involtino, ma tardò assai ad aprirlo.
Aveva forti palpitazioni di cuore; aveva paura e curiosità;
impazienza di sapere e paura di commettere un peccato.
Quell'involtino era per lei una cosa viva e nello stesso tempo
un corpo di delitto. Non dubitava un sol momento chi lo avesse
lanciato e perciò appunto credeva, che fosse un peccato
l'aprirlo; perchè essa sapeva un'altra cosa, cioè che in
quell'involto c'era una lettera.
Infatti, quando ebbe raccolto tutto il suo coraggio e l'ebbe
aperto, vi trovò una pietra e una lettera chiusa, colle stesse
parole che erano state scritte invano sul mazzolino: _Enrico
alla sua adorata Emma_.
Ma quella lettera non fu aperta. Fu nascosta convulsivamente
nella tasca. E là rimase per tutto quel giorno e la notte
appresso, presa, ripresa, guardata e riguardata contro il sole
per vedere se si potesse leggere qualche parola, senza bisogno
di aprirla.
Quella lettera dormì sotto il cuscino di Emma, ma non dormì lei,
che con quel foglio sotto il capo vegliava in un letargo
convulso pieno di dolci torture e di sogni fantastici.
Quante volte accese il lume, decisa a rompere il suggello per
deliziarsi nel mare delizioso delle cose ignote e per tanto
tempo sognate.
E quante volte spense la candela per resistere alla tentazione
del peccato.
Ma quando alla mattina si alzò stanca, quasi esausta dalla lunga
lotta, corse subito in camera dalla mamma, che era sempre a
letto e gettandole le braccia al collo e piangendo le disse:
--Vedi, mamma, quel giovanotto che abita di faccia a noi, mi ha
gettato dalla finestra nella mia stanza questa lettera.... ma io
la dò a te....
Le mamme, che pure hanno attraversato tutte lo stesso Orto di
Getsemani, e dovrebbero essere esperte del mondo d'amore, quando
si tratta delle loro figliuole, hanno tutte una triplice benda
sugli occhi e non vedono nulla e nulla indovinano.
E anche la mamma di Emma non sapeva nulla di nulla; per cui
cascò dalle nuvole, e afferrando la lettera con impaziente
curiosità, quasi avesse paura che le sfuggisse, la nascose,
ringraziando la buona figliuola della prova di confidenza che le
dava in quel momento:
--Brava, la mia Emma, brava! Grazie.... fa sempre così.
Confidami tutto, senza paura e senza scrupoli. Nessuno ti ama
più di me, nessuno più di me desidera la tua felicità....
* *
Emma non rivide più quella lettera, e la mamma non ne parlò mai
alla figliuola.
Era una lettera d'amore, come se ne scrivono a vent'anni. Pura e
ardente; ingenua come l'ignoranza, calda come la giovinezza.
Nei dieci giorni successivi due altre lettere furono lanciate nella
camera di Emma e anch'esse non furono lette che dalla mamma. E
anch'esse erano come la prima; ingenue come l'ignoranza, calde come la
giovinezza.
CAPITOLO QUARTO.
_La corrispondenza continua.
Compaiono sull'orizzonte due altri pretendenti al cuore di Emma_
Il lettore desidera molto probabilmente ch'io gli dica, che dopo
quelle prime tre lettere lanciate da una finestra all'altra,
ella non ne ricevette altre.
Ma pur troppo, siccome il mio racconto è storia vera, e la
storia ha per primo dovere quello di esser sincera, io devo
dirvi la pura verità, tutta la verità, null'altro che la verità;
come certi testimonii, spergiurando, in una causa da me perduta
perchè ero un galantuomo, dissero davanti al mio pretore.
E la verità è molto diversa da quella supposta o desiderata dal
benigno lettore.
Emma ricevette una quarta lettera, che non riportò subito alla
mamma, come aveva fatto delle prime tre, ma se la nascose in
seno; ben decisa a farle seguire più tardi lo stesso cammino che
avevano seguito le altre.
Ma la lettera lanciata alle dieci del mattino era ancora alle
dieci della sera allo stesso posto, e siccome vi stava bene,
calduccina e lieta di quel roseo nido, tessuto con qualcosa di
meglio che non sieno le paglie e i fuscellini; non aveva voglia
di escirne.
Se non che Emma alle dieci andava a letto e il foglio criminoso
passava dal roseo nido in un altro bianco niveo, ornato di trine
e profumato di giovinezza, ch'era il letto di lei.
Fu messo sotto il cuscino, ma dopo poco passò nelle mani di
Emma, e le mani lacerarono la busta con uno strappo, che pareva
una convulsione.
Tra lo strappo e la lettura passarono molti minuti, dolorosi e
agitati come un'agonia; lunghi come secoli; ma il foglio fu
letto e riletto alla luce tremula della candela con un tremito
degli occhi, delle mani; e soprattutto del cuore della innocente
fanciulla, che aveva così commesso il suo primo peccato.
Quale sarà l'ultimo?
L'ultimo non lo so, perchè in amore conosco il peccato secondo e
il terzo e il quarto e il centesimo; ignoro l'ultimo.
A pochi giorni di intervallo furono lanciate una lettera N.° 5,
una lettera N.° 6. Furono nascoste nello stesso nido roseo della
N.° 4 e lette nello stesso nido bianco; ma non ebbero risposta
per parte di Emina.
Ma la N.° 7 ebbe una risposta e da quel momento le linea
telegrafica, che riuniva due cuori, due ingenuità, due amori,
non fu più interrotta.
I peccati però non seguivano la stessa numerazione delle
lettere, avendo sempre una cifra molto minore. Quelle erano al
N.° 20, i peccati erano sempre al N.° 2.
Il primo: ricevere le lettere di un giovane e leggerle senza
portarle alla mamma.
Il secondo: rispondervi.--Veniale il primo, quasi mortale il
secondo. E chi sa fino a quando il terzo si sarebbe fatto
aspettare, navigando i due colpevoli sempre nelle acque azzurre
dell'Oceano senza mai toccar terra!
* *
Intanto fra i molti visitatori della casa erano comparsi due
nuovi uomini, che si erano quasi nello stesso tempo innamorati
di Emma.
Essa però non se n'era accorta, perchè malgrado le lettere
ricevute e risposte, serbava sempre una grande innocenza, e
perchè i due pretendenti al suo cuore erano timidissimi, il
primo essendo molto giovane e molto scienziato, il secondo
essendo molto brutto e molto vecchio. Il primo aveva 26 anni ed
era l'ingegnere Rinaldini, più uomo di scienza che ingegnere; il
secondo era il marchese di Acquafredda, di 60 anni e tre o
quattro volte milionario.
L'ingegnere Rinaldini era destinato a grandi cose, ma nessuno se
n'accorgeva, perchè era troppo timido e troppo modesto.
Timido per temperamento e perchè della società umana non
conosceva che la casa della mamma e la scuola; modesto, perchè
aveva studiato molto e sapeva moltissimo; ma il suo ideale era
così lontano e così in alto da parergli impossibile raggiungerlo
anche con una vita di ottant'anni.
Appena laureato con grandissimo onore aveva subito ottenuto un
posto di ingegnere tecnico nella R. Marina, ed era incaricato
dello studio delle materie esplosive.
Aveva l'ingegno inventivo e fin dai primi mesi aveva scoperto
cose nuove e intraveduto tutta una rivoluzione nel congegno
delle torpedini e dei siluri. Non si era affrettato però a
vantarsi, nè a pubblicare i suoi risultati.
Era timido, era modesto; ma soprattutto non era impaziente.
L'impazienza è dei deboli.
Ora in congedo da Spezia, dove aveva il suo ufficio, si trovava
in vacanza a Firenze, dove la mamma lo aveva spinto a entrare in
società.
"Tu hai bisogno di riposarti (gli aveva detto) dei tuoi studii e
devi conoscere il mondo, in cui devi vivere e che tu ignori
affatto. Non sei solamente un ingegnere, ma un uomo."
E il Rinaldini aveva ubbidito, non direi a malincuore, perchè
sentiva anch'egli il bisogno di vedere e conversare in un mondo
per lui nuovissimo e sentiva una grande curiosità di trovarsi
con persone d'altro sesso.
Vide Emma e se ne innamorò lì per lì, come colpito da quel
famoso _coup de foudre_, per il quale psicologi e romanzieri non
hanno trovato una parola migliore.
Per lui, con un'ingenuità indegna del suo tempo, amare e sposare
erano sinonimi: ma come aspirare alla mano di una fanciulla
bella, colta e anche ricca? Egli, che non aveva che la sua
professione e una modestissima agiatezza da parte della sua
famiglia?
Ma d'altra parte, come rinunziare a quell'amore, che aveva
occupato tutto il suo cuore e subito, dilagando senza ostacoli
in quell'anima così vergine?
Dopo averla veduta la scienza non gli bastava più e parevagli
che la scienza con Emma sarebbe il paradiso in terra, senza di
lei una landa sterile, arida, un deserto senza oasi.
Sembrandogli il suo amore un'utopia aveva provato a tenersi lontano
dalla casa di Emma, preparandosi poco a poco a ritirarsene del tutto.
E con sforzi dolorosi riuscì a non visitarla per tre giorni di
seguito, ma non potè giungere al quarto e quell'assenza non servì che
a una cosa sola: a persuaderlo che ormai l'amore per Emma e la vita
erano per lui una cosa sola. E per ricompensare quasi i dolori di
quella sua lunghissima assenza ora egli andava ogni giorno da lei, e i
genitori lo festeggiavano e parevano felici della sua assiduità.
Soprattutto il padre, che, come uomo di scienza anche lui, aveva
subito pesato il valore di quel giovane.
Emma era sempre cortese con lui, sempre alla stessa maniera e
null'altro che cortese.
Invece nel Rinaldini l'amore cresceva ogni giorno, e ormai a
furia di dilagare, aveva innondato ogni fibra di lui, penetrando
nei più sottili meandri della sua vita. Non aveva più nulla da
occupare al di dentro. L'alveo del fiume era pieno; e la piena
doveva condurre all'innondazione.
Pareva che in questo caso straripando l'amore avesse dovuto
manifestarsi al di fuori. Nel linguaggio volgare ciò si chiama
dichiarazione d'amore.
Ma la dichiarazione non veniva mai; e tutta la corte, che
l'ingegnere faceva alla sua Emma, si risolveva in sguardi
continui, ardenti, penetranti come lama di Toledo; terribili
come fulmini o teneri come tepori del sole di maggio.
Tutti quelli sguardi non penetravano nulla, non bruciavano
nulla, non intenerivano nulla. Si perdevano nello spazio,
confondendosi insieme a tutte quelle energie planetarie, per le
quali nè fisici nè chimici, hanno ancora trovato l'equazione di
equilibrio.
Non andavano però perduti per l'occhio vigile e affettuoso della
mamma di Emma, che dopo pochi giorni s'era convinta, che
l'ingegnere era innamorato della sua figliuola. E di ciò era,
come il babbo, felicissima. Non le pareva possibile trovare per
la figliola un giovane più prezioso, che le fosse compagno per
tutta la vita.
D'una cosa sola si stupiva assai ed era che Emma non si
accorgesse di quell'adorazione silenziosa del Rinaldini e che
non glie ne avesse parlato.
Un giorno però ella non potè più tacere e a bruciapelo le
domandò:
---Che ti pare dell'ingegnere?
--Del Rinaldini?
--Sì, proprio di lui. Nessun altro ingegnere viene in casa
nostra.
--Uhm.... mi pare che sia un bravo giovane.... molto studioso,
molto timido.
--No, voglio dire se ti piace, se ti è simpatico.... se lo trovi
bello.
--Non ci ho mai pensato, cara mamma.... Lo trovo un bel giovane,
sì; piacente come tanti altri....
Essa aveva detto tutto questo senza arrossire, con un'aria di tanta
indifferenza da lasciare addolorata la mamma, che avrebbe desiderato
in vece una tutt'altra risposta, magari una confessione di cose quasi
gravi... tanto da aver bisogno dell'assoluzione materna.
Rimase parecchi minuti senza parlare. Era piena di stupore e
amareggiata da un grande disinganno....
Dopo tutto quel silenzio, per quel giorno la conversazione
terminò con un gran sospirone della mamma e con un:
--Quanto sarà felice la donna che diverrà la moglie
dell'ingegnere Rinaldini!
Nè il sospirone nè le parole materne commossero il cuore di
Emma.
Essa pensava che aveva in quel momento nel nido di rose una
lettera di Enrico e che quella sera passando nel nido bianco,
essa avrebbe goduto un'ora di ineffabile voluttà, leggendola a
centellini, divorandola d'un fiato....
* *
Il marchese di Acquafredda era l'altro innamorato di Emma.
Un uomo su cui nessuna lingua, fosse la più maledica di questo
mondo, avrebbe potuto sfogare la sua malignità. Non era
libertino, non era bevitore, non era giuocatore.
Ma nello stesso tempo nessuno avrebbe saputo dirne bene. Era
l'uomo più incoloro, più inodoro, più _insaporo_, come diceva il
mio Professore di storia naturale, parlando del diamante. Era
buono, perchè non aveva mai rubato nè assassinato, perchè faceva
delle opere di carità....
Del resto un vero zero umano. Erede di una gran fortuna, non
l'aveva nè accresciuta nè diminuita d'una lira. Badava alle sue
terre, alle sue case; leggeva i libri alla moda, andava
nell'estate ai bagni o alla montagna, frequentava i teatri e le
conversazioni; viveva.
Dei suoi amori giovanili nessuno sapeva nulla. Non era galante,
ma neppur scortese colle signore. Aveva da molti anni in casa
una bella cameriera, che faceva anche un po' da maggiordomo e
che forse aveva risolto per lui il gran problema dell'amore, che
tormenta tante migliala di uomini, che semina per le strade
della vita tanti feriti e tanti morti.
Insomma il marchese di Acquafredda era, per dirla col linguaggio
di moda, un _uomo perbene_.
Giunto però ai sessant'anni, molto ben conservato, con tutti i
suoi capelli che non tingeva, con tutti i suoi denti, che eran
proprio suoi; aveva pensato che, non avendo nè nipoti, nè
cugini, nè altri parenti lontani che portassero il suo nome,
avrebbe dovuto prender moglie e avere un erede, che non
lasciasse morire il nome e il blasone dei marchesi di
Acquafredda.
Era vecchiotto, ma era sano e arzillo, e scegliendosi una sposa
povera o appena agiata, avrebbe potuto coi suoi milioni gettati
sulla bilancia del matrimonio far equilibrio alla giovinezza e
alla bellezza di una fanciulla, che gli fosse piaciuta.
Ed egli si era innamorato di Emma. Dico innamorato, perchè egli
stesso adoperava questa parola, parlando a sè stesso nei
soliloqui della notte; quando nel silenzio della solitudine
correggeva le bozze della vita quotidiana.
Non avendo pensato a prender moglie prima d'allora, non aveva
badato mai alle signorine, e quella era la prima a cui dirigeva
gli occhi amorosi con intenzioni oneste sì, ma alla sua età
alquanto temerarie.
Quegli occhi erano sempre coperti da due grandi occhiali d'oro e
attraverso a quelli passavano sguardi di diversa natura; ora
teneri, ora appassionati; qualche volta anche concupiscenti.
Fossero però quegli occhialoni d'oro o i capelli bianchi, che
erano tanto vicini ad essi, gli sguardi del marchese nè ferivano
nè incendiavano, e neppure vellicavano la pelle di Emma.
Agli sguardi tenevano compagnia dei fiori, dei dolci, dei libri,
omaggio dell'adoratore all'adorata. Questa accettava tutte
quelle cortesie e galanterie come da un babbo, e diceva spesso:
--Che buon uomo è quel marchese di Acquafredda!
I due amori dell'Ingegnere e del Marchese camminavano, con
diversa velocità, ma paralleli l'uno all'altro.
Quello del Marchese correva assai più lesto, perchè i vecchi son
sempre impazienti e perchè la timidezza eccessiva rallentava il
passo all'Ingegnere.
I giovani però, anche i più timidi, sanno saltare, ciò che i
vecchi non sanno, e possono in un giorno riacquistare il terreno
perduto in un mese.
Non so se il Rinaldini spiccasse il salto o altro avvenisse di
nuovo.
So però che un giorno essi si incontrarono allo stesso punto.
Il marchese di Acquafredda con una lettera modestissima chiedeva
al padre di Emma la di lei mano.
E proprio nello stesso giorno l'ingegnere Rinaldini, trovandosi
alla sera solo con lei nel salotto nel vano d'una finestra,
chiese con voce tremante ad Emma, se vorrebbe dividere la vita
con lui.
Emma rispose con tutta calma:
--Per ora non voglio maritarmi.
Quanto al padre di Emma, devo dirvi, che lesse la lettera del
Marchese con grande stupore e la passò subito alla moglie.
Non so cosa dicessero tra di loro e come commentassero quella
strana domanda. So però che un tragico avvenimento piombò su
quella casa fin allora così serena e felice.
Il dottore, partito da Firenze per un consulto a Modena, era
morto in vagone fulminato da un'apoplessia.
Vi risparmio la storia del dolore di quella famiglia.
I due pretendenti, che avevano fatto in diverso modo la loro
domanda, presero parte a quel dolore, per nulla stupiti di non
avere risposta.
Quanto ad Enrico, seguitava a scrivere dalla sua finestra
prendendo la sua terza parte nel dolore di una famiglia, che
considerava come sua.
CAPITOLO QUINTO.
_Il dilemma, anzi il trilemma.
La fanciulla si consulta con un'amica e colla mamma._
Erano passati tre mesi, e la mamma di Emma, volendo distrarre la
sua figliuola da un dolore, che il tempo non riusciva ancora a
calmare, le disse un giorno a un tratto:
--Sai, tesorino mio, voglio farti ridere....
--Sarà difficile, mamma....
--Il marchese di Acquafredda ha chiesto la tua mano....
--Impossibile! In questi giorni? Non rispetta neppure il nostro
dolore? Non pensa all'anno di lutto, che per me durerà tutta la
vita?
--No, non è in questi giorni ch'egli ha fatto la sua domanda, ma
poco prima che morisse tuo padre.
--Ah! Tanto meglio! Avrei subito perduta la stima che io sentiva
per lui.... Ma il Marchese ha almeno settant'anni.
--No, ne ha sessanta e per verità non li dimostra neppure....
--Sian pur sessanta, son sempre molti. Ma dacchè tu mi hai fatta
questa confidenza, io te ne farò un'altra.... Pochi giorni prima
della morte del mio povero babbo, mi ha offerto la sua mano
l'ingegnere Rinaldini.
--Davvero? E tu che cosa gli hai risposto?
--Che per ora non voglio maritarmi.
--Non ti piace?
--Non ho mai pensato a lui....
--Emma, sii sincera con me. Tu mi hai sempre confidato i
pensieri più segreti del tuo cuore: confidami anche questo. Non
avresti simpatia per il giovane Enrico, che vive di faccia a
noi?...
Emma arrossì fino ai capelli.
--Tu lo ami,--riprese subito la mamma con impeto.--L'ho veduto
affacciarsi tante volte alla sua finestra, e fuggiva via, quando
si accorgeva che io lo guardava. Spero bene che tu non lo avrai
incoraggiato in questo suo amore. Sarà un bravo giovane, non lo
dubito, ma è ancora uno studente dell'Università....
--Mamma, mamma mia, son troppo triste ancora per pensare al
matrimonio. Se me lo permetti, lasciamo questo discorso. Lo
riprenderemo fra qualche mese.
Emma aveva pronunziato queste parole con uno strazio così
profondo dell'anima e insieme con tanta risoluta energia, che la
mamma, che era di carattere molto debole e debolissima colla sua
figliuola, tacque e mutò discorso.
Quando però la fanciulla si ritirò nella sua cameretta, si sentì
come travolta da un turbine, come trascinata in una ridda
infernale, in cui tutto girava intorno a lei e si sentiva come
costretta a girare anche lei.
In quel vortice essa vedeva turbinarle intorno ora Enrico, ora
il Marchese, ora il Rinaldini, che allungavano le braccia verso
di lei, come se volessero rapirla.... Due uomini a un tempo
l'avevano chiesta in isposa, e un terzo, senza aver fatta la
stessa domanda, l'amava, l'adorava, e lei amava lui....
Quella notte essa non dormì che qualche ora e il sonno fu per
lei più agitato e più tormentoso che la veglia. Sentiva che al
mattino avrebbe dovuto correr dalla mamma, confessarle l'amor
suo per Enrico e pregarla a voler rispondere collo stesso
monosillabo di rifiuto al Marchese e all'Ingegnere.
Ma non ne aveva il coraggio. Essa avrebbe dovuto confessarle
anche la sua corrispondenza clandestina; i suoi due peccati, che
non si era perdonati ancora e che giorno e notte le stavan
infitti nella coscienza, come due freccie avvelenate.
No, no: non lo avrebbe mai fatto. Perdere a un tratto la stima della
mamma che l'adorava, che la credeva infallibile, impeccabile. No, no,
ella tacerebbe ancora e sempre.
Ma il suo cuore traboccava: i segreti che vi teneva rinchiusi la
soffocavano, la uccidevano, e a chi confidarli?
Essa non aveva che un'amica, Maria, con cui aveva studiato, a
cui aveva tutto confidato, benchè le fosse maggiore di qualche
anno; ma essa si era maritata da due anni ed era andata a vivere
a Perugia.
Da principio Maria le aveva scritto due o tre volte per
settimana. Erano lettere inebbrianti, che le parlavano della sua
grande felicità. Poi le lettere erano divenute più rare e più
fredde, finchè ora da un pezzo non ne riceveva più.
Come vederla, come scriverle? Il suo segreto era di quelli, che
si posson confidare solo da labbro a labbro, confondendo i
fiati, e intrecciando le mani; interrompendo spesso il discorso
colle lagrime e coi baci.
Ma ecco che inaspettatamente Emma riceve per la posta un
biglietto con queste parole:
_Amica del mio cuore_,
Domani lascio Perugia per qualche
giorno e sarò da te verso sera. Apri
grandi le braccia per stringermi al tuo
cuore. Ho bisogno di molta indulgenza e
di molta pietà. La tua
MARIA.
E il giorno dopo Maria era nelle braccia di Emma e per molti
minuti non si poteron parlare; tanti erano i baci e tante le
lagrime che si rimandavano a vicenda.
Emma, che era felice di confidare il gran segreto all'amica,
trovava che lei era venuta per affidargliene un altro e molto più
triste.
Maria era infelice, sommamente infelice. Aveva sposato contro il
volere dei suoi, contro il consiglio di tutti, un giovane
studente (sì studente anche lui come Enrico) che però non
studiava niente e che per di più apparteneva a una famiglia
povera e disonesta.--Era bello, molto bello, e Maria l'aveva
sposato, credendo che la bellezza e l'amore, che sentivano l'un
per l'altro, sarebbero bastati a farli felici.
Per forzare la mano ai genitori Maria s'era compromessa tanto da
obbligarli al consenso del suo matrimonio ed essi le avevano data
la piccola dote che le spettava.
Il giovane era di Perugia e là erano andati i due spensierati,
anche perchè in quell'Università egli avrebbe potuto continuare i
suoi studii e laurearsi; ma invece abbandonati a sè e al loro
amore avevano in un anno assottigliato della metà il loro piccolo
capitale e si erano trovati senza quattrini e quel ch'è peggio
senz'amore.
Le strettezze economiche avevano inasprito il carattere volgare e
vigliacco del marito; ed egli trovava ogni giorno un pretesto per
far delle scene alla sua compagna. Era lei, che amava il lusso e
non sapeva dirigere la casa: era lei, che li aveva rovinati....
L'amore fisico li riconciliava talvolta; ma le crudeli torture
della miseria facevano durare ben poco il cielo sereno in quella
casa, dove scene e lagrime si succedevano come il vento e la
pioggia in un mese di marzo, che non finisse mai.
Era una vita d'inferno quella che passava a Perugia la povera
Maria, ed essa era venuta a Firenze per confortarsi coll'amica
Emma e chieder consiglio ai genitori.
* *
Quando Maria ebbe finito, cominciò Emma e brevemente le espose il
suo caso di coscienza.
Maria non la lasciò neppur finire, perchè, con una strana
violenza, le disse:
--Emma, sposa subito il marchese di Acquafredda.
--Ma io non lo amo, ma egli ha sessant'anni....
--Che importa? Che importa? Ha dei milioni e ti farà felice.
Avrai una carrozza, ville, bagnature.... viaggerai. Egli dovrà
farsi perdonare troppe cose, per non esser teco il più cortese
cavaliere di questo mondo e farà sempre quel che tu vorrai....
Per carità, segui il mio consiglio, sposa il Marchese.... E poi,
e poi non ci pensi? Diventi, una marchesa anche tu; avrai sulle
tue carrozze, sui tuoi fazzoletti, da per tutto una corona
fiorita. Anche questo è bello!
--Maria, tu fai la celia, tu ti ridi di me. Lo sposeresti tu, se
fossi ancora ragazza?
--Certamente, e subito, avesse anche settant'anni!
--Maria, tu mi fai orrore. Non la pensavi così, quando nel
collegio parlavamo del nostro avvenire nei fidati colloquii della
notte....
--Sì, mia cara, allora io aveva ancora molta poesia nel mio
cuore, allora io credevo, che non si potesse e non si dovesse
sposare che un uomo che si amasse. Allora credevo, che il
matrimonio senza amore era una prostituzione, che l'amore
bastasse per farci felice. Ma ora, ora dopo due anni di
tristissima esperienza, penso proprio tutto il rovescio.
Ho sposato un bel giovane, che diceva di adorarmi e me lo
dimostrava con un delirio di carezze senza nome, che mi facevano
vedere il paradiso in terra. I miei parenti si opposero invano,
mostrandomi i pericoli del mio divisamento. Non volli udir
ragioni. Io sentivo che senza Antonio sarei morta. Minacciai di
fuggire con lui e non credettero alla mia minaccia.
Fuggii davvero e dovettero lasciarci sposare....
Il paradiso durò due mesi, il purgatorio un anno, ed ora sono
nell'inferno; in un inferno terribile, che mi fa la più infelice
delle donne.
Credilo a me. Gli uomini, quando non ci sposano pei nostri
quattrini, ci vogliono pei loro piaceri, e una volta che ci hanno
avuto, si annoiano. _Toujours perdrix, toujours perdrix!_...
L'adorazione nei casi migliori, cioè quando tu sposi un
gentiluomo, diventa amore, poi amicizia, poi un'abitudine
monotona, che si infiora con qualche cortesia quotidiana, per non
parere....
E poi, stammi a sentire. Se tu sposi Enrico, sarai povera e la
povertà nel matrimonio è l'inferno. Non vi è amore, che resista
alla lotta quotidiana colle necessità della vita. Io ho già due
figliuoli e per essi sento che la miseria, che io avrò loro
imposto col mio matrimonio, è un delitto, di cui io, io sola sono
la colpevole. Tu non puoi immaginarti quanto veleno ci sia nella
povertà, che si soffre in tre, in quattro; sotto il tetto di una
casa angusta, misera. Tu non puoi capire quanto inferno possa
essere chiuso in un conto della sarta, che non si può pagare,
nell'angoscia del pensiero di dover pagare fra pochi giorni il
semestre della pigione. E se poi hai un marito, che coll'energia
della volontà e coll'onnipotenza dell'ingegno non sappia lottare
e vincere e portar fuori la moglie e i figli dal pantano, tu
incominci a sprezzarlo e ad odiarlo. E tu, poveretta, senti tutta
l'impotenza di esser donna e di non potere col proprio lavoro
dare alla famiglia l'agiatezza.
Io, vedi, son diventata cattiva. Quando porto a spasso i miei
bambini mal vestiti e vedo quelli dei miei vicini scarrozzare
nella loro piccola vettura condotta da una balia bella e
riccamente vestita, soffro e bestemmio entro di me, contro di me
e contro tutti.
No, no, Emma, sposa il marchese di Acquafredda.--
Emma taceva, e si asciugava gli occhi innondati di lagrime. Il
dolore dell'amica era troppo crudele, era troppo disperato,
perchè non scendesse anche nel suo cuore.
Finalmente potè parlare colla voce interrotta dal singhiozzo.
--Maria, in te parla l'ira figlia del tuo dolore. Tu parli
cinicamente, perchè sei disperata; ma io non posso credere, che
sii divenuta cattiva, perchè sei infelice.
Quanto a me, se la mamma non mi lasciasse sposare Enrico, accetterei
la mano dell'ingegnere Rinaldini, non mai quella del marchese; per
quanti blasoni e milioni egli potesse offrirmi. Se la miseria uccide
l'amore, la ricchezza senza amore non lo può uccidere, perchè l'amore
non c'è; ma non deve darci che una vita insopportabile.... Tu almeno
hai amato e hai goduto due mesi di paradiso; io sposando il Marchese
non ne avrei neppure un'ora....--
Le amiche parlarono ancora a lungo, ma si lasciarono colle stesse
parole con cui la loro triste conversazione era incominciata.
--_Sposa il Marchese_....
--_Giammai!_
* *
Per molti e molti giorni madre e figlia non parlarono dei due
pretendenti, nè di Enrico; ma un mattino, mentre Emma era ancora
a letto, la mamma entrò a darle il buon giorno, e baciandola
aveva un'aria solenne e triste, che non era solita in lei.
--Mamma, che cos'hai questa mattina? Ti senti male?
--No, figliuola mia, ho un piego suggellato da consegnarti e che
ho trovato nello scrittoio di tuo padre, subito dopo la sua
morte, ma che ti do oggi soltanto, perchè prima d'ora ti avrebbe
dato forse una scossa troppo forte.
E la mamma, deposto un piego sul tavolino da notte di Emma, escì
per nascondere l'emozione che la faceva piangere.
Emma, commossa anch'essa, prese l'involto e vi lesse:
_Alla mia Emma.
Da consegnarle dopo la mia morte._
Essa ruppe i sigilli, e trovò che l'involto ne conteneva un
altro, su cui era scritto:
_Consigli di un babbo alla sua figliuola per la scelta del marito._
E che cosa vi fosse scritto lo vedrà il benigno lettore, se vorrà
darsi la pena di continuare la sua lettura.
PARTE SECONDA.
IL MANOSCRITTO DEL BABBO.
_Consigli di un babbo alla sua figliuola per la scelta del marito._
Mia adorata figliuola, tu leggerai da sola e forse con qualche
lagrima negli occhi queste pagine, che ho scritte anch'io nella
solitudine, anch'io piangendo e pensando a te.
Dio volesse che tu non le avessi a leggere! Vorrebbe dire che io
son vissuto abbastanza per vederti sposa felice; vorrebbe dire
che io ti ho potuto dare i miei consigli a viva voce.
Ma io son medico e so di avere in me una malattia che non
perdona. Potrei da un momento all'altro sparire dal mondo e
voglio che la mia voce mi sopravviva e ti aiuti nell'ora più
importante della tua vita, quando avrai a scegliere colui, che
deve essere il tuo inseparabile compagno, che deve essere il
padre dei tuoi figli.
Promettimi di non impegnare la tua parola prima di aver letto tre
volte queste mie pagine, alla distanza di una settimana una volta
dall'altra.
* *
L'uomo innamorato è d'oro, finchè non gli hanno detto di sì,
diventa d'argento quando gli hanno detto di sì; diventa di rame,
quando da pretendente è divenuto marito.
* *
Ciò vale per la più parte degli uomini. Vi sono però alcuni pochi
eletti, che sono d'oro prima e d'oro poi; sempre. Tu mia
figliuola devi saper trovare uno di questi.
* *
Fra i moltissimi, che cambiano il loro metallo nelle diverse fasi
della loro carriera amorosa, ve ne sono alcuni, nei quali il
metallo è sempre vile. Prima è rame dorato, poi _cristofle_, poi
piombo.
* *
Per conoscere questi fabbricatori di monete false non occorre che
ti dia consigli speciali. Tu hai, figliuola mia, un cuore d'oro e
uno spirito acuto d'osservazione e ogni donna, se non è affatto
stupida, ha in sè la preziosa pietra di paragone, che ci insegna
a distinguere l'oro dal rame, l'argento dal piombo.
* *
Un oggetto anche ben dorato col lungo uso si smussa sugli spigoli
e mostra a nudo il vil metallo che vi sta sotto.
Il tempo consuma anche l'ipocrisia; affidati ad esso come la spia
migliore delle falsificazioni.
Lo spigolo, che più presto degli altri consuma l'ipocrisia, è la
vanità. Guardalo sempre e scoprirai il vero dal falso.
* *
Mostrati indifferente alle più calde dichiarazioni. Se l'amor
proprio del pretendente è più forte dell'amore, egli si
raffredderà. Se invece l'amore è più forte dell'orgoglio, egli si
innamorerà sempre più.
* *
I mariti si dividono tutti quanti in due grandi categorie, i
_buoni_ e i _cattivi_.
I buoni son tutti compagni. Amano la moglie sopra ogni altra
creatura, l'amano più di sè stessi e il loro primo pensiero è
quello di farla felice.
Cercano la ricchezza, l'onore, fors'anche la gloria; ma sempre
per intrecciarne una corona intorno al capo della donna amata.
Nè comandano, nè ubbidiscono, perchè non si sentono nè superiori
nè inferiori alla loro moglie; ma eguali. Discutono insieme a lei
i grandi e i piccoli problemi della vita, e finiscono sempre per
venire alla stessa conclusione.
Hanno sempre sullo scrittoio, in tasca, da per tutto un unico
suggello per chiudere i loro segreti, per raffermare le loro
decisioni. Questo suggello è un _bacio_.
Questi mariti ridono sempre, quando senton parlare di _luna di
miele_. Nel cielo del loro matrimonio non hanno mai veduto luna,
nè di miele, nè di fiele. Sul loro capo brilla sempre il sole, un
sole che non scotta, ma riscalda; che non brucia, ma illumina; un
sole che non tramonta mai.
* *
Insomma, cara figliuola mia, non occorre che io ti descriva più
oltre i mariti buoni. Per dirlo con una frase degna di Monsieur
la Palisse, ma vera come la verità.
_I mariti buoni sono quelli, che fanno felici le loro mogli,
facendo felici sè stessi._
* *
I mariti cattivi sono i più e sono di molte e diverse specie.
Eccoti le principali:
_Mariti tiranni.
Mariti deboli.
Mariti gelosi.
Mariti brontoloni.
Mariti avari.
Mariti libertini.
Mariti stupidi.
Mariti fannulloni_, ecc.; ecc., ecc.
IL MARITO TIRANNO.
In Europa almeno non abbiamo che sulla scena il tiranno antico,
il selvaggio incoronato dalla stupidità del gregge umano e che a
un muover di ciglio faceva cader teste, incendiar villaggi,
torturare membra umane.
Il tiranno classico è una specie sepolta negli Archivii della
storia, a un dipresso come i mastodonti e i megaterii. Non è la
sola corteccia del globo che ha i suoi fossili: molti più ne ha
la storia umana e molti più ne avrà l'avvenire.
E così come i nostri orsi, le nostre tigri, i nostri armadilli moderni
sono copie in miniatura dei loro padri della paleontologia; così anche
il tiranno antico è scomparso dalla faccia della storia, lasciando
eredi tanti e infiniti tirannucci in sessantaquattresimo, che non
portan più corona, nè scettro, nè scimitarra; ma che esercitano la
loro tirannia col sopracciglio corrugato e la voce grossa; con tutte
le armi costituzionali e levigate della nostra civiltà ben pettinata e
profumata.
Si nasce tiranni, come si nasce biondi o bruni; e chi ha questa
sventura deve esercitare la tirannide, in qualunque strato
sociale egli nasca; qualunque sia l'educazione ch'egli riceve.
Soldato, sarà tiranno come caporale e come colonnello, e la
disciplina militare sarà la patente ufficiale, con cui eserciterà
la sua tirannia. La dimenticanza di un saluto o la poca
lucentezza d'un bottone, l'accento un po' vibrato d'una risposta
saranno sufficienti e facili occasioni per soddisfare questo
vizio dell'anima.
Sottosegretario o capodivisione, usciere o ministro, il piccolo
tiranno moderno avrà sempre qualcuno al di sotto di sè, su cui
sferzare lo scudiscio della propria volontà, a cui lanciare un
calcio della propria tirannia.
Industriale avrà operai, mercante avrà fattorini, proprietario
avrà coloni, proto di stamperia avrà tipografi, direttore di
riviste avrà collaboratori, editore avrà autori, impresario
attori e ballerini.
Dato il tiranno, la vittima non manca; anzi le vittime non
mancano, perchè da per tutto e sempre le pecore sono in numero
molto maggiore dei pastori.
La tirannia più comune però, quella che si può esercitare da
tutti i bipedi implumi di questa terra; che si può soddisfare
impunemente, quotidianamente, in tutte le dodici ore del giorno e
in tutte le dodici ore della notte; è quella del marito sulla
moglie.
Tirannia vigliacca, perchè si esercita dal forte sulla creatura
debole; tirannia sudicia, perchè non esige coraggio, nè
intelligenza, nè coltura; tirannia stupida, perchè è punita non
dalle leggi, ma dalla natura.
Chi semina tirannia in casa, raccoglie corna in casa e fuori:
cambia il miele in fiele e non merita nè compassione, nè perdono,
e neppure le attenuanti, che pur si sanno trovare dagli avvocati
per le maggiori iniquità, pei delitti più atroci.
Eppure vi son molti mariti, che sono tiranni anche amando la
propria moglie, che sono fuori di questo perfetti galantuomini,
cittadini perfetti, padri esemplari.
Essi sentono imperioso, incessante, inevitabile il bisogno di far
sentire alla loro compagna (vorrei dire schiava), che essi soli
sono i padroni di casa, che a loro soli spetta ogni autorità,
ogni diritto di comando, ogni arbitrio del bene e del male.
Dei pronomi possessivi non conoscono che l'_Io_ e il _Mio_,
ignorano del tutto il _tu_ e il _tuo_. Dicono sempre la _mia_
casa, il _mio_ podere, il _mio_ patrimonio, la _mia_ volontà, la
_mia_ opinione, il _mio_ desiderio.
Ignorano del tutto le ascose tenerezze, le ineffabili delizie, le
intime compiacenze del _nostro_; parola che è un nido, in cui la
donna sente di poter appiattarsi, accovacciarsi e nascondersi,
per godervi il tepore della vita in due.
Il tirannucolo domestico non ha nulla di _nostro_, ma tutto è
_mio_. _Mio_ il pensiero, _mio_ il giudizio, _mia_ l'esperienza,
_mia_ la ricchezza. Il _nostro_ è un'infrazione alla disciplina
del matrimonio, un'usurpazione di legittimo diritto: è una
ribellione del suddito al sovrano.
Di queste ribellioni egli solo giudice, accusatore, carabiniere e
birro.
L'assassino ha i proprii avvocati; la moglie non può e non deve
averne. L'infallibilità del marito nelle faccende domestiche,
grandi e piccine, è un dogma, indiscutibile e sacro come quello
dell'infallibilità papale.
In questa forma di tirannia l'ingiustizia, la prepotenza, il
capriccio piglian forme pigmee, associando l'assurdo al ridicolo;
il pretensioso al grottesco.
La donna o si ribella o tace: una cosa peggiore dell'altra.
Se la donna si ribella e si mostra più forte del tiranno, il
marito è vinto e abbiamo una tirannia peggiore della virile, la
femminile. Se le forze si equilibrano, avvicendandosi nelle
vittorie e nelle sconfìtte, abbiamo la guerra in permanenza, come
chi dicesse l'inferno in casa.
Se la donna tace, o perchè molto debole o perchè ipocrita,
distilla dall'alambicco del cuore nel segreto della sua stanza
lagrime amare, che solcano l'anima e coltivano la vendetta; tanto
più feroce e crudele, quanto più lenta e meditata.
Quante volte una donna, che sarebbe morta innocente e pura, ha
disonorato il marito per puro bisogno di vendetta, e in un'ora di
voluttà colpevole e forse falsa, ha mormorato queste parole
feroci dirette a un ben noto indirizzo:
--_Prendi, carino, questo è per te!_
è così facile invece comandare secondo giustizia e secondo
ragione e senza far sentire mai il peso della propria autorità!
Marito e moglie devono discutere, deliberare sempre insieme e
senza che nessuno ubbidisca o comandi.
Nelle questioni poco importanti poi, in quelle, in cui il sì e il
no son tanto vicini da toccarsi e quasi da confondersi, l'uomo
mostra la sua superiorità, cedendo sempre alla moglie, che per
esser donna ha già tante ragioni di umiliazioni e di dolori nella
vita sociale. Essa ci è tanto riconoscente di queste concessioni!
* *
Mia dolce figliuola, se non vuoi avere un marito tiranno, studia
nel profondo gli istinti, le abitudini del tuo fidanzato.
Ti ho già detto che si nasce tiranni, e per quanto egli sia
dissimulato, tu potrai scoprire facilmente nell'impeto prorompente
della sua voce, nei suoi gusti, nelle sue abitudini la tendenza alla
tirannia.
Conosco un'angelica signorina, che già fidanzata a un giovane,
che aveva tutte le apparenze di poterla far felice, ritirò la sua
parola; perchè un giorno il tirannuccio voleva senza alcuna
ragione seria proibirle di fare una visita ad un'amica.
Il leone aveva mostrato l'artiglio, e la fanciulla avveduta se
n'accorse in tempo e provvide saviamente alla propria felicità.
E l'avvenire le ha dato ragione.
IL MARITO DEBOLE.
Il marito debole è un uomo di sesso incerto, in cui il corpo è
maschio e l'anima è femmina. Uno dei tanti errori che commette la
natura, quando sbaglia il posto alle cose; un errore di stampa,
per cui non vi è correttore di bozze che basti.
Il marito debole ha magari il pugno robusto e il pensiero forte,
ma quando si tratta di adoperare queste due forze, non rispondono
all'appello e fanno cilecca. Si pigia, si pigia sul bottone
elettrico della volontà, ma il campanello non suona.
Non parlo del pugno, perchè non scrivo che per la gente educata,
e fra essi il pugno non si chiude che rare volte e per batter
sodo sopra il tavolino; come chi mette un punto d'esclamazione ad
una frase energica, per esempio ad un _Per Bacco_ o ad un _Per
Dio_.
Parlo invece del pensiero, che pensa, ma quando si deve tradurre
in una volontà, il traduttore si gratta il capo, guarda a
mezz'aria, crolla la testa; esita, dubita, oscilla, e dopo un
lungo tentennamento si decide.... a non decidersi.
In quel frattempo fra il pensiero che pensa e la volontà che
tentenna, compare sempre una terza persona, che vuole per noi,
che per noi si decide e ci impone la propria volontà e la propria
decisione.
Ecco l'uomo debole, che finisce a furia di sconfitte a perdere la
propria stima e a farsi compatire da tutti e specialmente dalle
donne, che, pur dicendosi eguali a noi nei diritti (non nei
doveri però), vogliono pur sempre trovare nell'uomo un albero
robusto a cui possano appoggiarsi fidenti e sicure.
Nulla è per le donne più spregevole nell'uomo che la debolezza.
Possono perdonare quella del corpo, non mai quella dell'animo;
tanto è vero che i briganti più feroci ebbero sempre amanti
appassionate; gli uomini di genio, anche vecchi, ebbero donne
innamorate; ma i vigliacchi e i tentennini furono sempre
disprezzati o compatiti.
E tutto ciò è bene: le leggi della natura vogliono essere
rispettate e nessuno può violarle impunemente.
Quando in un matrimonio si invertiscono le parti e la donna è più
forte dell'uomo, essa se ne serve come di uno strumento comodo e
buono a tutto; ma in cuor suo lo compatisce e lo disprezza, e
intanto cerca altrove l'uomo _uomo_, a cui possa dare il corpo e
l'anima; del cui amore possa sentirsi fiera e superba.
La donna superiore si sente umiliata di trovar l'uomo inferiore a
sè stessa e lo tratta, anche nei casi migliori, come si trattano
i bambini, con pietà, con tutti i riguardi, come creatura che ha
bisogno di protezione e di indulgenza.
La donna, quando è stretta fra le braccia di un uomo che ama,
vuol guardare in alto, per trovare il suo sguardo, vuol dover
rizzarsi sulla punta dei piedi per poterlo baciare. Dio l'ha
fatta più piccola di statura di noi, perchè ella possa guardarci
dal basso. Allora gli occhi di lei diventano bellissimi, le
labbra si socchiudono come calice di fiore che beve la rugiada
dall'alto; ed essa esclama felice e fiera:
--_Come sei grande!_
Se invece è lei, che deve abbassar gli occhi, questi si fanno
piccini, da superbi sembrano farsi vergognosi; esprimono
protezione e non ammirazione; tenerezza forse, non mai orgoglio,
e se essa non dice:
--_Oh come sei piccolo!_
è perchè essa è buona e nasconde la compassione, per non renderci
ancor più piccoli di quel che siamo.
Ma se non lo dice, lo pensa, e quel pensiero inaridisce tutte le
più alte aspirazioni dell'idealità femminile, degli entusiasmi
onnipotenti, delle estasi, più care della vita in due.
* *
Il Museo della debolezza è ricchissimo: ci presenta una raccolta
infinita di insetti minuti, brutti, spesso schifosi, di larve
striscianti e quasi invisibili; tutta una collezione di prurigini
senza dolore, di aborti senza vita, di intenzioni senza energia;
tutto un limbo di fantasmi di volontà, di pentimenti senza
riscosse, di peccati senza vendette, di contraddizioni, di
oscillazioni, di paralisi del pensiero.
* *
La moglie non è ancora alzata, che pensa di far cosa gradita al
suo compagno e manda la cameriera da lui per sapere, se non
gradirebbe avere a pranzo un amico giunto ieri da un lungo
viaggio e ch'egli ama assai. Uno dei tanti pensieri delicati, che
germogliano ogni giorno, ogni ora nell'anima delicatissima della
nostra compagna.
Egli risponde subito col sorriso della compiacenza, perchè essa
ha pensato a lui, ma non risponde col labbro che molto tardi.
E la risposta è un _sì_, ma incerto e dubbioso come un punto
d'interrogazione.
E la cameriera non è ancora sull'uscio, che egli si alza e dice:
--Aspetta, aspetta, andrò io dalla signora a portarle la
risposta....
La risposta è un altro punto d'interrogazione accompagnato da una
processione di _se_ e di _ma_. Forse l'amico non gradirà
l'invito.... Deve passare i primi giorni in famiglia; deve
trattare molti affari importanti, ch'egli ha lasciato irresoluti
in patria.... Aspettiamo un altro giorno, se credi....
--Ma io non credo nulla. Volevo invitarlo per farti piacere....
--No, cara, sarebbe forse una gentilezza squisita, ma però....
--Senti, eccoti nelle solite incertezze per un nulla, per
l'invito di un amico a pranzo.... Farai quel che vuoi. Io me ne
lavo le mani.
Per tutto quel giorno il marito non fa nulla di nulla, ma pensa
anche a tarda sera, che forse la moglie aveva ragione e l'amico
avrebbe gradito moltissimo quell'invito.
* *
Un'altra volta si tratta di cosa ben più grave.
La signora è molto bella e giovane e ad ogni passo semina
desiderii e accende scintille.
Un amico di casa ha raccolto tutto un fascio di desiderii e su
lui sembran cadute tutte quante quelle scintille. Dallo sguardo
che accende è passato troppo presto allo sguardo che domanda,
alla parola che implora.... La signora, che è virtuosa, ne
avverte il marito e invoca la difesa.
Ed egli le dà ragione, se ne preoccupa e promette l'intervento
diplomatico prima, armato se quello non basti.
Ma, dopo aver lungamente deliberato sul da farsi, si decide che
lo farà domani.
E il domani viene e troppo presto. Il marito modifica il piano di
difesa e di attacco. Non aveva tutto preveduto, nè a tutto
pensato. Il giorno appresso si difenderà e attaccherà. Ne è
sicuro.
Ma il dì appresso è venuto. è entrato nel salotto, quando l'amico
era da solo a solo colla signora, ben deciso a dire e a fare....
ma egli è entrato ed è uscito. senza aver detto e senza aver
fatto....
E così passano i giorni e le settimane.... La signora non si
lamenta più col marito delle troppe assiduità dell'amico. Il
marito differisce sempre e sempre muta il piano di difesa e di
offesa.
E la moglie sarà frattanto rimasta ancora senza colpa?
* *
I due sposi hanno la sventura di avere un figliuolo, che non
ancora uomo è già corrotto e perverso. Con un'abile ipocrisia ha
saputo mostrarsi sempre corretto in casa, ma un amico svela ai
genitori la sua condotta ben diversa fuori di casa....
La mamma piange, il marito impallidisce e sospira, e poi:
--Spero, che questa volta almeno saprai fare da padre, che saprai
esser forte, che chiamerai tuo figlio, mostrandogli tutto il
nostro sdegno, tutto il nostro dolore.... Sii uomo, per Dio!
Quella brava donnina, religiosa fin nei capelli, non aveva mai
pronunziato il nome di Dio invano. Doveva esser ben forte in quel
momento la sua emozione per averlo fatto.--Forse sperava che la
sua energia per contagio sarebbe passata nell'anima floscia e
tenerella del marito.
Ma questi, asciugandosi una lagrima, non aveva saputo rispondere
che un "_Chi l'avrebbe mai detto?_"
--Ma ormai conviene provvedere, se siamo ancora in tempo....
--Ma sicuro, ma sicuro....
--E cosa pensi di fare?
--Ci penserò, ci penserò; ma oggi non me ne sento il coraggio;
non ne ho la forza. L'emozione è stata troppo forte....
--No, no, non c'è tempo da perdere. Luigi sta per rientrare per
la colazione e tu lo chiamerai subito nel tuo studio e sarai
severo, inflessibile con lui.... forse siamo ancora in tempo....
--Oh Dio mio! Dio mio! Io non ho la forza di sgridare mio figlio.
Lasciami un giorno di calma.... ti prometto....
--Tu prometti sempre e non mantieni mai....
La signora esce sdegnata dalla camera, non senza dire con voce
alta e prorompente:
--Ma quest'uomo non è un uomo!
* *
Figliuola mia, ti risparmio altri quadri della debolezza umana,
perchè son brutti a vedersi, più brutti a descriversi; ma essi
sono infiniti di numero e svariatissimi di forme.
Non sposar mai un uomo debole: quasi quasi ti direi: sposa
piuttosto un uomo tiranno.
IL MARITO GELOSO.
Scommetto, cara fìgliuolina mia, che più d'una volta, pensando al
tuo ideale di sposo futuro, te lo sei immaginato alquanto geloso;
e quasi tutte le donne la pensano come te.
Eppure; l'ho detto e scritto cento volte in vita mia, avete tutte
quante torto marcio.
Si può essere gelosi senza amare e si può amare senza gelosia. A
voi pare, che un uomo, che non diffida della propria moglie, che
non si mostra turbato, se un altro la trova bella e glie lo fa
capire, è un uomo che vi disprezza o non vi cura.
Alcune donne nei loro falsi giudizii giungono a tanto da misurare
l'intensità dell'amore dal grado di gelosia. Uomo non geloso vuol
dire uomo indifferente; uomo geloso, uomo amoroso; uomo
gelosissimo, uomo innamoratissimo.
Non auguro a queste infelici, ch'esse abbiano a trovare un marito
geloso. Sarebbero ben punite dell'errore di quel loro giudizio!
è naturale, che noi tutti cerchiamo di difendere dalle mani
altrui quel che ci è caro; è naturalissimo che noi vogliamo
conservare la nostra dolce compagna dagli artigli e dalle carezze
dei briganti d'amore; ma, se abbiamo stima di lei, dobbiamo esser
sicuri che nessun attacco potrà ferirla e che quando ella
diffidasse delle proprie forze, ci invocherebbe come alleati
suoi.
Ma diffidare ad ogni ora di esser traditi, ma guardare in
cagnesco ogni uomo che si avvicina a lei o le parla o le sorride,
è offenderla senza diritto, è tormentarsi senza ragione; è
avvolgere il proprio nido d'un fumo acre e pungente, che mozza il
fiato e asfissia l'amore.
Quante donne son cadute per protestare contro il marito
poliziotto o carabiniere, che le circondava di spie, di tranelli;
di una rete molesta di diffidenze e di sospetti!
Se la virtù non basta a difenderci dalla gelosia, almeno sia
geloso per qualche cosa!
In quasi tutte le svariate forme di gelosia entra l'amor proprio
più che l'amore.
La gelosia di puro amore non è che un dolore; forte, fortissimo,
ma dolore.
La gelosia d'amor proprio è dolore, ma è più ancora ira,
dispetto; reazione dell'orgoglio virile offeso in tutto ciò che
ha di più delicato e di più irritabile.
La gelosia d'amore piange e implora, si umilia e prega.
La gelosia d'amor proprio schiamazza e maledice; percuote e
uccide.
Gli assassini delle donne infedeli son quasi sempre assolti dalla
_vox asinorum_ del giurì; perchè ogni giurato si sente offeso e
minacciato dall'amante fortunato; ma io li condannerei, se avessi
la sventura di esser giurato.
Li condannerei, perchè in essi non vedo che il grido e il morso
della belva umana, e perchè dopo tutto sono omicidi; e nessuno al
mondo ha il diritto di uccidere un altr'uomo.
Deploro e compatisco il marito, che uccide l'amante fortunato;
maledico e condanno quello che ammazza la moglie o l'amante, che
si lorda le mani del sangue di una donna, con cui ha diviso i
baci e le carezze d'amore; che è forse la madre dei suoi
figliuoli.
Uccidere una donna è la più brutale delle viltà, la più
animalesca delle violenze, e applaudo quelli, che dopo il delitto
uccidono sè stessi. Ammazzano, ma si infliggono la pena della
loro brutalità. La terra non può sopportarli, la società umana e
civile non può contarli fra i suoi.
_Raca_ ad essi! Mille e mille volte maledetti gli assassini delle
donne.
E maledetti con essi i giurati e i giudici, che li assolvono,
calpestando la più giusta delle giustizie!
* *
L'uomo geloso per temperamento, lo è così fatalmente, così
necessariamente, che non può nascondere in nessun modo la propria
debolezza, che non vorrei chiamare passione; perchè se di questa
ha le violenze e gl'impeti irragionevoli, non ne ha però nè i
simpatici ardori, nè gli scatti generosi.
Egli è in uno stato di diffidenza cronica, che ne avvelena il
sangue, che ne contorce i gesti, che ne deforma la parola e
l'accento.
Ogni parola di simpatia innocente o di lode diretta dalla propria
moglie ad un altro è un amore che incomincia, è una violazione di
domicilio. Ogni amicizia è un adulterio, un sacrilegio; un
delitto che si trama o è già compiuto.
Ogni uomo che si avvicina alla nostra donna è un nemico, e il
sospetto si erige convulso, feroce, e diviene accusa, condanna.
Al lampo della diffidenza tien subito dietro il fulmine della
minaccia, l'insolenza dell'accusa, l'ingiustizia della calunnia.
L'uomo geloso ha tutti i diritti, nessun dovere.
L'uomo geloso è un poliziotto ed è un tiranno; per cui presenta
in una volta sola tutte le insidie piccine, maliziose, ributtanti
della spia e tutte le prepotenze brutali del boia.
Ogni atto, ogni parola della moglie è passata alla trafila
dell'inquisitore, ogni sguardo che dirige ad un uomo e ogni
sguardo che l'uomo dirige a lei, è studiato colla lente d'un
ottalmoscopio, più acuto di tutti quelli inventati dai medici
oculisti.
L'uomo geloso è sempre armato di lenti per vedere ciò che c'è o
non c'è; di tutte le armi da taglio e da fuoco per ferire o per
uccidere. Le armi da taglio son sempre affilate, quelle da fuoco
sempre cariche e col grilletto alzato.
Figurati, cara bambina mia, come si debba esser felici in tale
ambiente e con un tal uomo sempre vicino, sempre diffidente, sempre
pronto ad accusare o a condannare; col cipiglio dell'inquisitore,
colla mannaia del carnefice!
Il pretendente, il fidanzato è sempre ipocrita, volendo o non
volendo, o perchè nasconde i proprii difetti o ingrandisce le
proprie virtù; ma la gelosia è forse la cosa più difficile fra
tutte a celarsi; perchè è prorompente, esigente; novanta volte su
cento irragionevole.
Sta dunque sull'attenti, quando egli ti parla e ti interroga. Ti
sarà facilissimo scoprire se è geloso.
Col pretesto di interessarsi a tutto ciò che ti riguarda, vorrà
sapere che cosa fai, chi vedi, soprattutto chi visita la tua
casa. E se fra i visitatori v'è qualche giovinetto, a lui
soprattutto dirigerà la poliziesca inquisizione, domandando chi
egli sia, che cosa dica, e faccia, e quanto durino le sue visite,
ecc., ecc.
Questa curiosità ti parrà affettuosa, sarà condita di scherzi e
di reticenze, di scuse e di tenerezze; ma non illuderti. Essa non
è che una forma gentile, costituzionale, della gelosia.
E se vuoi sapere fin dove vada questa gelosia, se sia all'acqua
di rose o invece una passione feroce e brutale, dagli per scherzo
pretesti ad esser geloso davvero e con ragione, pronta a ridere a
un tratto, distruggendo con una buona parola l'artificioso e
innocente tranello.
Sei donna e non occorre che ti dica di più.
Le donne, senza aver mai studiato la chimica, sanno analizzare i
sentimenti, i sorrisi, le lagrime, e soprattutto le dichiarazioni
d'amore, e sanno dire quanta verità e quanta menzogna vi si
contenga.
E così farai tu, nello scomporre la gelosia del tuo fidanzato,
per vedere, se sia sincera o finta, e quanto contenga d'amore e
quanto d'amor proprio.
IL MARITO BRONTOLONE.
Ti ricordi, bambina mia, la gita che si fece nell'ottobre scorso
a Vigiona coi tuoi cugini?
Una gita che riuscì gaia e divertente a furia di contrattempi e
di incidenti buffi e inaspettati.
Riuniti tutti sulla piazza di Cannero alle sette del mattino si
strologava il cielo per sapere se si dovesse partire o restare a
casa.
Era piovuto un pochino nella notte e l'erba dove si doveva
merendare doveva esser bagnata.... Dicevano i pessimisti.
Ma, soggiungevano subito gli ottimisti: se è piovuto a Cannero,
non è una ragione per dire, che sia piovuto anche a Vigiona.
Spesso piove alla riva del lago ed è sereno sulla montagna.
Più spesso però accade il contrario, ripigliavano gli amici di
Schopenhauer.
E gli altri (e tu eri con loro, angelo mio):
--Ma non vedete come a Macagno e a Luvino brilla il sole. Avremo
una giornata bellissima; serena e fresca.
--Bravi, bravissimi. Se è sereno sulla sponda lombarda, è perchè
soffia il vento di levante, che fra noi porta sempre il brutto
tempo.
--Dunque?
--Dunque?
Gli ottimisti erano in maggioranza, perchè erano più i giovani
che i vecchi.
E la carovana partì. I ciuchi coi ragazzi e le signore davanti, i
giovanotti, e gli uomini a piedi con tanto di _alpenstock_, come
se si dovesse salire il Monte Bianco, e dietro a tutti la buona
Janna, che portava sulle sue spalle di bronzo la gerla piena di
viveri.
Giunti a Trarico, dopo un continuo rimpiattarsi ed affacciarsi
del sole, e un continuo alternarsi di pessimisti, che nel primo
caso gridavano trionfanti:
--Ma non l'aveva detto io! e degli ottimisti, che esclamavano
ridendo:
--Ecco il bel tempo!
Si ebbe una vera scossetta d'acqua, che rimise sul tappeto la
questione, se si dovesse continuare il viaggio fino a Vigiona o
se si dovesse fermarsi a Trasico, chiedendo ospitalità in
un'osteria.
Ma anche questa volta dopo la piccola pioggia riapparve il sole e
gli ottimisti ebbero ragione una seconda volta.
Tu, Emma mia, ti ricordi di certo più di me, i buffi incidenti
della nostra gita, ch'io ti ho ricordato soltanto per rivivere
un'ora con te e per rammentarti l'ultima scena, la più comica fra
tutte, quando finita la merenda, si volle accendere il fuoco
sotto un grosso castagno, per farvi cuocere delle bruciate e
mangiarle calde calde là su quell'erba molle, che aveva tutti i
profumi autunnali del monte.
Ognuno di noi portava foglie e stecchi, e ramoscelli e carta; ma
tutto era umido, tutto era bagnato e appena si era riusciti con
grande stento e pazienza grandissima a accendere le foglie; i
ramoscelli imbevuti d'acqua non davano che fumo.
Tutti accovacciati intorno a quel focolare: chi soffiava, chi
faceva riparo col suo corpo a un venticello impertinente, perchè
tutto quel fumo si cambiasse in fiamma; ma tutti i nostri sforzi
insieme riuniti a nulla approdavano.
Il fumo ora era azzurro, ora era bianco; ma mutando colore non
cessava di esser molesto, insopportabile e ci entrava negli occhi
per farli lacrimare, nella bocca per farci tossire.
In un momento di tregua del vento, si ebbe un po' di rosso in
mezzo a tutto quel bigio e si gridò dagli ottimisti:
--Vittoria!
E dai pessimisti:
--Aspettate un poco!
Ma poi il fumo ritornò molesto, incorreggibile, insopportabile, e
dopo un'ora di eroismi alleati, ma ahimè impotenti, si dovette
rinunziare a aver del fuoco e delle bruciate.
Quando si raccolsero le sparse membra e i _kiökkenmoedings_ della
nostra merenda per ritornare a casa; prima di scendere dall'altipiano
si guardò tutti con un moto unanime e involontario al nostro
fuocherello acceso invano e i pessimisti esclamarono:
--Fuma ancora!
*
* *
Io ti ho ricordato questa nostra gita, che di certo non hai
dimenticata, per dirti, che il marito brontolone è in tutto
eguale a quel nostro fuocherello, che abbiamo acceso sul prato di
Vigiona e che non dava che fumo.
Puoi essere ottimista e cortese e indulgente finchè vuoi
coll'uomo brontolone, ma egli troverà sempre qualcosa da
criticare, qualche ragione per lamentarsi, per deplorare....
Tu gli prepari una sorpresa affettuosa ed egli si gratta in capo
esclamando:
--Io non amo le sorprese.
Oppure:
--Che cosa ti è venuto in mente? In questi tempi una spesa
inutile è una colpa e conviene pagar caro il piacere che ci
procura.--Ecco il fumo!
E a tavola, quando stomaco e cuore siedono insieme, l'uno accanto
all'altro per cantare uno dei migliori duetti di questo mondo;
quando tu sorridi, vedendo fumare la zuppa odorosa e le manine
impazienti dei tuoi bambini preparare le armi del cucchiaio e
della forchetta per l'allegro combattimento; ecco che il
brontolone trova la bottiglia fuori di posto e la minestra troppo
cruda o troppo cotta.
Ed ecco il fumo!
Si va a spasso per prendere una boccata d'aria. Tu sei lieta,
perchè ti senti bene, perchè i tuoi figliuoli sono sani, ben
vestiti e allegri. Dai il braccio al marito brontolone ed egli
non è ancora uscito di casa, che ha scoperto una grossa nube nel
cielo e profetizza il vicino temporale.
Perchè non hai portato l'ombrello?... Perchè siamo usciti? Tanto
era meglio aspettare domani o un altro giorno qualunque.
E per tutta la passeggiata quella nuvola è discussa, lambiccata,
ed è unico argomento della noiosa e fredda conversazione.
Ecco il fumo!
E bada bene di voler disarmare il brontolone collo scherzo
amoroso, colla barzelletta faceta. Sarebbe come soffiare nel
fuoco di Vigiona. Più si soffiava e più faceva fumo.
L'uomo brontolone ha l'amaro in bocca e convien che sputi. Se gli
metti dello zucchero in bocca, anche lo zucchero divien tossico;
perchè il suo amaro è come quello del chinino, che è profondo ed
è eterno.
E se gli chiudi la bocca, perchè non sputi, la saliva amara gli
si accumula in bocca e gli fa groppo alla gola e allora, poveri
noi, invece di uno sputo, avremo una mitraglia di tutti gli
escrementi morali, che secerne un fegato itterico, un cervello
malazzato.
Dio e la provvidenza e la fortuna ti liberino dal marito
brontolone!
Quando dormi è una pulce, più spesso anzi una cimice. Potrai
schiacciarlo, ma anche morto ti lascerà il fetore nella mano.
Se leggi è una mosca, che più si caccia via e più ritorna a
molestarti.
Se sei allegra è il rintocco della campana che suona a morto.
Se vuoi pensare è l'organetto, che sotto alla tua finestra
strimpella una suonata monotona.
Se vuoi scherzare è il pedagogo, che alza la ferula per farti
tacere.
E se vuoi tacere è il pettegolo ciarlone, che ti vuol compagno
nelle sue ciarle.
Se vuoi rinfrescarti, ti mette una pelliccia sulle spalle. Se
vuoi riscaldarti ti soffia in viso; ti ferma se cammini, e ti fa
camminare se vuoi riposarti.
Pulce, cimice, mosca, campana, organetto, pedagogo, pettegolo,
importuno perpetuo; il marito brontolone è più che un malefizio,
è una sventura: più che una sventura è una disperazione....
Egli è il fumo vivente, è il fumo eterno, che ci promette il
fuoco dell'inferno domestico.
IL MARITO AVARO.
L'avarizia è uno dei difetti più difficili a scoprirsi in un
fidanzato; e siccome è fra quelli che necessariamente, inevitabilmente
crescono cogli anni; apri grandi gli occhi, figliuola mia, per
scoprirlo.
Il fidanzato è sempre generoso, sia o non sia innamorato. Se ti
ama davvero, se ti desidera, non vi è occasione ch'egli non colga
al volo per farti un dono, per fare un'opera di carità dinanzi ai
tuoi occhi. Se ne pentirà forse domani, ma quando ti vede,
l'avarizia fugge via e si appiatta; e tu lo vedi largo, generoso,
fors'anche spensierato.
Se non ti ama, ma ti vuol sua per ragioni di convenienza
economica o gerarchica, con maggior ragione ti si mostrerà
splendido nel dare. Egli sente il bisogno di nascondere il vuoto
del suo cuore e la mancanza d'amore vien ricoperta coi fiori
della generosità. Pur troppo non son diversi nel colore e nel
profumo i fiori, che si comprano dal fioraio e quelli che si
coltivano con lungo affetto nel proprio giardino e si colgono ad
uno ad uno con intelletto d'amore e sapiente elezione.
Il fidanzato dunque, figliuola mia, è sempre generoso; in
apparenza o in realtà; ma conviene saper distinguere l'uno
dall'altro; il che è difficilissimo.
è vero che tu potresti pigliar informazioni dagli amici comuni,
dalle persone di servizio, dall'opinione pubblica; ma è impresa
pericolosa e di incerto esito. Non ho mai saputo capirne il
perchè; ma è dimostrato, che le informazioni che si chiedono sul
valore di un uomo o di una donna, come candidati al matrimonio,
son sempre incerte o false, o, nei casi migliori, contradditorie.
Tutti hanno paura di dire il vero, se il vero è brutto; mentre
poi molti hanno invidia della felicità altrui, e perciò esagerano
i difetti od anche li inventano. Il coraggio civile è la
rarissima fra tutte le virtù sociali; e per dire a una mamma o ad
un babbo che chiedono di un fidanzato: cari miei, è un farabutto,
o uno stupido o un fannullone; ci vuole un coraggio che
pochissimi hanno.
è così raro questo coraggio, che si nasconde o si maschera la
verità anche quando si tratta di una cameriera o di un cuoco!
Dunque, figliuola mia, tu devi scoprire l'uomo avaro o che è
sulla strada di diventarlo; coi soli tuoi occhi, colle sole tue
forze.
Ecco ciò che mi ha insegnato la mia lunga esperienza:
L'avaro o il candidato all'avarizia, anche nella più semplice e
fredda conversazione, sottolinea sempre tutte le parole e tutti i
numeri, che si riferiscono al denaro, ai capitali, alla ricchezza
in genere e sotto tutte le sue forme svariate.
Per lui la moneta, gli scudi, le rendite, l'oro, l'argento, il
capitale, i frutti, son parole sacre, ch'egli pronunzia con una
emozione inconscia forse, ma che si tradisce all'accento.
Quanta psicologia celata, misteriosa e potente sta nascosta
nell'accento, che diamo alle parole!
Quante volte io ho scoperto un amore celato nelle più profonde
pieghe dell'anima, al solo sentire pronunziare da un labbro il
nome di un uomo o di una donna!
Il discorso camminava piano, sereno, senz'urto e senza scosse; ma
la voce che doveva tradurre quel nome si abbassava a un tratto di
una o due note o si faceva leggermente tremula o tutto al
contrario, si innalzava saltellando disinvolta, come se volesse
nascondere la trepidaziane, con cui il cuore accompagnava quella
cara parola.
Ciò che è l'essere amato per chi ama è il denaro per l'uomo
avaro.
Spiatelo soprattutto, quando deve pronunziare la parola _milione_
o _milionario_.
Egli si esalta, alza il tuono della voce, si gonfia le gote, e
quei vocaboli, come gente in festa, ti suonano all'orecchio
preceduti da trombe e tamburi e seguiti da una fanfara di punti
di esclamazione e di ammirazione.
Ma che si celia?--Un _milione_! Il sogno diurno e notturno di
tanti milioni di bipedi implumi; il prurito eterno di tanti
operai della grande officina umana, il sole di mille e mille
pianeti e pianetucoli; il Dio, a cui tante e tante creature
portano in tributo la loro viltà, il loro ingegno, la loro
dignità; tutti gli affetti di figlio, di padre e di cittadino.
Ma che si fa celia? Un _milione_ è un _milllllione_!--
*
* *
Un altro segno caratteristico dell'avaro è la carezza, ch'egli fa
alla moneta o al foglio di banca, che sta per dare; sia per
pagare un semplice contarello o per numerare una grossa somma.
Egli non maneggia il denaro, come un altro oggetto qualunque; ma
con un rispetto amoroso, con una tenera devozione. Per lui
rappresenta il valore dei valori, la forza delle forze, e se
potesse farlo decentemente, quando deve maneggiare una forte
somma, si caverebbe il cappello. Invece egli si accontenta di far
scivolare monete e biglietti l'un sull'altro e colle dita
strette, quasi gli costasse il separarsene e volesse ad ogni
singola moneta, ad ogni singolo foglio, dare un saluto amoroso,
pieno di affetto e di rimpianti.
Se fossi un gran pittore psicologico, vorrei fare due quadri e
metterli l'uno di fronte all'altro, come due faccie d'uno stesso
prisma,
Nell'uno e nell'altro lo stesso uomo, ma nel primo quando conta
del denaro che deve pagare; nell'altro quando conta del denaro
che gli vien pagato.
E sotto scriverei: _Paga!--è pagato!_
E vi assicuro, che in quei quadri saprei mettere tante quantità
d'uomo, da lasciarne davvero pochino al di fuori di quelle due
cornici.
*
* *
L'avaro, quando vede una bella cosa (fosse pure un oggetto
d'arte), s'informa subito quanto sia costata o domanda a sè
stesso quanto potrà costare; perchè di tutti i valori, che può
rinchiudere un oggetto qualsiasi, il suo prezzo è per lui ciò che
più lo interessa.
Tutti i problemi della vita, tutte le questioni politiche e
sociali, tutti gli incidenti e gli accidenti degli individui e
delle nazioni sono per lui foderati da una questione di denaro, e
là ferma il suo sguardo e là dirige i suoi sguardi e le sue
meditazioni.
--Che bella ragazza! dirà uno.
Ed egli subito:
--Ed ha trecento mila lire di dote!
Si dirà che un tale ha avuto un impiego.
Ed egli di rimando:
--Ma non ha che lo stipendio di tre mila lire all'anno.
Il socialismo è null'altro che un'invidia del denaro altrui, le
rivoluzioni sono spostamenti di ricchezze e via di seguito.
*
* *
Bambinuccia mia, non sposare un uomo avaro.
Suppongo che il tuo fidanzato sia giovane, e s'egli è avaro,
benchè giovane, figurati come lo sarà coi primi capelli bianchi,
quando l'economia è necessaria difesa della vecchiaia imminente;
quando anche gli spensierati incominciano a divenir previdenti.
L'avarizia è fra le passioni umane una delle più abiette e che
spande in più largo giro la sua influenza triste. Un'influenza
che raffredda, isterilisce e mummifica tutto ciò che tocca.
Io m'immagino sempre di vedere nelle mani dell'uomo avaro un paio
di forbici rugginose e stridenti, sempre pronte a recidere ogni
ramo che germoglia sull'albero della vita, ogni fiore di
entusiasmo che si apre nelle aiuole della giovinezza e della
felicità.
Passione rachitica, anemica, scrofolosa, che si pasce di _se_ e
di _ma_; che spegne tutte le fiamme della poesia e chiude tutte
le finestre per paura di disperdere il calore della stufa.
Origene che si mutila per paura del peccato; un'atrofia cronica e
volontaria del cuore, dei muscoli e del cervello; un'asfissia
lenta, che nel nido della famiglia semina le muffe e coltiva
tutte le lebbre morali, spirituali e estetiche.
Figliuola mia, non sposare mai un uomo avaro!
IL MARITO LIBERTINO.
La nostra società corrotta, ma ipocrita; libertina nelle opere ma
puritana a parole; impone alla fanciulla l'ignoranza più
completa, e l'ideale di una giovinetta che va a sposa, e che è
forse donna da tre o quattro anni, è quello di non sapere come
nascono gli uomini e come si fanno.
Essa dunque deve pure ignorare, che cosa voglia dire la parola
_libertino_; e a questo proposito ricordo che in una conversazione,
essendosi parlato di un tale, dicendolo libertino; la padroncina di
casa interruppe il discorso, domandando a bruciapelo:
--E che cosa è un libertino?
La mamma, presa all'improvviso, si gargarizzò la gola con quella
tossicella artificiale, che è un artifizio molto comune agli
uomini e alle donne per prender tempo e trovare una risposta
difficile.
E poi, come di scatto:
--L'uomo libertino è un uomo troppo liberale.
Ma tu, caro tesoro mio, sei stata educata diversamente da tutte
le altre tue compagne, e benchè innocente, sai benissimo che cosa
sia un _libertino_.
Siccome però, se il giovane che ti facesse la corte per sposarti,
fosse libertino, nasconderebbe questa sua magagna con tutte le
arti della più abile ipocrisia; è bene che io ti insegni a quali
caratteri lo potrai riconoscere.
E aguzza l'occhio e tendi l'arco dell'attenzione, perchè i
libertini son quasi sempre molto simpatici e le donne hanno una
tendenza a trovarli carini e ad amarli.
Eppure sono cattivi mariti e spesso anche pessimi padri. Nella
loro moglie, come in generale in tutte le donne, essi non vedono
che la femmina. E l'amano o piuttosto la desiderano finchè è
giovane e bella; sprezzandola appena cade sul suo capo la prima
neve o compare sul volto la prima ruga.
Essi sono tutti del parere di quel loro collega, che un giorno
diceva sospirando:
--Perchè mai quando la moglie ha quarant'anni, non si può
congedarla per prenderne due che abbiano vent'anni ciascuna? Non
si può forse cambiare senza frode un biglietto di 50 lire in due
biglietti, di 25 lire ciascuno?
*
* *
Il giovane libertino che ti fa la corte, ti guarda in faccia con
occhi ardenti e senza alcuna timidezza, e il suo sguardo ti
obbliga quasi sempre ad abbassare gli occhi e ad arrossire.
Egli non si accontenta di guardarti in volto, ma i suoi occhi
vanno in su e in giù dal capo ai piedi e ti abbraccian tutta; e
tu te ne senti offesa, come se ti dirigesse parole audaci e
sconvenienti.
Una signora molto perbene mi diceva una volta:
--Io non so spiegarmi il perchè, ma quando mi guarda il marchese
R. io mi sento come se fossi nuda, e mi guardo e mi riguardo per
vedere se davvero io sono vestita....
Il marchese R. era infatti un gran libertino.
Il giovane libertino però non si accontenta di guardare.
Egli trova ad ogni momento un pretesto per toccarti il vestito o
per toccare il tuo piede col suo. Trova sempre, che hai un
ricciolo fuori di posto e lo vuol mettere al suo posto.
Se ti dà la mano, trattiene la tua a lungo nella sua e
l'accarezza teneramente, e te la stringe forte, in modo da farti
arrossire.
Quella stessa signora di poc'anzi mi diceva:
--Io cerco sempre di evitare la stretta di mano del marchese R.
Essa mi sembra un oltraggio.
Bada molto anche ai suoi discorsi.
Più d'una volta egli ti farà dei racconti in apparenza
innocentissimi, ma li interromperà ghignando coll'occhio o
sorridendo col labbro; come se volesse farti capire, che non dice
tutto quel che potrebbe dire e vorrebbe però che tu capissi anche
ciò ch'egli non dice.
Tu non capirai nulla, ma egli continuerà a sottolineare certe
parole, con una ghignatina o con un sorriso pieno di malizia.
Tu non lo sai, ma quelle ghignatine e quei sorrisi nascondono
un'impertinenza e nel mondo morale sono veri oltraggi al pudore,
Se tu visiti una galleria o una esposizione di quadri con lui,
egli si fermerà sempre davanti ai quadri, dove vi è qualche
figura poco vestita o qualche Venere senza la camicia e
guardandoti cogli occhi ardenti ti sorriderà maliziosamente,
invitandoti a guardare o ad ammirare.
Se ti presta un libro, troverai un segno dove si descrive una scena
d'amore, o ti leggerà egli stesso quella pagina, commentandola coi
suoi sguardi diretti, a te.
*
* *
Potrà accaderti anche questo.
La tua giovane cameriera entra nel tuo salotto e ti annunzia la
visita del tuo pretendente.
--Fallo entrare....
Ma mentre tu dici queste parole, hai guardato la cameriera e
l'hai trovata rossa in volto e molto turbata.
Un momento dopo non te ne ricordi più, ma pochi giorni dopo, il
pretendente ti fa un'altra visita e tu rimarchi lo stesso rossore
e lo stesso turbamento nella tua cameriera. Ti pare questa volta,
che anche la sua voce sia alquanto tremula.
Alla terza e alla quarta volta che si ripete la stessa scena, tu
senti il bisogno di interrogare la fanciulla, quando essa ti
accompagna a letto per svestirti.
--Ma dimmi un poco, Silvia, perchè quando viene l'ingegnere M. tu
entri sempre in salotto colla faccia rossa e il volto turbato?
Ciò non ti accade mai, quando annunci altre persone....
Silvia diviene rossa più che mai e non risponde.
--Dimmi la verità, Silvia... lo voglio.
--Signorina... non lo so.
--Lo devi sapere....
--Ma, signorina mia, ella sa che sono tanto timida.... I
giovanotti mi fanno suggezione....
--Ma ciò non ti accade mai, quando parli con mio fratello, quando
mi annunci il dottor B. o l'avvocato T.; che sono anch'essi
giovanotti e per di più molto belli....
--Ma il signorino lo vedo ogni giorno e gli altri... gli altri
non mi fanno suggezione....
Qui Silvia abbassa gli occhi, poi si soffia il naso. Pare che
stia per piangere e poi:
--Ecco, cara signorina, io non volevo dirglielo, perchè non me ne
sentiva il coraggio e poi e poi, perchè....
Silvia si ferma e piange.
--Perchè.... perchè mi pareva, che l'ingegnere fosse il di lei
fidanzato e non voleva dirne male....
--No, di' pur tutto, l'ingegnere non è mio fidanzato....
--Ebbene, allora le dirò tutta la verità. Quel signore, appena
entrato in anticamera, prima ancora di domandarmi se la signorina
è in casa, mi prende per il ganascino, o mi vuol abbracciare, o
prende con me altre confidenze di questo genere.... L'ultima
volta, mentre io le levavo il soprabito.... Signorina, non ho il
coraggio di dirglielo....
--Su, su, voglio saper tutto.
--Ebbene mi ha abbracciato e mi ha dato un bacio....
--E tu l'hai lasciato fare? E non me l'hai detto subito?
--Che cosa vuole! mi ha preso all'impensata ed io avevo vergogna
a parlarle di queste cose; ma me lo lasci dire, l'ingegnere è un
gran farabutto.
*
* *
Figliuola mia, un giovane che è innamorato di una signorina, che
va a farle visita, deve avere lo stesso tremito con cui un
credente si avvicina all'altare; deve sentirsi puro d'ogni basso
istinto, e se invece ha tempo e voglia di pizzicare una
cameriera, non deve avere nell'anima la menoma idealità. Egli è
di certo un libertino e se ti vuol fare sua sposa è per
concludere un buon affare o per soddisfare un bisogno dei sensi.
Dopo quel dialogo tu devi chiudere la porta al pretendente e
trovarti sempre fuori di casa, quando egli viene a farti
visita....
Vada ad abbracciare altre cameriere e si cerchi un'altra sposa.
Quanto a te, devi fargli capire in un modo o nell'altro, che a
lui deve applicarsi il verso:
Lasciate ogni speranza....
IL MARITO STUPIDO.
Tesoro mio, ti farei troppo torto, se io credessi in te la
possibilità di innamorarti d'un uomo imbecille e di non saperlo
distinguere dopo pochi giorni di conoscenza.
Vi sono pur troppo donne, che hanno sposato uomini stupidi,
perchè eran ricchi e portavano una corona irta di corna nello
stemma di famiglia. Anche le più ciniche, anche quelle che
riguardano il marito come un podere o come un salvacondotto,
finiscono per pentirsi di questa loro prostituzione.
La donna che si vergogna del proprio compagno, che deve arrossire
di lui in ogni conversazione, sente minorata anche la propria
dignità, e quando i suoi figliuoli son grandicelli ed è costretta
a compatire davanti ad essi il loro padre, prova uno di quei
dolori profondi, muti, che solcano l'anima come un ferro rovente.
La donna deve essere fiera del marito suo, e della sua gloria; e
del suo ingegno gode quanto lui e più che lui. Essa perdona la
bruttezza, i capelli bianchi, perfino le infermità vergognose:
non perdona mai l'imbecillità. Se vi è una virilità del corpo, ve
n'ha un'altra più alta e più vitale; quella dell'ingegno e
dell'energia del carattere. E a questa per onor suo la donna
tiene assai più che all'altra. Essa è nata come la vite per
appoggiarsi all'albero e quando è costretta invece a sostenere il
compagno, può giungere forse fino alla pietà, all'amore giammai,
e all'amicizia neppure, perchè non si può aver per amico chi non
si stima.
Quando una donna si è venduta ad un ricco imbecille, quando nel
giorno si è inebbriata del fasto di un attacco sontuoso, quando
ha portato in giro con intima compiacenza le sue gioie, i suoi
vestiti di velluto; quando ha gettato in viso alle amiche con
sfacciata vanità i suoi servi; essa rientra in casa e seduta
accanto al suo imbecille rumina quelle false gioie, che si mutano
in bocca in altrettanto fiele.
Più d'una volta fin nell'estasi d'amore è svegliata da una
osservazione idiota, da una esclamazione cretina e dal fondo del
cuore straziato le sale al labbro il grido di leonessa ferita:
--_E costui è mio marito! Ed io porto il nome di questo idiota!_
è allora, che il rimorso e la vendetta si fanno alleati
inseparabili in quell'anima pentita e alla corona di conte del
marito crescon le corna all'infinito. Se la corona è di marchese,
le corna fioriscono e rifioriscono con fecondità deliziosa.
*
* *
Ma perchè mai, figliuola mia, tormento me stesso descrivendo un
marito, che tu non avrai giammai?
Se però tu avrai un santo orrore per tutti gli uomini stupidi,
devi imparare a conoscere gli imbecilli incompresi. è una specie
pur troppo non rara e che inganna anche i buoni osservatori.
L'imbecille incompreso ha tutto l'aspetto esteriore dell'uomo
normale e può perfino simulare un forte ingegno.
è stupido di dentro, ma porta una vernice, che finge l'ingegno. è
nato senza talento, ma con molta furberia, e questa gli ha
insegnato per tempo a nascondere ciò che gli manca.
Egli tace molto e volentieri, e tanto più, quando si parla di
cose alte, di questioni gravi, nelle quali appunto l'ingegno vero
scatta e scintilla.
In queste occasioni l'idiota incompreso corruga la fronte e si fa
serio, molto serio e ti accompagna nel tuo discorso con un
accennar del capo, come se seguisse con viva curiosità il tuo
pensiero.
Quando tu esci con un'affermazione ardita o con una domanda
prorompente, egli allora getta nel tuo discorso un energico punto
ammirativo, quasi sempre accompagnato da un sorriso malizioso,
che sembra covare in sè chi sa quanti pensieri; quante finezze di
critico, quante astruserie di dubbii e di sottintesi.
Quando gli pare che i muscoli della faccia non bastano, egli
lancia nello spazio un _pur troppo_ o un _lo credo io_ o un
_sempre così_ o un _già si sa!_ e tante altre frasi sempre
accompagnate dal rispettivo punto d'esclamazione e dal relativo
sorriso.
Il dizionario dell'imbecille incompreso rassomiglia in tutto al
guardarobe di un artista drammatico.
Tu vi trovi corone di talco che son dogmi altissimi; corazze di
latta, che rappresentano l'ignoranza in atto di difesa; pugnali
di legno, che son ragionamenti senza senso; durlindane di
princisbecco, che devono esser prese per spade di Toledo; e tutta
una vetrina di false gemme che devono esser prese per gioielli di
spirito e di acume.
Fra tutta quella roba puoi trovare anche un pugnale vero, che
taglia davvero, un diamante vero, che brilla davvero; ma allora
sta pur sicura, che è roba rubata e imparata a memoria per
servirsene nelle grandi occasioni.
Ricorderò sempre la strana impressione, che mi fece una volta un
lavoro scritto con invidiabile sicumera da un minchione, che
voleva aspirare alla gloria d'autore.
Leggevo con molta attenzione quello scritto, che mi pareva in
complesso l'aborto d'una mente idiota; ma fra quelle parole senza
pensiero, fra quelle frasi senza sugo, trovavo a un tratto
un'idea luminosa, un concetto ardito, che pareva una gemma caduta
nel fango. Subito dopo però l'imbecillità riprendeva il filo, che
poi era interrotto di nuovo da un nuovo gioiello.
Alla fine capii di che si trattava. Erano gemme tolte alle corone
dello Stuart Mill e dello Spencer e incastonate nella mota.
Gli imbecilli incompresi nei loro discorsi fanno come quel povero
scrittore, che aspirava alla gloria, senza aver diritto neppure a
mangiare il pane quotidiano del senso comune.
*
* *
L'imbecille incompreso e furbo possiede un'altra astuzia. Oltre
il sapiente silenzio, oltre l'abile ed agile maneggio delle
interiezioni e dei gesti che devono tener il luogo delle idee; sa
dopo pochi momenti indovinare il livello intellettuale delle
persone con cui egli si trova.
Se queste stanno molto in alto per ingegno e per coltura, tace
sempre con ostinata fermezza, sicuro di guadagnarsi così almeno e
alla peggio il merito di modesto.
Se invece chi gli parla è al disotto della media, allora egli
discorre senza dir nulla, ma abbagliando gli ignoranti colla
confusione delle frasi o l'oscurità del pensiero riesce a farsi
credere qualche cosa o qualcheduno.
Ha anche un'altra furberia, quella di parlar sempre di cose
ignote o mal note ai presenti.
L'arte di osservare gli uomini non è fra le più comuni e con
grande mia meraviglia ho sentito questi giudizii dati da uomini
d'ingegno su imbecilli incompresi:
Egli non è eloquente di certo, ma ha una grande profondità di
analisi.
La sua testa non è molto ordinata, ma egli ha una grande
originalità d'idee.
Che fantasia! Peccato che egli si esprime sempre in una forma
oscura e avviluppata.
Parla poco, ma pensa molto!--Egli sa certamente assai più di quel
che dice.
E simili!
Conosco un falso grand'uomo, che a furia di silenzi ostinati, di
corrugamenti sapienti del muscolo frontale, di esclamazioni
ingegnose, è riuscito a farsi credere un forte ingegno. Ha avuto
una cattedra, la Commenda della Corona d'Italia, non so quanti
titoli accademici; ed oggi siede nell'Olimpo d'una famosa
Accademia accanto a molti veri grandi uomini, che ogni giorno si
domandano meravigliati l'un l'altro:
--Ma che cosa ha fatto egli?
--Io non lo so. Dicono che sia un forte pensatore. Ha scritto
poco, ma quel poco ha un gran valore.
--L'avete letto?
--Io no, ma lo dicono tutti.--
Quell'accademico è un imbecille incompreso!
IL MARITO FANNULLONE.
Per quanto so e posso, figliuola mia, ti prego, ti riprego e ti
scongiuro, magari mettendomi in ginocchio: non dar mai la mano di
sposa a un fannullone.
E ciò pur troppo ti può capitare facilmente, se sposi un uomo
molto ricco.
Fra noi il far nulla è un dovere di chi può vivere delle proprie
rendite, e mentre si ride di cuore dei nobili della Cocincina,
che custodiscono le unghie delle loro mani in astucci di avorio,
d'oro o d'argento per dimostrare a tutti che essi non le
prostituiscono al lavoro; non ridiamo di molti nostri nobili, che
si vergognerebbero di avere un diploma di ingegnere o di
giurisprudenza.
Per me gli artigli lunghissimi degli Annamiti valgono il
pregiudizio dei nobili italiani.
E dico italiani, perchè in molti paesi d'Europa e d'America, che
sono assai più avanti di noi, il far nulla non è titolo di
nobiltà; ma è vergogna, di cui anche i più ricchi arrossiscono.
A Londra per esempio vi sono signori, che hanno molti milioni e
che lavorano nel commercio, nell'industria, o fanno della scienza
o dell'arte o della letteratura, o viaggiano continuamente per
distrarsi o per istruirsi, o alla peggio amministrano i loro
beni, occupandosi di agricoltura.
Io conosco invece in Lombardia alcuni signori, che non hanno mai
veduto le loro terre!
è vero però, che più d'una volta i loro fattori o i loro
fittabili diventano i loro padroni ed essi muoiono crivellati di
debiti e uccisi dalla noia e dai vizi.
In Inghilterra, in America nessuno porta le unghie annamite, nè
alle mani, nè nell'anima.
Figliuola mia, prima di dire il sì fatale e inesorabile, che lega
la tua vita a quella di un uomo, guardagli le unghie.
*
* *
Il ricco fannullone mena una vita, ch'io non vorrei per un giorno
solo, anche col compenso di centomila lire di rendita.
Se è giovanotto, alle undici del mattino è sempre a letto e dorme
ancora. Poveretto è andato a letto così tardi!
Il cameriere ha l'ordine di svegliarlo a quell'ora e alle undici
egli ha bussato timidamente alla porta della camera da letto:
--Signor conte, sono le undici!
Una voce sonnacchiosa e un po' indispettita risponde:
--Sta bene, Carlo, ritorna fra mezz'ora.
Alle undici e mezzo il giovane conte si è di nuovo addormentato e
un secondo picchio all'uscio lo risveglia una seconda volta.
--Sta bene, sta bene, mi alzo.
Ma alle undici e tre quarti il cameriere non ha ancora udito il
campanello, che deve chiamarlo a vestire il giovane patrizio.
La colazione è già servita. La famiglia è tutta a tavola, ma il
conte non si vede.
Ha dovuto alzarsi di furia, vestirsi di furia, lavarsi male, e
con un quarto d'ora di ritardo finalmente è seduto a tavola anche
lui, salutato freddamente con un'aria di rimprovero generale.
Egli però è abituato da un pezzo a quei muti rimproveri.
Mangia con poco appetito, sbadiglia ancora fra un piatto e
l'altro e non si risveglia del tutto, che dopo aver preso il
caffè.
Ciarla, fuma, scherza, e se non è troppo stanco, passa nella sala
da bigliardo per fare una partita con uno dei suoi.--Bisogna
cercare di far venire le tre.
E le tre vengono lentamente, noiosamente.
Fa attaccare la carrozza e va in città a far qualche visita, per
lo più a gente noiosa, o annoiata come lui; a meno che non sia a
qualche donnetta allegra, che gli svuota le tasche e il cervello.
Intanto o bene o male son venute le cinque; ed egli va al club.
Fino alle sette la noia è scongiurata, perchè egli parla coi suoi
eguali dei pettegolezzi della città o giuoca alle carte.
Le sette son suonate: la carrozza lo attende alla porta del club,
e in un quarto d'ora è a casa, dove si veste e va a tavola.
L'appetito non è buono, benchè egli abbia preso un _fernet_ o un
_vermut_. In ogni modo il pranzo è finito e da capo un altro
caffè e altri sigari fanno venire ben presto l'ora del teatro o
del ballo o della serata in casa del marchese B. o del duca C.,
quando egli non ritorni al club per giuocare fino al mattino,
passando d'angoscia in angoscia, quando perde troppo; e dovrà il
giorno dopo battere alla porta dell'usuraio per far dei debiti a
babbo morto.
Molti e molti giovani passano la vita a questo modo o con poche
varianti. Sanno però parlare il francese e l'inglese e hanno una
vernice molto sottile di coltura letteraria e in società si fanno
ammirare per la loro toeletta inappuntabile ed anche per un certo
spirito.
E questi aborti della civiltà moderna osano prender moglie.
Dopo aver lasciato più che mezza la loro animuccia grama e il
loro corpiciattolo nevrosico nelle sale da giuoco o nei
_boudoirs_ delle ballerine, aspirano al matrimonio, alla funzione
massima di far felice una donna e di mettere al mondo degli
uomini.
Essi non devono lasciar morire un gran nome, essi devono ristaurare
con una buona dote le loro finanze logorate profondamente dal tappeto
verde e dai vizii.
E si maritano e danno la mano ad una signorina buona, gentile,
pura; che nello sposo spera trovare un amante e nell'amante un
poema di estasi deliziose e di sognate idealità.
Poveretta!
Il marito fannullone non perde di certo l'abitudine dell'ozio a
35 o a 40 anni, e nella noia della famiglia, tramontata ben
presto la luna di miele, trova un nuovo e più potente pretesto
per ritornare al club e al giuoco, che solo può dargli una forte
emozione, che gli dà la coscienza di vivere.
La sposina lo ama, lo invita al pianoforte o alla lettura in due
o alle intime delizie dell'amore; ed egli la lascia fare; ma a un
tratto sbadiglia, sbadiglia a lussarsi le mascelle e ad ogni
sbadiglio cade una doccia ghiacciata sul cuore della povera sua
compagna, che invano tenta di convertire un'oca in un'aquila o di
stillare del sangue caldo nelle vene di un rospo.
*
* *
Mi dirai, fanciulla adorata, che io esagero, che io ti faccio una
caricatura e non un ritratto; ma ti assicuro che anche il
ritratto è brutto e ributtante.
Non tutti i fannulloni sono di questa ideale perfezione, ma anche
i fannulloni volgari sono insopportabili e spandono intorno a sè
una nebbia di noia, che smorza ogni fuoco d'entusiasmo, che
appanna ogni luce di poesia.
E senza poesia che cosa è la vita?
Lo so anch'io: vi sono dei fannulloni innocenti, buoni, che amano
le loro mogli, che non sono neppur giuocatori; ma che della noia
hanno fatto la loro atmosfera, e non sanno escirne per respirare
un'aria più vitale, più fresca, più inebbriante.
Essi non sono mai stanchi che d'una sola stanchezza, quella
dell'ozio; mentre l'uomo per sentirsi vivere, per godere della
vita deve provare ogni giorno un'altra stanchezza, l'unica
salubre, l'unica umana; quella del lavoro.
Sia pure lavoro di sport, a cavallo o sul velocipede o sopra un
yacht o a caccia, o lavoro di pensiero nel gabinetto, nello
studio, tra i campi, nel vagone o sul piroscafo del viaggiatore.
Il lavoro ha tante vie, che a percorrerle tutte un uomo dovrebbe
vivere cento vite.
E l'uomo che lavora, quando ritorna a casa e cerca la moglie e
sorridendo le narra il frutto dei suoi travagli, trova un altro
sorriso, che risponde al suo; e prova l'ebbrezza di chi entrando
in un giardino è salutato dai fiori, che per lui esalano il
profumo delle loro corolle; e l'amore lo riposa dalla stanchezza,
e la coscienza di non aver vissuto invano gli fa tener alta la
fronte e gli fa brillar l'occhio di gioia.
Senza fatica, nessun riposo; senza travagli nessuna gioia. è in
alto che fioriscono i fiori più belli, che si godono i più larghi
orizzonti, e per salire convien sudare.
Infelici, tre volte sciagurati coloro che non hanno mai sudato
che di calore.
Figliuola mia, non sposare mai un uomo ozioso.
Oso dire per lunga esperienza, che il marito fannullone è il
peggiore di tutti i mariti.
E tu nella tua mente poetica, nella tua fede nel bene non sperar
mai di potere colla tua influenza trasformarlo in un lavoratore.
Lo stesso sarebbe pretendere di mutare una tartaruga in una
rondine o di trasformare un gufo in un'aquila!
_Le professioni rispetto alla felicità nel matrimonio._
Caro tesorino mio, _niña de mis ojos_ (come ti direi in Spagna),
tu non sposerai di certo nè un contadino, nè un fabbro, nè un
falegname; ma un ingegnere, un medico, un avvocato o, come si
suol dire, un possidente.
Si dice tutti i giorni che siamo tutti eguali, e menzogna più
bugiarda non fu mai pensata da cervello umano, e lo vo ripetendo
in ogni mio libro, come la mia _Delenda Carthago_.
Eppure quella bellissima parola è scritta fin sui soldi e sui
biglietti di banca d'una grande nazione, sulle sue bandiere, e
nelle leggi di tutto il mondo civile.
Anche nei nostri tribunali sta scritto, che tutti sono eguali
davanti alla legge; ma siccome i giudici non possono leggere
quelle parole, perchè sono scritte dietro le loro spalle, non
hanno l'obbligo di ricordarsene sempre.
Gli uomini non sono eguali che in una cosa sola: davanti alla
morte; ma anche qui, quanta differenza nel modo di morire! Si può
morire appena nati o a cent'anni, si può morire in uno strazio di
dolori o sorridendo; a gocciole o di schianto; maledicendo o
benedicendo la vita.
Ma il più bello è questo; che più la civiltà avanza e i rapporti
sociali si complicano e le leggi si affinano, le disuguaglianze
individuali aumentano e aumenteranno sempre col progresso.
I socialisti ignoranti vorrebbero affogare l'individuo in un gran
pantano di collettività; ed io invece son sicuro, che nel mondo
dell'avvenire l'individuo sarà tutto e la società poco o nulla.
Perdonami, cara figliuola mia, se la penna mi trascina fuori
delle rotaie e se ti faccio della filosofia sociologica molto
inopportuna. Ma era per dirti il perchè non potrai sposare un
uomo di condizione troppo diversa dalla tua.
La condizione sociale è il clima in cui siam nati, e accanto a
noi e con noi non possono vivere bene che altri nati sotto lo
stesso cielo morale.
Metti un po' a vivere insieme in una stessa serra un abete e
un'orchidea del tropico. O l'una o l'altra pianta morrà di certo.
*
* *
Tu dunque sposerai un uomo che esercita una delle professioni,
che si chiamano liberali; forse perchè lasciano spesso la libertà
di morir di fame.
Anche se sceglierai un signore che vive di rendita, spero che non
sarà un fannullone, di cui ti ho già tracciato una fotografia
poco lusinghiera. Egli sarà un possidente, ma attenderà alla
coltura delle sue terre o studierà per piacer suo o sarà artista;
in ogni modo sarà anch'egli un operaio della grande officina
sociale.
Non credere, che sia indifferente sposare un artista o un medico
o un avvocato.
Il matrimonio è un organismo così delicato, che riceve influenze
benefiche o malefiche da ogni cosa che lo circonda o lo tocca. è
più sensibile d'una mimosa, d'un galvanometro o d'una lastra
fotografica. Nulla che lo guardi o lo tocchi è indifferente alla
sua salute e alla sua felicità.
La professione è tanta parte di un uomo, che non si può
levargliela di dosso senza strappare qualche lembo di pelle;
senza lacerarne anche le carni.
Ognuno di noi sceglie una professione piuttosto che un'altra per
molte ragioni diverse, ora accidentali e fortuite, ora alte e
profonde; ma soprattutto la sceglie pei gusti diversi, che sono
poi l'espressione delle nostre attitudini, della nostra struttura
morale e intellettuale.
Felice, tre volte felice, colui che la sceglie trascinato
imperiosamente, irresistibilmente dai bisogni del proprio
cervello e del proprio cuore.
Se vi sono tanti inetti e tanti altri che maledicono la propria
professione, è perchè appunto non hanno seguito nella scelta la
voce, che non inganna, della propria vocazione; ma son corsi
dietro a fantasmi, a fuochi fatui o hanno (ed è ancora peggio)
ubbidito a influenze esteriori.
Una volta però che abbiamo scelta una professione, essa è un
vestito che non si distacca più dalla nostra pelle, facendoci più
belli o più brutti del vero.
Hai mai veduto come muti aspetto la stessa persona, secondo il
vestito che indossa? Or bene una professione è più che un
vestito, più che un'uniforme: è una seconda pelle che con noi
vive e mentre su noi si modella, ci piega però alle sue esigenze,
al suo taglio, alla materia con cui è tessuta.
Gli uomini di genio o di ferrea volontà piegano la professione a
sè stessi e ne risentono alla loro volta una piccola influenza:
ma i più, cioè la gran massa degli uomini, si modella e si piega
secondo la professione che ha scelto.
Tizio è prima ingegnere e poi Tizio; e Sempronio è prima medico e
poi Sempronio; e Caio è prima prete e poi Caio; perchè le deboli
individualità, che sono la grande maggioranza, trovano nella
professione adottata uno stampo già preparato e unto per benino,
per cui vi colano la loro personcina, che vi si adagia, vi si
accomoda e vi si rapprende.
Vi sono tanti impiegati, tanti medici, tanti preti, tanti soldati
così eguali tra di loro, ch'io non sento mai il bisogno di
chiederne il nome e il cognome, e vedendoli e conoscendoli mi
accontento di dire:
è un impiegato! è un medico! è un prete! è un soldato!
Se sei persuasa di questa verità, capirai facilmente, quale e
quanta influenza dovrà esercitare sulla felicità tua e su quella
della famiglia la professione del tuo marito.
Lo stesso uomo, collo stesso cuore, colla stessa intelligenza,
colla stessa ricchezza sarà un marito diverso, secondo che sarà
banchiere o medico, militare o avvocato.
Non so, se altri prima di me abbia studiato l'influenza delle diverse
professioni sulla felicità nel matrimonio. Io ho osservato molto e
meditato moltissimo su questo argomento oscuro e difficile. Ed eccoti
il frutto delle mie osservazioni e dei miei studii. Prendilo per quel
che vale e in ogni modo metti tutto ciò che ti sto per dire in seconda
linea. Pensa prima al carattere, all'intelligenza, a tutto ciò che
costituisce l'uomo per sè e in sè, e poi e poi bada un pochino anche
alla professione, pensando che anch'essa porterà in casa tua fiori e
spine, che influiranno sulla tua felicità domestica.
*
* *
Le professioni, di cui cercherò di tracciarti il profilo veduto
nei suoi rapporti colla felicità domestica, son queste:
_Negoziante.
Banchiere.
Industriale.
Proprietario di terre.
Artista.
Ingegnere.
Medico.
Avvocato.
Letterato.
Scienziato.
Uomo politico.
Militare._
IL MARITO NEGOZIANTE.
Il mio illustre amico Pasquale Villari, or son già molti anni, ai
17 milioni di analfabeti scoperti dal Ministro della pubblica
istruzione, contrapponeva 5 milioni di arcadi scoperti da lui
(che a quei tempi l'Italia non contava che 22 milioni di
abitanti) e li trovava più colpevoli e soprattutto più pericolosi
dei primi. E aveva ragione!
Da quell'epoca con tante nuove scuole, colla legge
dell'istruzione obbligatoria e tante suonate in piazza e in
teatro sull'eterno motivo dell'_Excelsior_, gli analfabeti sono
diminuiti d'assai; ma sono forse diminuiti anche gli arcadi?
Io non lo credo: temo anzi che siano cresciuti.
E lo temo, perchè non si è ancora soppresso lo studio della
lingua greca nelle scuole secondarie.
Perchè si crede ancora che non si possa scrivere bene in
italiano, se non si studia profondamente il latino.
Perchè si insegna ancora la filosofia nei licei.
Perchè si crede nell'onnipotenza degli esami per garantire la
società dagli asini e dai muli.
Perchè esiste ancora l'Accademia della Crusca.
Perchè si crede ancora, che il Governo possa rialzare la
decadenza delle arti belle.
Perchè si esige dal Governo ogni cosa, dalla prosperità del
commercio alla distruzione della filossera; dalla sicurezza
pubblica all'immunità del colera; dalla ricchezza nazionale al
bel tempo.
E per un ultimo perchè. Perchè si crede, che la professione del
negoziante e quella dell'industriale sieno per gerarchia
inferiori a tutte le altre, che si chiamano liberali.
Per gli italici Arcadi il commercio non è una professione
liberale.
Eppure l'Inghilterra, che è la nazione più liberale dell'Europa
civile è anche la più commerciante.
Eppure Firenze, quando in una sola chiesuola battezzava tre
uomini che si chiamavano Dante, Michelangelo e Galileo, insegnava
le arti dell'alto commercio a tutto il mondo.
Eppure tutto il mondo umano è uno scambio di commerci; sia poi di
denaro, di merci, di idee, di territori, di influenze.
Tu però, figliuola mia, non ti vergognerai di sposare un
negoziante, se ne troverai uno, che abbia cuore e ingegno e che
non si vergogni di vendere e di comprare, arricchendo sè e il
proprio paese.
Tu, almeno in questo, non sarai arcade!
Il negoziante ama di solito la moglie e i figli, e pensando ad
essi, rialza in più spirabil aere anche la sete del guadagno, che
tenderebbe ad abbassarne il livello morale.
Quand'egli ritorna dal fondaco o dal banco contento
dell'andamento dei suoi affari, al rivedere i suoi cari pensa con
gioia, ch'egli ha lavorato per essi e che a lui dovranno la
cresciuta agiatezza, fors'anche una grande fortuna.
Come si riposa sereno e sorridente lo sguardo di lui sul capo
della dolce compagna, sulle testoline bionde che lo circondano;
quando pensa che farà a tutti e presto una grata sorpresa, e che
questa si dovrà al suo lavoro, alla sua attività, alla sua
industriosa intelligenza.
Se invece un giorno ha trovato che le cose sue volgono alla
peggio, se un fallimento improvviso ha dato una grave scossa al
suo bilancio, egli trova, ritornando a casa, che il sorriso
amoroso della moglie lo ricompensa di tutto; che le perdite di
denaro sono ben poca cosa, quando siamo sicuri di essere amati e
da questi confronti attinge lena e conforto per lottare contro
l'avversità e ripigliare il perduto.
*
* *
Senza tormentare il marito con un'inquisizione quotidiana e
minuta, ispiragli confidenza in te e fa che ti tenga al corrente
dei suoi affari.
Molte fortune si devono alla santa alleanza dell'ardimento
dell'uomo coll'economia della donna, della larga comprensione
degli affari collo studio minuto dei particolari.
Le donne, quando si mettono alla testa degli affari, riescono
quasi sempre benissimo, e il negoziante deve associare a sè il
tatto fine, la previdenza acuta, anche la timidezza della sua
compagna.
E se avessi la disgrazia di avere un compagno troppo avido di
ricchezza e che coll'eccessivo lavoro o le imprese troppo audaci
volesse raggiungerla, fagli da martinicca, modera le spese di
lusso, e mostragli che la felicità non ha proprio nulla che fare
colle tasse, che si pagano d'imposte dirette o indirette.
IL MARITO BANCHIERE.
Anche il banchiere è un negoziante, ma commercia in denaro; ed
essendo questa la merce più preziosa e più universale fra tutte,
anche la sua gerarchia sale d'un grado, anche perchè questa
specie di commercio esige più ingegno, più accortezza e in certi
casi molto coraggio.
Il banchiere può facilmente aprire le porte della ricchezza alla
propria famiglia e per le sue relazioni alte e molteplici, offre
alla moglie una società variata, divertimenti rumorosi; tutte le
compiacenze della vita mondana.
Se tu ami la quiete e la solitudine, se preferisci un piatto solo
a tavola, ma condito del sale della sicurezza dell'indomani, non
sposare un banchiere.
Nell'alta finanza le oscillazioni sono fortissime, e tu puoi
trovarti ricca oggi, povera domani.
è difficile che il banchiere non faccia risentire anche ai suoi
le angoscie tormentose che attraversa ogni giorno, leggendo e
commentando i listini della borsa.
In questo secolo nevrosico il banchiere e l'uomo politico sono
quelli, che più di tutti gli altri risentono le scosse di questo
nostro mondo, che si dibatte ogni giorno fra le scosse galvaniche
di chi lo vuol far correre e saltare e i delirii narcotici di chi
vorrebbe addormentarlo nei sogni del passato.
Fa di non lasciar solo il tuo banchiere sull'altalena vertiginosa
dei suoi giuochi. Accompagnalo col pensiero vigile, col consiglio
previdente; insegnagli che egli non deve giuocare che col
superfluo; lasciando sempre intatto quel campo in cui si semina
il pane e si raccoglie il vino.
S'egli è prodigo, sii tu avara, e per inerzia non dir mai a te
stessa, che gli affari di tuo marito non sono i tuoi e che non
hai nè diritto, nè intelligenza per occupartene.
Se senti il tuono, se vedi lampeggiare il cielo della tua
famiglia, informati dagli amici, dai conoscenti, se non sovrasta
una procella.
Quanti infelici di meno, quanti minori disastri nelle famiglie,
quanti meno cassieri fuggiti all'estero e quanti meno suicidi
sulla tavola anatomica; se noi dessimo alla donna, più larga
parte nella nostra vita di pensiero e d'azione!
Se non ne facciamo più una schiava, non ne abbiamo fatto che una
liberta; un animaletto gentile e domestico, che ci distrae e ci
diverte; ma non le confidiamo quasi mai gli affari gravi, non
fidandoci della sua segretezza e molto meno della sua intelligenza!
Di questo ingiusto disprezzo noi siamo i primi a scontare la
pena, perchè la donna ha un sesto senso, che è una seconda vista
e che le permette di vedere ciò che spesso molti uomini di genio
non sanno vedere. è il lato piccolo e debole delle cose, ma è
anche il tarlo, che corroderà il colosso; è un elemento
secondario, ma che basta forse a sconvolgere tutto un organismo,
a mandare in rovina tutto un affare.
Io mi son pentito molte volte di aver concluso un affare senza
averne chiesto consiglio a tua madre, alla mia, quando avevo la
suprema gioia di averla ancor viva. Mai mi son pentito di aver
sentito la voce e il pensiero di loro, prima di prendere una
determinazione importante.
Io avevo pensato, ripensato e meditato: avevo voltato la cosa per
diritto e per rovescio, con lente di microscopio e scalpello di
anatomico, credevo di aver anatomizzato ogni fibra e misurato
ogni cellula; ed ecco che all'occhio della donna di botto, senza
bisogno nè di tempo, nè di lenti, nè di scalpello, appariva il
lato debole, eppur onnipotente della questione; quello appunto
che io non avevo veduto e neppur sospettato! E non l'avevo visto,
perchè io era un uomo, e la tua mamma, la mia, lo avevano subito
scoperto, perchè eran donne e perchè la natura ha dato ad esse
gli occhi del cuore, che vedon le cose più profonde e le più
vere; quelle che toccano la salute e la felicità delle persone
che esse amano!
E non è forse per questo, che la natura provvida ha fatto l'uomo
diviso in due metà, disgiunte nei corpi, ma riunite in uno stesso
fiato d'attrazione e di amore; due metà che non possono viver
separate, che con dolore e coll'atrofia della vita in due; che è
poi l'unica vita vera e completa, quella che costruisce il nido e
crea gli uomini?
Nell'una delle due metà avete la sentinella previdente e vigile,
che spia il pericolo, che raccoglie il fremito del vento che
minaccia, del fulmine che s'avvicina; nell'altra il pugno che si
prepara alla difesa e all'offesa.
Dall'una parte la timidezza affettuosa, che esplora il terreno
spinoso, che getta da un lato le pietre che ingombrano il
terreno; il sorriso che appiana le rughe del pensiero affannoso o
del dubbio tormentoso.
Dall'altra parte il coraggio, che non misura il pericolo, il
pensiero che pesa il probabile e il possibile sulla bilancia del
bene e del male.
Da una parte i nervi che sentono, il cuore che ama, la carezza che
calma, il bacio che guarisce, il sistema nervoso dell'umanità.
Dall'altra i muscoli che si contraggono, la mente che vede
lontano, l'energia che rinfranca, l'eroismo che esalta, il
sistema cerebrale e muscolare dell'umana famiglia.
E non è che avvicinando queste due metà, che saldandole insieme
con quell'attrazione cosmica e divina, che è l'amore: che abbiamo
l'uomo, l'uomo vero e intero, l'uomo completo e felice.
*
* *
Se tu sposi un banchiere, ch'egli tenga pure la cassa forte, ma
tu sii per lui, per essa la chiave che la difende.
IL MARITO INDUSTRIALE.
In una gerarchia che mi son fatto io stesso per mio uso e
consumo, ma che non ha rapporto alcuno coi responsi della
Consulta araldica nè col famoso decreto del Menabrea, che metteva
i professori in ottava linea, io metto l'industriale molto al
disopra del negoziante ed anche del banchiere.
Il negoziante compra e vende, l'industriale produce.
Il negoziante prende da una mano e mette nell'altra, cercando che
in questo passaggio una parte (la più grossa possibile) rimanga
nella sua.
L'industriale è un creatore: plasma la materia e le dà nuova
forma, adopera le mani sue, quelle dei suoi operai, quelle delle
macchine, e quando riesce a far cose nuove o a far meglio e più
presto d'un altro una cosa vecchia, arricchisce sè e il proprio
paese.
Dio volesse che tu sposassi un'industriale!
Ma nel nostro paese ne abbiamo tanto pochi, che sarà assai
difficile che tu lo trovi, e che sia degno di te e a modo mio.
L'industriale deve essere un alleato dei suoi operai, non un
parassita del lavoro altrui: deve essere il loro amico, non il
loro tiranno.
Ogni giorno, ogni ora del giorno deve ricordarsi, che il gran
problema dell'associazione del capitale e del lavoro non è punto
risolto, e che sono gli industriali i primi, che devono
concorrere alla sua soluzione equa e pronta.
E tu, cara figliuola mia, se avrai per marito un industriale,
devi persuaderlo ch'egli deve essere socialista, se non vuole
vivere di rapina e andar incontro ai pericoli di una rivoluzione
sociale.
Non aspettino i capi delle officine, che i parlamenti risolvano
il problema sociale. Lo risolvano essi pei primi.
Applichino la mezzadria al lavoro delle loro fabbriche, come già
in Toscana e in altri paesi fu sapientemente e umanamente
applicata a quell'altra industria, che è l'agricoltura!
IL MARITO PROPRIETARIO.
è un buon marito, se non si accontenta di possedere, ma si occupa
egli stesso delle sue terre e le coltiva e le ama e si studia di
portare un po' di luce di scienza nelle tenebre profonde
dell'empirismo contadinesco.
Se invece il proprietario non visita mai i suoi poderi, se
l'affitta e si accontenta di goderne le rendite negli ozii
cittadini, egli cade nella categoria dei mariti fannulloni e non
può dire di certo di esercitare alcuna professione.
Accompagna, sempre che puoi, il tuo proprietario nelle sue terre,
e persuadilo ad andarvi spesso, spessissimo.
Quanta salute fisica e morale verrebbe alla nostra società
nevrosica e nevrostenica, se tutti quelli che hanno un palmo di
terra, l'amassero e la coltivassero; se andassero tutti ad
accarezzare le piante, a sdraiarsi sul prato, a cogliere colle
proprie mani un frutto cresciuto nel loro campo; fosse pure quel
frutto un fico stento o una mora di siepe.
Hai mai odorato la terra, quando dopo una lunga siccità, beve le
prime gocciole della pioggia, e le assorbe avidamente coll'ansia
voluttuosa di una lunga sete?
Per me tra tutti i profumi quello è il più caro, il più
simpatico, il più penetrante. Non vellica soltanto di fuga le mie
narici, ma scende giù giù nel fondo del cuore e del paracuore e
mi sento anch'io ritornato terra (come lo fui prima di nascere) e
mi par di bevere alle prime sorgenti della vita, tutto quanto
trasformato in una spugna molle e minuta di radici e di
radicelle, che assorbono le forze del pianeta, per trasformarle
in pane, in vino, in profumo di fiori e in ossa di tronchi.
Mai in nessun altro momento io mi sento parte viva del mio
pianeta, come quando aspiro voluttuosamente il profumo della
terra, che beve l'acqua del cielo.
Fa di bevere più spesso che puoi quel profumo in compagnia del
tuo proprietario e fallo bere ai tuoi figliuoli, e portatevelo a
casa e in città come un tonico amaro, che ci aguzza l'appetito e
ci rifà il sangue.
L'amore alla terra è il più salubre, il più caro degli affetti, e
tu, coltivandolo nel tuo compagno, farai opera santa, e portando
nella casa del contadino le tenerezze del tuo cuore di donna e
mettendolo a braccetto della scienza agricola di lui, farete più
e meglio per il bene dell'Italia, che tutti i legislatori passati
e presenti colle loro leggi sociali, che mi fanno ridere e che
rimangono negli Archivii dei Parlamenti, come insigni monumenti
del nostro arcadismo sentimentale, del nostro vaniloquio
parlamentare e giornalistico; di quella falsa filantropia, che
coll'elemosina o col rialzare o l'abbassare dei dazii d'entrata e
d'uscita, crede o spera di risolvere il magno e terribile
problema della questione sociale.
IL MARITO ARTISTA.
A meno che l'artista sia uomo di genio o abbia un cuore di
angelo, non sposarlo mai.
Se è mediocre, è lo spostato degli spostati. Colla testa in alto
per cercar sempre un bello ideale, che gli sfugge, inciampa coi
piedi nella miseria che avvilisce, nell'invidia che tortura
l'anima, nella displicenza cronica, che corrode i germi della
vita.
L'artista mediocre accusa tutti fuor che sè stesso della sua
impotenza. Ama il bello come gli eunuchi aman le donne e cerca la
gloria per le vie di traverso dell'impressionismo, del _pointillé_,
dove la gloria non ha mai messo il piede. Si lamenta come un genio
incompreso, senz'esser genio, e divien cattivo come uno che fosse in
una volta sola punto e perseguitato da tutte le mosche, da tutte le
pulci, da tutte le zanzare, che brulicano in questo nostro mondo
planetario.
Ed egli porta in casa tutti questi parassiti che lo mordono, che
lo pungono per ogni lato, e fa pungere da essi anche la moglie,
anche gli amici e tutti quelli che lo circondano.
Vive, lamentandosi ogni giorno e ogni ora dell'ingiustizia degli
uomini, che non lo intendono, dei signori che non gli comprano
gli aborti della sua tavolozza malata e dei suoi scalpelli
spuntati. Maledice Rafaello e chiama barocco Michelangelo e si
mette accanto a Galileo condannato dall'Inquisizione e a Colombo
deriso dai monaci di Spagna. Se parla di altri artisti più
fortunati, li copre della bava avvelenata della sua invidia
rappresa, dei suoi rancori isterici.
è un infelice cattivo, è un aborto che si permette di vivere e che
concentra tutta la sua vita in un lamento e in una maledizione.
*
* *
Anche l'artista di genio, anche l'artista incoronato coll'aureola
della gloria, è un marito pericoloso, e se tu sei gelosa, non
devi sposarlo.
Sua prima amante è l'arte e ti metterà sempre al disotto di essa.
Egli è anche poligamo per natura e per elezione difficilmente può
amare una donna sola e circondarla di tutte quelle tenerezze
quotidiane, che sono neccessarie a lei come il pane, come l'aria
che si respira.
Pensa alle modelle, che deve veder nude dinanzi a sè nel segreto
del suo studio, pensa a tutte le belle signore, che tanto
facilmente si innamorano di lui e ch'egli deve ammirar tanto da
vicino; così spesso, così intimamente.
Tu sei bella e tu sei giovane, ma sei una donna sola, e non puoi
avere tutte le bellezze, delle quali egli ha bisogno per appagare
la sete insaziabile estetica, che lo divora e lo consuma.
Se io fossi nato artista, non avrei avuto per amante e per moglie
che l'arte; e sarei morto vergine o almeno casto come il Canova e
come Michelangelo.
IL MARITO INGEGNERE.
La professione d'ingegnere esercita una influenza molto oscura e
difficile a definirsi sulla felicità del matrimonio.
L'ingegnere batte così larghe le ali sul mondo dell'attività
umana, da assumere le forme le più svariate.
Quando si accontenta di numerare colle sue palline i filari di
gelsi o di misurare i campi, i prati e le foreste, è un semplice
agrimensore.
Quando siede nella poltrona delle amministrazioni ferroviarie, è
un semplice impiegato, che rimane all'ufficio le sue sei o otto
ore al giorno, porgendo alla moglie tutti i vantaggi e le noie
del _travettismo_.
Quando invece si innalza alla dignità di costruttore di ferrovie,
di ponti, è quasi un artista ed è sempre uno scienziato.
Anche Grattoni, anche Sommeiller, anche Watt e Fulton furono
ingegneri. Anche Eiffel è un ingegnere, lo è il Lesseps; e
passeranno tutti all'immortalità ed ebbero o avranno le loro
statue.
Il presente è degli ingegneri, l'avvenire prossimo e remoto sarà
degli ingegneri, e ad essi rimane aperto un orizzonte grande come
il mondo, alto come la vetta della civiltà futura.
Ed è perciò, che se il tuo pretendente oltre il diploma
d'ingegnere ha molto ingegno, potrai goderti una grande
agiatezza; fors'anche la gloria e la ricchezza.
Di tutte le forme svariate dell'ingegnere, sempre ad altre
circostanze pari, scegli quella che obbliga il marito a molte
assenze.
Fuggirai i pericoli della uniformità soverchia della vita, che è
tanto vicina alla monotonia, alla noia, al raffreddamento lento e
inevitabile dell'amore; e tu ti godrai tante piccole lune di
miele, quanti sono i ritorni del tuo dolce compagno.
Se tuo marito parla dei suoi progetti, delle sue imprese, se ti
mostra i suoi disegni, non dirti profana del tutto ai suoi
studii. Mostra anzi di interessarti ai suoi lavori.
Ogni lavoro d'uomo, per esser giocondo e fecondo, deve esser
accompagnato dall'ombra del pensiero femminile. La donna deve
essere sempre compagna nostra in ogni pensiero, in ogni opera di
mano o di cervello. Essa è il sale d'ogni nostro cibo, la poesia
d'ogni nostro travaglio.
IL MARITO MEDICO.
La donna, che sceglie per marito un medico, deve amarlo non una
volta sola, ma tre volte.
è questa una professione piena di pericoli per la felicità
domestica.
Se sei gelosa, devi tremar sempre per la fedeltà del tuo
compagno. Egli ha troppe occasioni a peccare e troppa impunità a
delinquere. Tu devi stimarlo molto, moltissimo, devi essere più
che sicura del suo amore per non essere in continua agitazione.
Di giorno, di notte, sempre, può lasciare il nido della sua casa,
e non tutte le chiamate sono di infermi; ma ve n'ha di inferme,
che non hanno di malato che il cuore.
Può anche lasciare la città dove abitate, chiamato da telegrammi,
che non sono sempre veri.
Se sei molto delicata per certe cose, devi rassegnarti con dolore
a racconti, che non parlan sempre di fiori.
Il tuo povero marito vive sempre tra le piaghe e i dolori; lascia
il letto d'un agonizzante per medicare un cancro; può puzzare di
iodorformio o di acido fenico, e tu involontariamente a tavola
puoi pensare, che la mano che ti pela un frutto è la stessa, che
un'ora innanzi ha razzolato nelle viscere d'un cadavere o ha
operato un tumore.
Pensa prima a questi pericoli, se hai i sensi troppo suscettibili
e la fantasia troppo fervida.
Non sposare mai un medico di poco ingegno e di poca coltura e che
sarà costretto a viver sempre nel pantano della mediocrità. Egli
rassomiglia molto all'artista incompreso ed è uno fra i più
infelici operai della grande officina sociale.
Nell'arte medica non si sta benino che nei palchi di prima e
seconda fila. La platea è una prigione, il lobbione una galera.
La guerra dei colleghi, l'ingratitudine e le esigenze dei malati,
l'ambiente di dolori in cui dobbiamo vivere, fa della nostra arte
la più difficile e la più spinosa e non può assorgere a più
spirabil aere, che quando ci riscalda l'amore degli uomini e
possiamo aspirare alla gloria.
è allora che Clotilde giovane e bella può essere felice di essere
l'amante e la compagna del Dottor Pascal; è allora che una donna
di cuore e di ingegno può essere felice di essere la moglie di un
medico.
Molte donne, che nei loro sogni di fanciulla desideravano di
essere dottoresse o suore di carità, trovano, sposando un medico,
una via indiretta per realizzare il loro sogno pietoso.
Esse sono fiere e felici di accompagnare col pensiero ed anche
coll'opera il loro compagno in quella missione di sagrifizii
continui, in quel travaglio quotidiano, che è un apostolato e
spesso anche un martirio. Esse sono beate di confortarlo, quando
sconfortato dall'ingratitudine degli uomini o dall'impotenza
della scienza ritorna a casa coll'amarezza nel cuore e colle
lagrime negli occhi!
Quante volte la tua buona mamma mi ha dato il coraggio che mi
mancava, per continuare il mio cammino: quante volte mi ha
mostrato la meta lontana e gloriosa ed è riuscita a farmi
benedire la professione che io liberamente aveva scelto e che nei
primi anni mi sembrava un Calvario; che non aveva altri compagni
per via che triboli e spine e che sulla vetta non mi mostrava che
una croce!
Nè soltanto ella si occupava di me, ma dei miei malati e mi
accompagnava spesso nelle mie visite ai poveri, nelle capanne
della campagna o nei bugigattoli asfissianti della città; dove
più che i soccorsi dell'arte doveva portare i conforti della
pietà o i soccorsi della carità.
Essa era il mio angelo confortatore in casa, la mia alleata nelle
opere pietose al di fuori, ed io ero benedetto per merito suo e
per opera sua benedicevo la mia arte, così difficile, così
oscura, così travagliata da tutte le miserie morali e da tutti i
dolori fisici del povero bipede implume.
Essa è riuscita a coltivare in me l'amore delle cose difficili,
che io aveva da natura; e ad ogni difficoltà che io incontrava
sul mio cammino, ad ogni calcio villano che mi tiravano i miei
colleghi o ad ogni brutale schiaffo dei miei malati trovava in sè
nuove parole di conforto, nuove carezze, nuovi impeti del cuor
generoso.
M'è perfino avvenuto, che il contravveleno che essa mi porgeva mi
sembrasse così dolce, da desiderare nuovo veleno per aver poi nel
nido della mia casa più dolci carezze, più caro conforto:
"Ma non ami tu forse le cose difficili? Ebbene tu hai scelto per onor
tuo la difficilissima e la spinosissima fra tutte le arti; e qui
appunto, _si parrà la tua nobilitate_, e più alto e glorioso sarà il
premio, quanto più contrastata e fiera sarà stata la lotta. In fondo a
questa via troverai la massima delle compiacenze umane, quella di aver
sparso intorno a te tante benedizioni, quella di aver fatto tacere
tanti dolori, di aver salvate tante preziose esistenze, di aver forse
aggiunto all'avara scienza nuove scoperte, nuove invenzioni, risorse
nuove."
E la tua buona mamma aveva ragione, perchè le posizioni facili
d'una vita senza contrasti, d'una lotta senza forti avversarii,
se non ci possono dar forti dolori, ci negano anche le gioie più
calde e più inebbrianti.
Poco travaglio, poco dolore e poca gioia.--Molto travaglio, molta
fatica, ma anche voluttà senza nome.
Il mondo non l'abbiam fatto noi e dobbiamo accettarlo com'è, e là
si vuole, che la vittoria non si abbia che dopo la lotta. Se si
rinuncia a lottare, si deve anche rinunziare ai trofei della
gloria.
Io ti ho mostrato nella professione del medico i due lati della
medaglia, i quali son forse tra di loro in più fiero contrasto
che in qualunque altra posizione sociale.
Tocca a te il guardarli ben bene e il giudicare, se ti senti il
coraggio di affrontare il male colla speranza di raccogliere
anche il bene.
In ogni modo non sposare mai e poi mai un medico mediocre.
IL MARITO AVVOCATO.
Se mi si chiedesse qual'è la nazione più morale, risponderei
subito:
--Quella, che ha un numero minore di avvocati.
Non già perchè essi stessi rappresentino l'immoralità di un
popolo e sieno quindi da mettersi fra i ladri, gli assassini e
tutte le altre infinite varietà dell'uomo delinquente; ma perchè
essi non possono vivere che dell'immoralità altrui. Essi sono i
bacilli della corruzione sociale.
Una società sana non avrebbe bisogno di medici. Una società
idealmente morale non avrebbe bisogno nè di avvocati, nè di
carabinieri, nè di soldati.
Tutti questi bacilli d'un mondo fisicamente o moralmente malato
devono sparire in una società futura più sana e più morale della
nostra. Io morrò in questa santa fede e tu trasmettila ai tuoi
figliuoli.
Mentre però guardiamo cogli occhi della speranza in un avvenire
migliore e molto lontano, noi abbiamo gli avvocati e ne abbiamo
pur troppo molti, moltissimi, troppi: tanto che non avendo
sufficiente _materia peccans_ per vivere, e trovando ancora
insufficiente l'immoralità pubblica per potersi nutrire, e
prolificare, fabbricano spesso essi stessi la gelatina delle
contese e delle cause per vivere, o invadono i campi della
politica, portandovi, le loro spore e i loro micrococchi.
Oh perchè mai con tante leggi draconiane, con tanti ostracismi
ingiusti di incompatibilità parlamentari, non abbiamo ancora
avuto un ministro così savio e così coraggioso da proporre
l'esclusione degli avvocati dal Parlamento?
Perchè?
Perchè i ministri dell'interno son quasi tutti avvocati e i
deputati sono in gran parte avvocati e il suicidio è un delitto!
Eppure quella savia esclusione basterebbe a moralizzare
l'ambiente parlamentare, a risanarlo e a prolungare la vita del
nostro parlamentarismo tanto malato.
Ma io, tesorino mio, non devo parlarti dell'avvocato che come
marito possibile; e gli avvocati son tanti e anch'essi hanno come
tutti i galantuomini il diritto di prender moglie.
L'avvocatura per sè stessa esercita una piccola influenza sulla
felicità del matrimonio.
L'avvocato è generalmente una persona colta, esperta delle umane
vicende, per lo più eloquente; che anche in amore adopera bene le
armi della parola, dei sofismi e dei sillogismi.
Hanno però una facile tendenza a scambiare la verità colla bugia,
dovendole adoperare egualmente bene nelle esercitazioni del Foro
e dovendo per loro ufficio persuader gli altri di ciò, di cui
essi stessi non sono convinti.
è naturalmente questione di arte, che può non intaccare il fondo del
cuore. Un avvocato deve difendere un ladro, un omicida, un falsario;
ma non per questo deve approvare in cuor suo il furto, l'omicidio e il
falso. Egli è come l'attore drammatico, che non diventa un tiranno
perchè rappresenta Luigi XI, nè un imbroglione, perchè fa la parte di
Rabagas.
Questa continua ginnastica però, questo continuo maneggio di
sofismi, questa elasticità eccessiva, questa abilità di preparare
le trappole dell'eloquenza tendono involontariamente ad appannar
la coscienza del bene e del male e a confonderli alquanto;
dovendo l'avvocato passare dall'uno all'altro, e continuamente,
nei suoi attacchi e nelle sue difese.
Diffida dunque un tantino dell'eloquenza degli avvocati, quando
essi l'adopreranno per farti una dichiarazione d'amore: accettala
con un largo benefizio d'inventario. Cerca insomma di scoprire
l'uomo al disotto del causidico, e se quello val meglio di
questo, dimentica il mio giudizio forse troppo pessimista e
dovuto alla mia dolorosa esperienza, che mi ha costretto ad
adoperare gli avvocati più di quanto io avrei desiderato.
Molti avvocati, anche fra i più abili maneggiatori di trappole
forensi, anche tra i più ingegnosi compilatori di lunghe e
pesanti note pei loro clienti; quando entrano nel nido della
famiglia, sono felicissimi di lasciar la toga e le bugie
nell'anticamera del tribunale.
E là fra le braccia d'una moglie adorata e i sorrisi dei loro
bambini aspirano a larghi polmoni l'atmosfera della verità vera;
di quella che non si piega mai alle esigenze delle Pandette o del
cliente.
Là non hanno bisogno di adoperare quei fini e complicati congegni
dei _se_ e dei _ma_, nè di ricorrere alle reticenze piene di
malizia, nè di abbagliare il pubblico coi fuochi artificiali
della rettorica nè colle false lagrime nè cogli sdegni a freddo.
Là anche l'avvocato ama e vuol essere amato. Là senza toga è
felice di ritornare anch'egli un uomo; null'altro che un uomo.
IL MARITO LETTERATO.
Avrei dovuto mettere il marito letterato in compagnia del marito
artista, col quale ha comuni molti caratteri; ma siccome ne ha di
proprii e siccome d'altronde molti letterati non sono punto
artisti, te ne parlerò a parte.
Ciò che ha di comune l'artista della penna con quegli altri che
maneggiano il pennello o la stecca, è l'assoluta proibizione di
essere mediocre, a meno di rassegnarsi a tutte le umiliazioni e a
tutte le miserie, che con mano così feconda genera la mediocrità.
Si può e spesso si deve mangiare il pane, anche se è cattivo,
perchè il pane è necessario; ma l'arte è un oggetto di lusso e il
lusso deve risplendere di tutti gli splendori del bello e del
grande.
I poetini, gli scribaccini, gli autorini sono i nani del
pensiero, i rachitici dell'arte, e non possono che ispirare la
compassione, quando non riescono almeno coi loro aborti a farci
ridere.
Una volta il fare un libro pareva a tutti impresa eroica. Ci si
pensava un anno almeno, prima di farlo; si impiegavano molti anni
per scriverlo; e poi dopo lunghe incertezze e timori senza fine
si osava lanciarlo sul mare tempestoso della pubblicità.
Oggi si fa un libro colla stessa facilità con cui si giuoca una
partita a tresette, e gli autori nascono a centinaia, a migliaia,
in una vera orgia di fecondità inesauribile.
Versi e giornali e romanzi pullulano nelle aiuole dei giardinetti
arcadici o nei campi dell'analfabetismo universale e i bollettini
bibliografici fanno volumi e la critica non ha neppur la fatica
di mandare tutti questi aborti e questi parti immaturi al
cimitero, perchè da sè stessi si uccidono e da sè stessi si
seppelliscono.
è legge universale, che la mortalità è in ragione diretta della
fecondità, e nelle famiglie dove nascon troppi figliuoli, il
becchino e il prete hanno molto da fare.
Non sposar dunque mai un letterato mediocre. Soffrirai la miseria
del pane e quella più crudele della sete insaziata di gloria.
Pur troppo tra noi le condizioni della letteratura sono ancora
così miserabili, che anche gli scrittori di genio, che possono
vivere della sola penna, son così pochi in Italia da poterli
contare colle dita d'una mano sola. E anch'essi son passati
attraverso un lungo e doloroso martirio prima di giungere alla
gloria e alla fortuna.
I più, anche tra i migliori, son costretti a chiedere una cattedra o a
darsi al giornalismo, per poter riunire decorosamente i due capi
estremi del loro bilancio domestico.
Il letterato porta nell'ambiente della famiglia più fiori che
frutti, ma anche i fiori sono una gran bella cosa; e tu passerai
ore liete e poetiche, quando il tuo compagno ti leggerà commosso
le ultime pagine d'un suo libro, ancor calde dell'amore della
creazione, e spierà nei tuoi occhi l'emozione o il plauso.
E la sua coltura porterà nella conversazione della famiglia molte
idealità, e tu e i tuoi figliuoli respirerete un'aria, che sa di
primavera; e forse troverete che le gioie maggiori della vita son
sempre quelle che costano meno, ma che germogliano da tutte le
poesie del pensiero e dalle estasi del sentimento.
Sposa dunque pure anche un letterato, ma ch'egli sia sommo.
IL MARITO SCIENZIATO.
Questo marito è stato sempre un prezioso zimbello tra le mani dei
romanzieri e degli scrittori di commedie. Anche il sommo Balzac
lo classificava tra i _predestinati_.
Lo scienziato dell'antico stampo va però scomparendo od è già
scomparso; e l'antropologo fra pochi anni, nel metterlo a
catalogo nel suo _Sistema hominis_ dovrà scrivergli accanto le
parole: _specie estinta_.
Era un uomo spesso sudicio, quasi sempre distratto, che non si
occupava d'altro che dei suoi insetti o delle sue piante, del suo
laboratorio o delle sue medaglie, e per lui il resto del mondo
non esisteva.
Prendeva moglie per igiene o per avere chi badasse alla sua casa
e credeva come in un dogma, che la moglie dovesse esser fedele al
marito, quando questi non le era infedele.
Uomo felice, se mai ve n'era uno, non faceva però felici quelli
che vivevano con lui. Istrumento monocorde e che suonava una sola
nota, non poteva mettersi in nessuna orchestra, neppure nel più
modesto terzetto.
Oggi si coltiva la scienza senza dimenticare che si è uomini, e
che l'essere membri della società umana ci impone il dovere di
essere puliti, cortesi con tutti, galanti colle signore.
Si può oggi essere membri di molte accademie senz'esser noiosi;
si può avere una cattedra delle più alte o delle meno popolari
della scienza senz'esser pedanti. Si può misurar le antenne di un
insetto o la lunghezza di un microbo, misurare gli angoli di un
cristallo o il diametro del sole, senza credere che il mondo
finisca nel breve giro dei nostri studii.
La vita moderna ha per carattere principalissimo di dilagar per
ogni verso, in alto, in basso, a destra, a sinistra; nell'angolo
più oscuro e nelle miniere più profonde. Dovunque respira un uomo
o sospira una donna il pensiero di tutti penetra e s'infiltra, e
nessuno può fuggire a quella corrente, che circola lungo i fili
telegrafici di tutto il mondo, che vibra in ogni pagina di libro
o di giornale.
Si son strappate tante siepi; si son rotte tante dighe, che oggi
riesce impossibile ad un uomo di esser solo e di vivere della
sola propria vita. Ognuno di noi vive in tutti e un po' di tutti
vive in noi.
Un filosofo antico avrebbe desiderato che le case fossero tutte
di vetro, perchè nulla sfuggisse della vita privata. Noi abbiam
fatto qualcosa di più e di meglio, sorpassando di molto il suo
sogno. Noi abbiam fatto penetrare nelle case di tutti la vita
dell'umana famiglia, e senza distruggere l'individuo, ne abbiam
fatto un membro vivo e palpitante di tutto l'organismo umano.
è per tutte queste cose, che lo scienziato può essere anche un
ottimo marito. Anzi lo è spesso e più facilmente dell'artista e
del letterato.
I suoi studii sono spesso aridi e sterili. S'egli non è un Newton
o un Lavoisier, un Linneo o un Darwin (e di questi basta che un
secolo ne abbia uno), il frutto del lungo e sudato lavoro è molto
scarso.
Guai se lo scienziato non avesse in sè una passione ardente,
insaziabile del vero; se si scoraggiasse del tanto cammino
percorso senza trovar nulla e della triste e frequente necessità
di tornare addietro e rifare la via. Guai a lui se non amasse i
suoi insetti, le sue piante, le sue medaglie come suoi amici e
quasi consanguinei. Noi non avremmo nessun scienziato in questo
mondo!
Per tutte queste ragioni però, quando egli ritorna a casa dal suo
museo o dal suo laboratorio, è avido di tenerezze, di poesia; di
qualcosa di profumato e di giocondo, che lo riposi dal lungo
travaglio e lo porti in un nuovo mondo.
E questo gli è dato dalla dolce compagna, dai bambini chiassoni e
ridenti.
Il marito scienziato è anche tra i più fedeli, non avendo tempo
che basti e coraggio che valga per cercare il peccato.
IL MARITO POLITICO.
Se sei ambiziosa, figliuola mia, sposa un uomo politico. S'egli
ha ingegno (non importa molto) e molta abilità, ti porterà in
alto, dove giungono gli _evviva_ delle moltitudini, il luccicare
delle decorazioni e delle giubbe dorate, e dove non mancano
neppure i biglietti di banca.
Se invece ami la quiete, la modestia serena di una casa, in cui
non entri lo squillo delle bande festanti, ma neppure la pietra
dei malcontenti; non sposare mai un uomo politico.
L'uomo politico è un soldato, ma che non si rassegna a rimanere
semplice fantaccino. Vuol essere, nei casi di massima modestia,
almeno sottotenente; ma quasi sempre aspira all'elmo piumato del
generale.
Ingegno, astuzia, coltura, fierezza d'orgoglio e transazioni di
coscienza, tutte le armi del bene e del male egli deve adoperare
per giungere a quell'elmo piumato. Se per via può anche giovare
alla patria, tanto meglio. Diverrà generale, senza perdere il
glorioso battesimo di patriota.
Siccome la politica è l'arte di governare un paese, tocca tutto e
tutti, e quindi un po' politici lo dobbiamo per amor di patria
esser tutti; non fosse che nella modesta missione di elettore
amministrativo.
E siccome la politica tocca tutto e tutti, ne viene anche, che
essa va dall'uno all'altro polo delle umane energie; dal martirio
dell'eroe alla forca del delinquente; dal cielo dell'angelo
all'inferno del demonio; dall'arco trionfale alla galera.
Ecco perchè l'uomo politico è spesso e dovrebbe esser sempre
soldato; mentre è invece talvolta brigante.
Soldato e brigante maneggiano le stesse armi, ma con questa
semplicissima differenza, che il primo difende la legge e la
patria, il secondo difende il proprio interesse.
In un Parlamento (fosse pure l'ultimo fra tutti) abbiamo confusi
insieme briganti e soldati. Vestono nella stessa maniera, siedono
sugli stessi scanni e pur troppo devono spesso votare insieme,
confondendo così nella coscienza popolare, ogni giorno e
brutalmente, il bene e il male; il sagrifizio di sè stessi alla
patria e il sagrifizio della patria a sè stessi.
Il Cristo tra i due ladroni è un'immagine fedele di un banco
parlamentare od anche ministeriale. Nei casi più fortunati
abbiamo un ladrone fra due Gesù.
Se tu hai influenza sull'animo di tuo marito, uomo politico;
tiengli alto il cuore, senza eccitar mai la sua ambizione.
Questa nel maschio umano non ha quasi mai bisogno di eccitanti,
spesso invece ha bisogno di deprimenti.
La missione della donna è invece quella di essere la vestale
delle nostre idealità, della nostra onestà politica, che è poi
una cosa sola colla onestà domestica. è sacrilega distinzione,
quella di due onestà e ho sempre rabbrividito, udendo queste
parole, che giudicavano un uomo:
--_è un gran galantuomo nella vita privata, ma in politica_....
La somma di molti galantuomini fa una nazione onesta.
La somma di parecchi disonesti basta a disonorarla.
Dove nasce un'epidemia panamistica o cuciniellana, il paese è
profondamente malato e se non si giunge in tempo all'amputazione,
la gangrena secca invade tutto l'organismo e la nazione muore.
E siccome nessuna forza si distrugge, anche la donna nel modesto
giro della propria famiglia può e deve essere un'energia, che
risana, che risangua, che attiva la vigoria morale di una
nazione.
Che il tuo marito sia sindaco o deputato, senatore o ministro, fa
di essere fiera della sua onestà prima che del suo ingegno, della
sua lealtà prima che delle sue commende; e tu seguilo coll'occhio
vigile dell'affetto che ama, ma non transige; del cuore che si
intenerisce, ma non vacilla nelle ore di Getsemani, quando la
coscienza lotta tra le tenebre coll'ambizione o colla sete
dell'oro.
IL MARITO MILITARE.
Parrebbe a priori, che il soldato deva essere il pessimo di tutti
i mariti. Abituato ad imporre e a subire una disciplina ferrea,
vivendo sempre in un ambiente artificiale al di fuori della
società, in cui tutti quanti respiriamo e camminiamo; festeggiato
dalle donne, perchè rappresentante della forza e perchè vestito
d'un'uniforme; costretto a mutare ad ogni tratto di guarnigione;
egli dovrebbe essere un cattivo marito.
L'esperienza invece, che non ragiona, ma ci dà i frutti della
natura, ci dice che il marito militare è l'ottimo tra tutti i
mariti; sempre ad altre circostanze pari.
Io mi son domandato sempre il perchè di questa contraddizione fra
ciò che ci suggerisce la teoria e ciò che ci dimostra la pratica,
e confesso, che per quanto aguzzassi lo sguardo e gettassi
profondo lo scandaglio in questa regione della psicologia umana,
rimasi col desiderio di sapere e con molte ipotesi in testa; che
è quanto dire con un pugno di mosche in mano.
Che Venere sia stata, sia e sarà sempre l'amante di Marte, è
facile a capirsi e inutile a spiegarsi, perchè poeti, filosofi e
psicologi (che non è la stessa cosa) e scrittori di romanzi hanno
esercitato penna e pensiero su questo tema.
Ma Marte non è marito, ma amante, e la cosa è ben diversa; e il
Marte moderno, che si chiama tenente di corvetta o capitano dei
bersaglieri o maggiore del genio o simili è quasi sempre un
ottimo marito.
è forse perchè il militare, dopo aver conosciuto i volgari amori
della piazza e le facili avventure delle brevi guarnigioni, dopo
avere insomma amato molte femmine, desidera conoscere e amare una
donna?
è forse perchè il soldato è sempre un uomo scelto fra molti e
quindi bello e forte e molto maschio?
è forse perchè la vita artificiale e regolamentare, che lo
opprime e lo schiaccia per tante ore del giorno, gli fa sentire
più vivo il bisogno di una casa senz'altro regolamento che
l'amore, senza altri ordini del giorno che le carezze quotidiane?
è forse perchè la casa è il miglior contravveleno della caserma e il
desinare in famiglia il premio di tanti pranzi nelle mense?
è forse perchè il militare abituato a farsi la propria valigia, a
curare le proprie cose, a tenerle in ordine e in grande pulizia,
è una specie di buona _ménagère_ e portando tutte queste
abitudini e abilità in una famiglia, è anche per questo un ottimo
marito?
è forse perchè obbligato sempre ad applicare una disciplina molto
dura, a fare il burbero per forza; è felice di abbandonare in
famiglia le redini del comando e d'essere compiacente e tenero
colla moglie e i figliuoli?
Per quale di queste ragioni la donna, sposando un soldato, ha
maggior probabilità di esser felice?
Forse per nessuna di esse esclusivamente, ma per tutte quante
prese insieme.
*
* *
Del resto la ragione delle cose stuzzica e appaga la nostra
curiosità di sapere, ma il conoscerla non è sempre necessario;
per la più parte degli uomini inutile.
I più grandi problemi dell'universo e della vita ci sono del tutto
oscuri, e ciò non ci ha impedito di camminare sempre avanti nella via
del progresso e di cambiarci da selvaggi antropofagi in gente civile,
che si veste, che nasconde le miserie animalesche dell'esistenza; che
parla col telefono e cammina colla locomotiva.
Accontentiamoci dunque di dire, che il soldato è quasi sempre un
ottimo marito e lasciamo ai posteri il trovarne il perchè. Sarà
una delle tante _x_, che lasciamo ai posteri con quella larga
eredità di _perchè_, di _come_, di _quando_, che trasmettiamo ai
nostri figliuoli, perchè alla loro volta la lascino ai pronipoti
dei nipoti lontani.
_Altri consigli del babbo a sua figlia nella scelta del marito._
Cara e dolce mia figliuola, vorrei che tu dimenticassi tutti
quanti i consigli, che ti ho dati fin qui per non ricordarti che
di questo, che tutti quanti li domina dall'alto della sua
importanza, che tutti quanti li abbraccia come una mamma, che in
un solo amplesso si stringe al cuore tutti i suoi bambini.
E il consiglio, per quanto importante, per quanto grande, sta
tutto chiuso in una sola linea:
--_Meglio rimaner ragazza per tutta la vita che maritarsi male_.
*
* *
Invece ai nostri tempi, si crede e si fa precisamente il
contrario.
Il rimaner ragazza è creduto una vergogna, e ci si marita
mediocremente, se non si può bene; e male se non si può
mediocremente.
--_O un marito o la vergogna!_
E naturalmente si sceglie il marito.
Lo sposo è brutto o antipatico, o malaticcio o stupido. A
quarant'anni non ha saputo ancora farsi una posizione. Lo dicono
donnaiuolo, giuocatore, fannullone. è vecchio e acciaccoso. I
suoi parenti son disonorati.
Non importa!--Egli è un uomo e quindi un marito.
Piuttosto che la vergogna di morire ragazza, venga il brutto, il
vecchio, il libertino, il fannullone!
Lungo il viaggio la soma si aggiusterà da sè.
*
* *
Nulla di più sciocco, di più falso, di più immorale di questo
dilemma, conseguenza alla sua volta di tutto un lungo passato di
un'educazione falsa, di una falsa morale; frutto di una pianta
venuta su nel terreno dei pregiudizii più rancidi, dell'ignoranza
più crassa dell'umana dignità, dei suoi diritti e dei suoi
doveri.
*
* *
In Inghilterra, in America, un po' meno in Germania, in Russia,
in Olanda molte signorine non prendono marito per libera
elezione, e non perchè sian gobbe o guercie o zoppe.
Esse non hanno avuto la fortuna di trovare nei sentieri della
vita l'uomo del loro cuore e son rimaste ragazze.
Non per questo sono infelici, ma bastano a sè stesse e dedicano
la loro vita ad uno dei tanti scopi, ai quali possiamo dirigere
la nostra navicella.
*
* *
Il nostro paese (làsciamelo dire in tutta confidenza) a questo
riguardo è uno dei più arretrati e noi serbiamo in tutta la sua
vigoria l'antico pregiudizio, che vecchia ragazza sia sinonimo di
_paria_ del sesso femminile.
*
* *
Questo pregiudizio si andrà perdendo poco a poco col crescer
della civiltà e man mano noi educheremo le donne, perchè prima di
tutto bastino a sè stesse e alla loro felicità.
Io ti ho educata a questo modo, angelo mio, sperando che andrai
incontro a tempi migliori dei miei.
*
* *
Troverai nei romanzi e nelle poesie, che il primo amore è l'amore
vero, l'unico amore, l'amore per eccellenza.
Nulla di più falso. Lo stesso varrebbe dire che il primo quadro
d'un pittore deve essere l'ottimo fra tutti quelli che egli farà
nel corso della sua vita; che il primo discorso, il primo libro,
la prima statua, la prima opera in musica saranno ciò che di
meglio faranno il deputato, l'autore, lo scultore, il maestro.
*
* *
Anche l'amore è un'opera, in cui cuore e ingegno e sensi devono
darsi la mano concordemente per rizzare quel tempio, in cui si
deve trovare la massima felicità; per intrecciare quel nido, in
cui deve allevarsi e crescere una famiglia.
*
* *
Le prime opere hanno tutte le imperfezioni dell'incertezza,
dell'inesperienza, dell'ignoranza.
*
* *
Il primo giovane piacente, che ti guarda negli occhi e cogli
occhi suoi ti dice d'amarti, ti piace anche soltanto perchè ti
guarda a quel modo e tu sei disposta a trovarlo bello e buono e
perfetto.
Egli incomincia subito e involontariamente a farsi più bello, più
buono, più perfetto; per piacerti, per conquistarti, per
guadagnarsi il tuo amore.
E tu dal canto tuo colla poesia della giovinezza accresci ancora
di tuo la sua falsa bellezza; e senza saperlo vi ingannate a
vicenda.
E poi quando al suo _ti amo_, rispondi a lui colla stessa sua
parola, ti trovi legata colla solennità di una promessa,
fors'anche di un giuramento.
L'amor proprio allora si associa all'amore, e non c'è lima che
possa intaccare la catena che ti sei legata al tuo piede. Se ti
accorgessi troppo tardi di esserti ingannata, lotteresti con
tutte le tue forze contro la ragione, che vorrebbe illuminarti.
Saresti capace non solo di chiuder gli occhi, ma anche di
accecarti per non vedere la verità. Poveretta, saresti schiava
per opera delle stesse tue mani.
*
* *
Lascia dunque che il giovane ti dica cento volte: _ti amo_; prima
che tu gli risponda colle stesse due parole, ch'egli con ardente
impazienza aspetta dal tuo labbro.
Anzi fa di meglio: impediscigli col tuo contegno ch'egli dica
quelle parole, e se nel calore dell'ammirazione le dicesse, non
lasciargliele dire una seconda volta.
In ciò le donne sono maestre e tu potresti dar lezione a me.
*
* *
Intanto se quel giovane ti piace, continua a studiarlo e
confrontalo con altri; sia che ti guardino o no.
Il matrimonio deve essere una scelta e non si può scegliere senza
far confronti.
Più il confronto si farà fra molti, fra moltissimi; e più
probabilmente la scelta sarà ottima.
*
* *
Non esser mai impaziente per deciderti. L'impazienza è sempre
segno di debolezza.
*
* *
Tu conosci il celebre generale romano, che vinse le guerre,
aspettando, aspettando sempre.
E tu vincerai la massima fra le battaglie della vita, aspettando,
aspettando lungamente, aspettando sempre.
Io ho fatto una statistica grossolana di molti matrimonii caduti
sotto i miei occhi e dividendoli fra quelli fatti da giovanette
molto giovani e gli altri conclusi in età più matura; ho trovato
in questa seconda categoria un numero molto maggiore di unioni
felici.
*
* *
Nei casi dubbi non consigliarti che colla tua mamma.
Le amiche, anche le migliori, in fatto d'amore sono giudici
pericolosi. L'invidia entra pur troppo non chiamata nei loro
consigli.
Se vuoi consultare le amiche, fallo accademicamente, per semplice
curiosità; non già per dar peso ai loro responsi.
In ogni caso poi fidati delle amiche già maritate e non delle
fanciulle. In queste, invidia e inesperienza possono mettersi
assieme per trarti in errore.
*
* *
Il disaccordo fra un uomo e una donna, che si uniscono coi
vincoli del matrimonio, può esser triplice.
Per via dei sensi.
Per via del cuore.
Per via dell'intelligenza.
La massima delle infelicità nasce dall'avere in una volta sola
tutti questi tre disaccordi.
La massima delle felicità si ha dall'alleanza di tutti e tre
questi accordi.
*
* *
La simpatia estetica, l'ammirazione della bellezza ti mettono
sulla strada per avere il primo accordo.
L'aver sempre le stesse opinioni nelle questioni del sentimento,
il capire e il cercare le stesse idealità, ti conducono
all'accordo dei cuori.
L'amare gli stessi libri, gli stessi quadri, l'avere gli stessi
gusti intellettuali, ti portano alla concordia dei pensieri, che
è quanto dire al paradiso in terra.
*
* *
Non credere però, mia cara, che non vi siano altri disaccordi,
all'infuori di questi che ti ho classificati in tre categorie.
Ve ne sono cento e mille e mille altri minori, piccoli,
piccolissimi, che stanno ai primi come i colpi di spillo stanno
alle pugnalate.
*
* *
Questi disaccordi minori non sono sensibili che per le orecchie
delicate; ma le donne sono tutte delicate, e tu, amor mio, sei
delicatissima per natura e per educazione.
E ti conosco tanto, bamboccia mia, da poterti dire, che
preferiresti un disaccordo completo a un rosario di piccole e
continue disarmonie.
Del resto si può uccidere un uomo anche a colpi di spillo. è
questione di avere la crudeltà che basti per questa operazione.
*
* *
Le piccole disarmonie nascono dal guardarsi, dal parlarsi, dal
gestire, in un modo piuttosto che in un altro.
*
* *
Ebbene molti uomini e quasi tutte le donne, che si imbarcano
sulla nave del matrimonio, sono nel caso di quel facchino, di
quell'avvocato, di quel giornalista, di quel medico, che si
volessero improvvisare macchinisti, senza che nessuno di essi
conosca il meccanismo di una locomotiva.
E c'è questo di aggravante; cioè che la locomotiva è una macchina
molto più semplice di un cuore, di un organismo, di un cervello
umano.
*
* *
Quando penso a tutto questo, son tentato quasi quasi di dar
ragione ai molti, che a furia di meditare sui mille pericoli e
sui cento trabocchetti che circondano il matrimonio, rimangono
celibi per tutta la vita.
*
* *
Tu però, caruccia mia, sei stata educata in modo da esser felice
e da far felice chi ti avrà scelta per isposa, e la tua indole è
così buona, è così soave, così delicata da rimediare a qualche
magagna, che potesse aver il tuo compagno.
E tu lo saprai cercare, e lo saprai trovare l'uomo che ti faccia
felice moglie e madre fortunata.
Hai sempre amato le cose difficili, e il matrimonio è la
difficilissima delle difficili cose.
*
* *
Tu hai sempre a pensare, che il matrimonio è la somma di due
esistenze, di due corpi, di due anime, e che messi l'uno accanto
all'altro avrebbero a dar per risultato non solo dei figliuoli,
ma la perfetta felicità di un uomo e di una donna.
In certi momenti un _oh_ o un _ah_ fuori di tempo può essere uno
schiaffo. La parola _caro_ pronunziata in una certa maniera può
essere un insulto, e un sospiro può essere una tragedia.
Ah! se gli uomini conoscessero le donne e le donne conoscessero
gli uomini prima di abbordare il santissimo sacramento del
_conjungo_; quanti matrimonii di meno, ma anche quanti e quanti
infelici di meno!
*
* *
Io ho sempre raccapricciato davanti alla presunzione goffa e
sfacciata, con cui uomini e donne si danno la mano per sempre,
senza conoscersi a vicenda non solo; ma senza conoscere di che
sia fatta la pasta umana, senza neppure conoscere l'abbici dei
caratteri, senza aver letto la prima pagina del libro dell'anima.
*
* *
La colpa è di nessuno e di tutti.
Di nessuno, perchè si nasce in una società fondata su false basi,
perchè si imparano cento cose inutili, e si nuota nella più
tenebrosa ignoranza di ciò che è necessario al sano esercizio
della vita.
Quanti e quante hanno letto Dante e Shakespeare, quanti e quante
suonano del Beethowen e parlano in tre o quattro lingue, e non
sanno che cosa sia il _carattere_; quali ne sieno le origini,
quali le leve per muoverlo verso il bene, per affinarlo, per
attonarlo.
*
* *
Che cosa diresti, amor mio, se morto improvvisamente il
macchinista di un treno in partenza, si chiamasse il primo
venuto; fosse poi un facchino o un avvocato; un giornalista o un
medico e gli si dicesse:
--Animo, montate in macchina e guidate il treno alla sua
destinazione.
*
* *
In questa somma incomincia a metter tu per conto tuo più che puoi
di amore, di bontà, di indulgenza, di tenerezze, di accorgimenti
delicati e di care divinazioni; e allora la cifra totale riuscirà
una grossa somma, anche se il compagno tuo mettesse una piccola
parte di quei tesori dell'anima, che sono poi gli elementi della
felicità.
*
* *
Scusami il paragone troppo grossolano e troppo aritmetico;
supponi che la felicità sia rappresentata dal numero cento e a
raggiunger questa cifra dovete concorrere in due.
Se tu incominci a metter di parte tua settanta o ottanta, al tuo
compagno non rimarrà che a dare una quota di trenta o di venti, e
la somma tornerà sempre.
Se puoi, dà novanta; sarà più facile trovare chi ti dia dieci.
Conosco matrimonii molto felici, nei quali la donna dà
novantanove, e l'uomo non dà che uno. La buona moglie non
rimprovera il socio troppo avaro. La somma torna sempre e la
felicità è perfetta.
Guai a te, se tu pretendessi dal marito che desse non più, non
meno di cinquanta. La tua esigenza lo offenderebbe e il suo
tributo alle gioie domestiche scenderebbe subito a proporzioni
minime.
*
* *
Pur troppo la donna deve dar sempre più di quel che riceve.
Essa è destinata dalla natura al sagrifizio, alla generosità, e
sopra ogni altare incensi e tributi e adorazioni son più di
femmine che di uomini.
*
* *
Esigi poco, esigi pochissimo da tuo marito, e avrai fatto più che
metà del cammino, che conduce alla pace domestica.
Così facendo, tutto il di più che ti sarà concesso dall'uomo
sempre egoista e sempre meno amoroso della donna, ti sembrerà un
dono inaspettato, una cara sorpresa.
*
* *
Se invece ti appoggiassi al diritto delle genti e misurassi il
dare e l'avere nella felicità della famiglia colla bilancia della
giustizia, ti troveresti dinanzi alle più spiacevoli sorprese,
alle più amare delusioni.
*
* *
Le fanciulle quando prendono marito conoscono l'uomo dai romanzi.
è per essi o un angelo o un demonio; e siccome naturalmente lo
sposo non può, non deve essere un demonio, non può e non deve
essere che un angelo.
Invece gli uomini, quelli che passeggiano per le vie della città
e non nelle pagine dei romanzi, non sono che rare volte demonii;
ma angeli non sono mai.
Sono animaletti graziosi (quando son belli), che amano sè stessi
prima di tutti gli altri e quindi anche prima della sposa; sono
bipedi implumi ed anche intelligenti, che nella moglie cercano un
aumento di agiatezza o una governante che diriga la casa, una
macchinetta gentile e bella, con cui si possa perpetuare la
famiglia; una compagna nelle gioie, una infermiera nelle
malattie.
Essi si mettono un po' di poesia sulla pelle, come mettono i
guanti sulle mani e le scarpe sui piedi; ma se la levano subito,
appena sono nell'intimità della loro casa. E come gettano via i
guanti sulla soglia e si levan le scarpe nella camera da letto
per mettersi le babbuccia, così si levan la poesia, che li
infastidisce e li secca.
*
* *
Non immaginarti mai, che un fidanzato serbi intatta la poesia di
cui ti circonda, una volta che sarà divenuto marito.
L'uomo è come l'usignuolo; non canta che quando fa all'amore.
E almeno l'usignuolo ad ogni primavera rinnova i suoi divini
gorgheggi.
L'uomo è meno di lui, perchè non mette fuori i trilli della sua
poesia che in una sola primavera; quella del pretendente.
Talvolta anzi è così povero di poesia, che è costretto a
comprarla o a prenderla in prestito.
Fra gli altri ho conosciuto un poetico giovanotto, di cui ebbi
occasione di leggere le lettere, che scriveva alla fidanzata.
Erano letteralmente copiate dal Foscolo e dal Goethe. Meno male
che la sposa non aveva mai letto nè _Jacopo Ortis_ nè il
_Werther_.
*
* *
Son cose tristi e brutte queste che ti scrivo, o angelo mio, ma è
meglio saperle prima che poi.
Serba per te sacra e intatta la poesia che hai nell'anima e che
io e la mamma abbiamo sempre coltivato in te. Con essa ornerai
anche la prosa di tuo marito. Purchè in casa ci sieno dei fiori,
che cosa importa sapere in qual giardino son stati colti?
_Frammenti di un codice di diplomazia matrimoniale._
Una volta che il pretendente è divenuto fidanzato e da fidanzato
marito, il problema della felicità domestica non è ancora
risolto.
Lo dicono tutte le centinaia e migliaia di infelici, che invocano
il divorzio e invano lo aspettano da un Parlamento imbelle e da
Ministeri fatti a sua immagine e somiglianza.
*
* *
E ben raro che in un matrimonio infelice la colpa sia tutta del
marito o tutta della moglie.
Nel più dei casi la colpa è di tutti e due. Talvolta se la
dividono in due metà così eguali, che davvero, guardandosi in
faccia, potrebbero ridere e gettarsi l'un l'altro con ironia
semigaia un
_Tu l'as voulu, Georges Dandin!_
Comincia dunque tu stessa, figliuola mia, a portare alla grande
associazione della felicità in due, tutta la tua parte di
contributo.
Tu devi considerare tuo marito, come una parte di te stessa, di
cui devi occuparti, come lo fai per le tue mani, per la tua
faccia, pei tuoi visceri.
Tu governi mani e faccia e visceri, colle regole dell'igiene e
sulla guida della tua esperienza.
E tu devi governare questa altra metà di te stessa, che è il tuo
sposo, colle regole di una sana e sapiente diplomazia.
*
* *
Non spaventarti di questa brutta parola.
Se nel mondo politico diplomazia vuol dire l'arte d'ingannarsi a
vicenda, nel mondo del matrimonio significa soltanto saper
maneggiare l'altra metà di sè stessi con accorta delicatezza, con
affetto costante, con profondo conoscimento del cuore umano.
*
* *
E per mostrarti subito l'indirizzo di questa diplomazia domestica
ti dirò, che deve ispirarsi tutta quanta al più santo dei
precetti fondamentali del Vangelo, corretto però e migliorato:
Il Vangelo dice:
_Amerai il prossimo come te stesso._
E la moglie deve dire:
_Amerai tuo marito più di te stessa._
A meno di aver sposato un uomo indegno di questo nome, un egoista
di ghiaccio, un vizioso da bordello, un eunuco del cuore; egli ti
amerà sempre e molto, pur che tu lo ami sempre e molto.
Amor che a nullo amato amar perdona
è un verso solo della _Divina Commedia_, ma è divino davvero,
perchè governa quasi tutta la legislazione dell'amore, e finchè
l'uomo pesterà coi suoi piedi questo pianeta, potranno mutare le
leggi, le consuetudini dell'umana famiglia, ma l'amore sarà
sempre il figlio dell'amore.
*
* *
Esigi poco, pochissimo da tuo marito, ed egli ti darà molto,
moltissimo.
Sii con lui molto indulgente e purchè egli sia onesto e ti ami,
non impennarti ad ogni sua distrazione, ad ogni suo capriccio.
Gli uomini, vedi, non sono come le donne, che all'amore portano
tutti i tesori del sentimento, tutti gli ardori della passione,
tutto ciò che sono, che sanno, tutto ciò che valgono; per cui
anche i peccati delle donne son quasi tutti mortali, perchè
sacrilegi fatti ad un Dio.
Gli uomini amano come mangiano, come bevono, come camminano.
L'amore è in essi una funzione della vita, non tutta la vita.
Molti dei loro peccati d'infedeltà, anzi quasi tutti, non sono
che veniali. Mezz'ora dopo scordano il peccato e la peccatrice, e
ritornano più teneri, più appassionati alla loro fida compagna.
*
* *
Quante donne per eroica protesta, per intolleranza eccessiva
hanno disfatto una famiglia, forse due famiglie; tagliando la
ritirata al marito, facendo d'un suo capriccio una passione,
d'una sua contravvenzione al galateo un delitto di Corte
d'Assise.
*
* *
Molte altre invece con una ceffatina, che pareva una carezza, con
un rimprovero che pareva uno scherzo, hanno ricondotto in un'ora
all'ovile la pecorella smarrita....
--_So tutto, ma ti perdono.... So che tu mi ami sempre_....
Qual è l'uomo che a queste parole non si sente arrossire fin nei
capelli, che non si inginocchia dinanzi a lei e suggella il suo
perdono con tenerezze più calde, con una passione rinnovellata di
novelle frondi; con raddoppiato amore?
*
* *
Se il tuo compagno non ha il coraggio di confessare la sua colpa,
se si arrampica sulla frana scoscesa delle bugie, lascialo dire;
ridi, sorridi e fagli supporre che gli credi; anche quando ti
dice le più assurde cose di questo mondo; anche quando si rende
ridicolo, come un bambino colto in fallo.
Ho sempre ammirato una donna sublime, che del resto fu adorata
fino alla morte da suo marito, perchè finse di credere, che
ritornato a casa a tarda ora, aveva scambiato un letto per un
altro.
Per molti, l'apoteosi della viltà o della stupidità, per me una
delle forme più alte dell'amore eroico e della sapienza
domestica.
*
* *
Io ti auguro e spero, che di questi eroismi non avrai punto
bisogno, ma si deve sentirsene capaci.
Aggiungo però subito, che tuo marito deve esserne degno.
Al vizioso abietto, all'uomo vile e senza carattere, nessuna
misericordia, nessuna pietà.
Quando hai perduta la stima per il tuo marito, distaccati da lui,
e se non lo puoi per legge segna col tuo dito una linea di fuoco,
che ti separi da lui.
Il peccato di capriccio non deve essere il tradimento quotidiano
e vigliacco; la debolezza non deve esser paralisi.
*
* *
Nel contrasto dei gusti, delle idee, dell'ordinamento della
famiglia, cedi sempre nelle piccole cose per poter insistere
nelle grandi.
La contraddizione perpetua, anche se nella più parte dei casi è
ragionevole, è una ruggine, che corrode l'amore e lo consuma.
Se vuoi saper volere nelle questioni, che toccano la tua dignità
o l'educazione dei tuoi figli, devi essere accondiscendente e
cedevole in tutte quelle cose di poca importanza, che riguardano
il vestire, la cucina, le relazioni con persone indifferenti.
*
* *
Quando vuoi (e ne hai tanto diritto quanto lui), la tua volontà
deve appoggiarsi alla ragione, non mai al puntiglio.
*
* *
E volendo, adopera le forme più soavi del desiderio, e il
condizionale più spesso dell'indicativo presente.
L'uomo è così abituato a comandare, è così pieno e convinto del
suo diritto di padrone, che si ribella al _voglio_ e cede al
_vorrei_: s'impenna al _farai_, e ubbidisce al _non ti pare?_
Questa è diplomazia ed è sapienza: è politica, ma è anche virtù.
Nelle più difficili intraprese, quando devi persuadere tuo marito
a far cosa giusta, ma che non gli garba, devi piegare parole e
cose, in modo che gli sembri di voler egli stesso ciò che tu
desideri da lui.
Un marito di mia conoscenza si vantava di avere una moglie, che
lo assecondava in tutto e non lo contraddiceva mai, nè nelle
grandi, nè nelle piccole cose.
E invece era sempre lei che voleva, e, per fortuna della
famiglia, voleva sempre cose giuste e buone; ma dal suo
dizionario aveva cancellato il verbo volere e il verbo comandare.
Erano per lei vocaboli affatto inutili e li credeva anche
pericolosi.
Invece le donne, che li hanno sempre sulle labbra, non riescono
mai a volere e a comandare, e si rassegnano brontolando a una
schiavitù, che le umilia e le disonora.
L'uomo maschio è un animale feroce, ma che si ammansa colle
carezze, coi baci, colle parolette soavi. Si ribella e mostra i
denti a chi alza la voce o lo picchia. Anche i leoni si domano
col latte più che colle busse.
*
* *
Tu adori tua madre, e tua madre è una santa, che non è vissuta
che per me e i suoi figliuoli; ma quando piglierai marito, tu
devi viver sola con lui.
Ti auguro, che tu possa fondare il nuovo alveare accanto
all'antico, a quello dove sei nata; ma in ogni modo nè tu in casa
dei tuoi suoceri, nè tuo marito in casa di tua madre.
Il tuo fidanzato, nelle ore di estasi, quando tutto il cuore si
affoga nel miele degli affetti più dolci e più generosi, di certo
ti proporrà di non separarti dalla tua mamma.
Non accettare quel dono, ch'egli sarebbe il primo a rimpiangere.
Non è invano, che i proverbii e la commedia e la satira hanno
sempre perseguitato col loro umorismo, coi loro sarcasmi il
suocero e la suocera.
Quei proverbii, quelle sferzate sono il succo di una secolare
esperienza.
So anch'io, che vi sono famiglie patriarcali, dove un nido si
appoggia sull'altro in un'unica atmosfera di quieta beatitudine.
Son rare eccezioni, che fanno grande onore all'umanità, ma sono
eccezioni e son rare, e quando si applica il calcolo di
probabilità all'arte della vita, si deve sempre fondarlo sulle
medie e sulla maggioranza.
Son troppe le ragioni di dissidio, di contrasti, son troppi gli
attriti di gelosia, di influenze, di invidie fra suocera e
genero, perchè i loro rapporti possano mantenersi in un cielo
perpetuamente sereno.
Non metter mai tuo marito nel triste dilemma di offender tua
madre o di darti torto.
Amatevi da lontano invece di odiarvi da vicino. Siate cortesi fra
di voi e tu sii coi tuoi suoceri, coi tuoi cognati, con tutti i
membri della nuova famiglia di un'amorevolezza piena di riguardi;
senza buttarti ai nuovi affetti con prorompente imprudenza.
è meglio metter da parte qualche tenerezza di riserva, nel caso
in cui la meritassero. Farsi invece restituire una parte di ciò
che si è dato, è cosa dura e amara e semina rancori e pentimenti
per l'avvenire.
*
* *
Non andare in collera, figliola mia adorata, se sento il bisogno
di darti anche questo consiglio:
_Non dir mai una sola, la più piccola delle bugie a tuo marito_.
Ti so sincera, ti so incapace di mentire, ma la nuova tua
posizione, complicando d'assai i tuoi rapporti cogli uomini e
colle cose, ti porrà spesso davanti a questo crudele dilemma:
O dire una bugia.
O dare un dispiacere a chi si ama.
Il più delle donne davanti a questo bivio, novanta volte su cento
dicono la bugia.
E la dicono in casi meno difficili, soltanto per paura di esser
sgridate o di doversi difendere e giustificare o di dover dare
lunghe e intricate spiegazioni.
Alessandro tagliò il nodo famoso colla sciabola e il suo taglio
attraversò i secoli, celebrato e immortale.
Le donne ogni giorno tagliano i piccoli nodi che si formano tra
le mani, nel dipanare l'intricata matassa della vita, con quella
piccola spada, che hanno sempre in tasca, sul tavolino, in letto,
da pertutto; e che si chiama _bugia_.
Emma, non mentire mai a tuo marito!
Qualunque sia il dilemma, che ti si para dinanzi, qualunque sia
il nodo che ti si forma fra le dita, non scioglierlo mai colla
menzogna.
Sarai degna della tua stima, e tuo marito ti metterà sopra un
piedestallo così alto, da potersi dire un altare.
Un uomo può esser fiero di avere una moglie giovane e bella, di
sentirla lodare da tutti per la sua coltura, per il suo spirito;
di nessuna cosa sarà tanto orgoglioso, come di poter dire:
--_Mia moglie non sa mentire_.
In questo secolo tartufo, in cui le esigenze estetiche e morali
impongono ogni giorno all'uomo virtù che non ha, in cui la
menzogna ci avviluppa e ci ravvolge dal capo ai piedi, come una
ragnatela bavosa, che al passeggiare in una vigna abbandonata ci
si appiccica schifosa e fetente alla faccia; il conoscere un
poggio alto e sereno, dove non giunga la bugia e il poter
rifugiarvisi fidenti e sicuri, è tale una grandezza, tale una
letizia per l'anima da bastare a farci benedire la vita.
Il bottegaio ci avvelena colle sue falsificazioni, il medico ci
inganna colla sua pietà; i bassi ci adulano per averne favori, e
gli alti ci promettono protezione col labbro, dimenticandoci
subito nel pensiero. In chiesa vediamo molti prostrati, pochi
credenti; nel Parlamento udiamo molte parole patriotiche, vediamo
ben pochi sagrifizii; nelle famiglie intorno a noi quanti
tradimenti e quante simonie!
Vi è però in tutto questo deserto un'oasi sempre verde, dove
nell'erba non v'è serpenti, sui cespugli di rose non vi son
spine, dove l'ape non ha pungolo e il cielo non conosce nubi; e
quest'oasi è l'anima della nostra moglie.
Là ci rifugiamo fidenti e sicuri per sentirci udire un _sì_ che è
sempre _sì_, un _no_ che è sempre _no_. Là su quella pietra di
paragone portiamo il falso oro, le false gemme, per sapere cosa
sono e cosa valgono: là portiamo tutte le piccole e grandi
ipocrisie della vita per vederle sfumare nell'aria come una
pagliuzza, che arde e si consuma sotto i raggi concentrati del
sole.
Ah quanto bene fa all'anima il rifugiarsi in un cuore sincero,
francamente, coraggiosamente e sempre sincero! Come ci si allarga
il petto, come i polmoni assorbono avidi quell'aria fresca,
tonica inebbriante della verità sicura. Come ci sentiamo
consolati di esser uomini e fieri, che una di queste rare
creature adamantine sia nostra, tutta nostra!
Qualcosa di simile si prova quando, dopo aver respirato per molti
giorni l'aria umida, palustre, fangosa della pianura del Gange si
sale sull'altipiano dell'Imalaia; bruciando tutti i miasmi,
lavandoci dai brividi della febbre e dall'afa dei pigri letarghi.
*
* *
Se tutte le donne sapessero l'onnipotenza della sincerità,
rinunzierebbero subito alle scappatoie meschine delle piccole
bugie e alla tattica delle grandi e ingegnose menzogne.
Le donne mentiscono spesso e mentiscono bene; ma non vi è arte
che basti, per tenebrosa e fine che essa sia, che valga a
renderle infallibili.
Or bene, una sola menzogna mal riuscita ti fa perdere il frutto
di tutte le altre fortunate. Da quel giorno, tutta la sincerità è
inutile, ogni affermazione è dubbia; accanto ad ogni _sì_ e ad
ogni _no_ tuo marito mette un punto d'interrogazione. Tu hai
perduta per sempre la tua santità, hai profanato il tempio, in
cui il tuo compagno ti aveva collocato.
Non si è vergini che una volta sola nella vita. Tu colla prima
menzogna perdi quell'altra verginità forse più preziosa, che ti
dichiara incapace di mentire.
Tu porterai a tuo marito tutta una corona di fiori: la tua
giovinezza, la tua bellezza, le tue grazie; ma pur troppo l'uno
dopo l'altro questi fiori avvizziranno. Ma se fra quei fiori
avrai intrecciato anche la sincerità, questa rimarrà fino
all'ultimo respiro sempre fresca e sempre profumata, e tuo marito
alzerà il capo superbo ad ogni volta, che davanti a tutti potrà
dire: _Lo ha detto lei!_ sinonimo di verità indiscutibile,
sinonimo di un dogma, che non ha nè può avere miscredenti.
E credilo, gli occhi suoi si inumidiranno di tenerezza, quando
egli aggiungerà, quasi a conferma delle prime parole:
_Mia moglie non ha mai mentito!_
*
* *
Il tuo sposo ti giurerà eterno amore e tu giurerai a lui amore
eterno. L'eternità non è soltanto di Dio, ma di tutte le labbra
degli innamorati.
Lo ha detto anche il Gautier:
_Toute grande passion a la pretention d'être éternelle, et il est
fort commode de se donner les bénéfices de cette eternité sans en
supporter les inconvenients._
Ma invece ogni affetto, per forte e sincero e fido che sia, deve
attraversare i tre stadii, pei quali passa inesorabilmente ogni
cosa viva e che alla vita appartiene.
_Nascere, crescere e morire._
Quanto al morire ammetto con te, che il tuo amore morirà, ma con
te, e che l'amore di tuo marito non tramonterà che col tramonto
della sua vita.
Ma, c'è un _ma_. Quanto al crescere, sarà un movimento
continuato, come tu forse te lo immagini, o avrà le sue soste, le
sue intermittenze?
Di queste due cose la vera è la seconda. In ogni amore vi è un
periodo, in cui il nostro cuore e quello della persona amata han dato
quanto potevan dare e al disopra dell'umano non vi è che il divino,
creato dalla nostra fantasia e dalla sete dei superlativi.
Siccome però il crescere dell'amore è la sua cosa più bella,
dobbiamo far di tutto perchè il crescere sia lento, lentissimo, e
duri molto, moltissimo.
Lo stesso Gautier ha detto che, _en amour comme en poésie rester
au même point c'est reculer_, e benchè non sia questa tutta la
verità, vi è però dentro una grande verità.
Dunque tu devi fare in modo, che di quando in quando, per salute
o per affari ti lasci sola; ed egli rimanga solo.
Non seguirlo da per tutto e sempre, nè vantarti mai di non poter
stare un giorno solo senza di lui.
Credo che soffrirai della sua assenza e che anch'egli dividerà il
tuo dolore; ma saranno due dolori, che prepareranno gioie
infinite per voi.
Dopo un lungo digiuno ogni cibo ci sembra squisito; dopo una
lunga sete ogni acqua ci par deliziosa.
Conviene che di quando in quando proviate la sete dei vostri
baci, la fame delle vostre carezze.
è questo il modo più sicuro per conservare l'amore allo stesso
stato di tensione deliziosa; ed io, che ho sempre adorato tua
madre e morirò adorandola, fino dal primo anno del nostro
matrimonio, mi allontanai da lei per otto o dieci giorni, e fino
ad oggi, or con un pretesto ed ora con un altro, ho sempre
seguito la stessa abitudine.
Ad ogni assenza teneva dietro una nuova luna di miele, e fino ad
ora credo, che il nostro amore è sempre nel periodo del crescere.
*
* *
Il desiderio è la pianta da cui nascono tutte le gioie della
vita; finchè la manterremo viva e la coltiveremo con intelletto
d'amore, noi saremo sicuri di raccoglierne sempre i frutti.
Invece i più fra gli uomini fanno come i selvaggi, che per non
aver la fatica di coltivar la pianta o di arrampicarsi sopra di
essa per averne i frutti, con un colpo di ascia buttan giù
l'albero.
E così facciamo noi, quando in una volta sola soddisfacciamo a
tutti i desideri, uccidendo la pianta che deve darci la gioia.
Quando tu sarai sposa da qualche mese, capirai tutta l'importanza
di questo mio consiglio, che basta da solo ad assicurare le gioie
sempiterne nel nido domestico.
In certe cose non dir sempre di _sì_ a tuo marito.
Fa come certi mercanti, che scrivono sulla loro bottega:
_Oggi non si fa credenza, domani sì_.
E tu a certe domande rispondigli:
--Oggi no, mio caro, domani forse....
E fa che il domani divenga un posdomani e un futuro remoto....
forse eterno.
Tu devi aver sempre per lui qualcosa da dare, e invece l'amore,
che è spensierato e folle, ti suggerirà forse di dar tutto oggi e
subito ed è anche per questo, che il più degli amori ha vita così
breve e fragile.
*
* *
Mi ricorderò sempre, che in una conversazione, a cui prendevano
parte uomini vecchi e giovani e donne belle e letterati e
scienziati, tutto un mazzo di carissime persone, si lamentava che
i fiori, che sono tra le cose più belle di questo mondo,
durassero così poco.
Una signora sentimentale esclamò:
--I fiori son come l'amore....
Un'altra più seria e ottima moglie e ottima madre di famiglia
soggiunse:
--Non tutti i fiori, nè tutti gli amori sono fragili e caduchi.
Perfettamente, disse un professore di botanica:
--Vi sono fiori di orchidee che durano mesi sullo stelo e anche
recisi son freschi per settimane.... E i sempiterni poi col loro
nome dicono la loro durata.
_La sentimentale_. S'intende sempre parlare dei fiori in
generale, e non delle eccezioni.
_Il botanico_. Anche i fiori comuni si possono conservare
indefinitamente con qualche artifizio, e chi è stato a Berlino o
in Scandinavia deve aver ammirato fra vetri e vetri delle
finestre mazzi stupendi di fiori imbalsamati, coi loro vaghi
colori.
_La sentimentale_. Sempre roba imbalsamata....
_Un'altra_. Vorrei sapere però, come si possono imbalsamare gli
amori, per serbarli sempre freschi e coloriti.
_Il botanico_. Coll'acido fenico, col sublimato corrosivo...
colle pomate arsenicali....
Qui un coro di grida d'orrore venuto da ogni parte coperse la
voce dell'oratore.
--Puah! Orrore! Che bestemmia!... Già questi scienziati son
sempre materialisti, brutali, insopportabili.... Morte alla
scienza!...
Un professore di psicologia, che aveva fino allora taciuto e che si
accontentava di guardare le belle signore, modestamente fece
osservare, che il botanico non aveva detto alcuna bestemmia, non aveva
profanato nè punto nè poco il sublime sentimento dell'amore; perchè
anche gli affetti subiscono le influenze esterne e interne e possono
per virtù di esse crescere, diminuire, risorgere o morire del tutto.
Quindi, anche per l'amore (concludeva egli) vi devono essere delle
forze, che lo aiutano a vivere, che lo conservano, che gli concedono
una insolita longevità.... Tutto sta a trovarle e a saperle adoperare
sapientemente.
_La sentimentale_. Vorrei un po' sapere che cosa conserva
l'amore.
_Il psicologo_. Per esempio la fedeltà dei due che si amano.
_La sentimentale_. Questo è un vero e proprio circolo vizioso. Se
si serbano fedeli è perchè continuano ad amarsi, e allora non c'è
bisogno di alcun antisettico.
_Un'altra_.... Il miglior conservatore dell'amore è la gelosia.
_Un'altra_ (maliziosamente). No, è l'abilità di far sperar sempre
e di non conceder mai.
_La sentimentale_. Davvero? Questo mezzo mi sembra il miglior
modo per uccidere l'amore di morte violenta.
_Un'altra_. Credo che ciò non faccia grande onore al nostro
sesso, ma l'ottimo degli antisettici in amore è la civetteria.
_Un'altra_. Bravissima! Soprattutto non lasciarsi veder mai
spettinata o mal vestita.
_Un'altra_. E tener sempre alto il biscottino, che si vuol dare.
Non avete veduto come i cagnolini si alzano sui piedi di dietro e
stanno lungamente in una posizione incomodissima, quando si offre
loro a quel modo un bocconcino ghiotto?
Quasi tutte le signore presenti a quel convegno avevano parlato:
soltanto una, la più vecchia, aveva sempre taciuto.
Era vecchia, ma pretendeva ancora di esser giovane, e cogli
artifizii della sarta, del profumiere e del tintore riusciva a
lottare con qualche successo nelle penombre dei salotti mal
illuminati.
Battè due o tre volte il ventaglio sul tavolino, quasi volesse
chiamar l'attenzione di tutti su ciò che stava per dire: nè
contenta di questo, aspettando il silenzio generale, si
gargarizzò la gola con due o tre colpi di tosse, poi dall'alto
esclamò:
--Signori e signore; non so che cosa debbano fare gli uomini per
conservare il nostro amore. è cosa che li riguarda ed io non me
ne curo. So però ciò che noi dobbiamo fare per tenerli sempre
inginocchiati ai nostri piedi....--
E tacque.
Siccome il fine del discorso però non veniva mai, da varie parti
della sala sorsero domande impazienti:
--Che cosa è dunque per voi il miglior antisettico dell'amore?
Nuova pausa, nuovo batter del ventaglio, e poi dall'alto, anzi
dall'altissimo:
--_Il disprezzo!_
Allora un vecchio venerando, che non aveva mai parlato, che aveva
soltanto sorriso d'un sorriso volteriano a tutte quelle contese; un
vecchio, che non era professore di psicologia, ma aveva sempre
studiato uomini e donne con grande amore e grandissima indulgenza,
disse:
--Mi permettete di dire anche la mia? Se non altro ho vissuto più
lungamente di voi tutti e ho veduto più uomini e più donne di
tutti voi....
--Sì, sì, fuori l'antisettico migliore....
--L'ottimo fra tutti i preservativi dell'amore, o signore
amabilissime e riveriti signori.... è, è....
--è, è?
--_è il pudore!_
Tutti e tutte tacquero; chi per sorpresa, chi per subitanei
ricordi di un passato già molto lontano, chi per il dolore di non
capire....
*
* *
Eppure, figliuola mia, quel vecchio era il solo fra tutti ad aver
ragione, e quando tu sarai moglie e da qualche tempo, gli darai
ragione.
PARTE TERZA.
LA CONCLUSIONE DEL LIBRO.
Questo mio libro non è un romanzo e neppure un trattato
sociologico o psicologico; ma è per lo meno un libro; perchè ha
un frontispizio e un indice, perchè è diviso in varii capitoli;
perchè ha un autore che l'ha scritto, e un editore, che ha voluto
fargli da padrino, e perchè spera di avere dei lettori e
soprattutto delle lettrici.
Ma questo libro non sarebbe un libro, se non avesse una
conclusione, e questa ve la dico in due parole:
Emma, dopo aver sentito l'amica e dopo aver letto e riletto e
spesso bagnato colle sue lagrime il manoscritto del babbo, sposò
l'ingegner Rinaldini.
Ed io che la conosco, posso anche dirvi che ha fatto bene, perche
è molto felice, e la sua felicità è di quelle che durano fino
all'ultimo respiro.
FINE.
INDICE
PARTE PRIMA. _IL RACCONTO._
CAPITOLO I. La bambina diventa donna Pag. 3
CAPITOLO II. Libri e fantasmi.--Sogni e realtà 9
CAPITOLO III. Il primo amore 20
CAPITOLO IV. La corrispondenza continua.--Compaiono sull'orizzonte
due altri pretendenti al cuore di Emma 39
CAPITOLO V. Il dilemma, anzi il trilemma.--La fanciulla si consulta
con un'amica e colla mamma. 55
PARTE SECONDA. _IL MANOSCRITTO DEL BABBO._
I. Consigli di un babbo alla sua figliuola per la scelta del marito 71
Il marito tiranno 77
Il marito debole 84
Il marito geloso 94
Il marito brontolone 102
Il marito avaro 110
Il marito libertino 119
Il marito stupido 128
Il marito fannullone 137
II. Le professioni rispetto alla felicità nel matrimonio 147
Il marito negoziante 155
Il marito banchiere 160
Il marito industriale 166
Il marito proprietario 169
Il marito artista 172
Il marito ingegnere 176
Il marito medico 179
Il marito avvocato 186
Il marito letterato 191
Il marito scienziato 195
Il marito politico 199
Il marito militare 203
III. Altri consigli del babbo a sua figlia nella scelta del marito 207
IV. Frammento di un codice di diplomazia matrimoniale 228
PARTE TERZA.
La conclusione del libro 257
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